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Gli orrori e l’inutilità dell’isolamento raccontati da uno che questa sofferenza la conosce bene
Di Marino Occhipinti, ottobre 2002
Mi è capitato tra le mani un articolo che Mario Salvati, detenuto a Tolmezzo, ha inviato in redazione, nel quale descrive le sue prospettive di ergastolano, o meglio dei due anni di isolamento diurno che deve scontare dopo i venti già trascorsi in galera. Mario si lamenta, a mio parere giustamente, del fatto che i due anni di isolamento interromperanno quel percorso risocializzante e rieducativo faticosamente intrapreso in questi due decenni trascorsi nelle patrie galere.
Di isolamento si può parlare con qualche ironia? In sostanza l’isolamento diurno non è altro che una pena accessoria, inflitta a chi ha commesso un reato per il quale la pena dell’ergastolo è troppo poco. In termini terra terra si potrebbe tradurre così: "Se in Italia ci fosse la pena di morte, ti avremmo già giustiziato". Se Mario fosse ancora qui gli direi con un po’ di ironia di non essere così drastico: preso dal pessimismo non si rende conto di essere un baciato dalla fortuna. Ma come? Pur di stare in cella singola c’è chi fa carte false, e tu non apprezzi le attenzioni che ti vengono rivolte. Le carceri sono al collasso, in alcuni istituti ci sono celle di 10 metri quadri occupate da otto-nove e anche più persone, stipate in letti a castello a tre piani (oltre non è possibile: il quarto detenuto bisognerebbe incastrarlo nel soffitto) e tu… Pensa: due anni di tranquille passeggiate nella tua bella vasca di cemento armato, nella solitudine più totale, senza nessuno che ti stressa con le solite lamentele da bar, pardon, da galera; la doccia da solo, senza file e il rischio di trovare l’acqua gelida d’inverno o bollente d’estate; mai una socialità, tanto i discorsi sono quelli di sempre, si finisce con l’annoiarsi. Dulcis in fundo eviterai persino di lavorare. Vabbe’, dovrai rinunciare al campo e alla palestra: ma dopo vent’anni di gattabuia, come l’hai definita tu, dovresti essere desideroso di un po’ di immobilità, che diamine!
Ma forse è il caso di parlarne più seriamente Mario l’ho conosciuto qui a Padova, e lo riconosco pienamente in ciò che ha scritto nella sua lettera: gioviale, sempre pronto a distribuire parole di conforto, iperattivo. Lo capisco, comprendo perfettamente le sue ansie ed i timori, dettati prevalentemente dall’assurdità di una misura inutile, anzi dannosa. Parlo con cognizione di causa perché l’isolamento diurno, anche se era "soltanto" di 9 mesi, l’ho terminato nel febbraio del 2001. Ho provato le sue stesse sensazioni, mi sono sentito come un naufrago che, dopo aver faticosamente remato per anni in un mare tempestoso e pieno di incognite, con poche speranze e un futuro incerto, molto incerto, tocca terra e si rende conto di essere tornato… al punto di partenza! Un giro immenso ed una fatica inutile per ritrovarsi al punto di partenza. Pensi che tutto sia stato vano e che, visto il risultato, non valga nemmeno la pena di riprovarci. Ma nelle cose, per riuscire, bisogna crederci fino in fondo.
E allora bisogna andare oltre l’idea di una pena che sia solo punitiva La pena deve tendere alla rieducazione del condannato, così recita più o meno l’articolo 27 della Costituzione. È difficile negare che un’altra caratteristica è quella di dissuadere la commissione di altri crimini. Le pene cosiddette esemplari ne sono la lampante ed evidente dimostrazione. Nulla da obiettare, ci mancherebbe, però mi chiedo se veramente la soluzione del problema stia nell’infliggere la condanna dell’ergastolo, magari corredata da qualche annetto di isolamento e, come succede in molti casi, non preoccuparsi seriamente dell’espiazione della pena. Torno indietro di qualche anno per raccontare il mio periodo di isolamento giudiziario, non per amore biografico, ma piuttosto per evidenziare alcune assurdità: quando sono stato arrestato, nel 1994, sono stato rinchiuso in una cella d’isolamento nella quale c’era soltanto lo spazio per la branda ed una sedia. Oddio, spazio, diciamo che la sedia si incastrava a forza tra il muro ed il letto soltanto perché era in plastica morbida, altrimenti ci sarebbe stato posto soltanto per il letto. Non c’era alcuna finestra, ma fortunatamente l’abile geometra che aveva progettato quella fortezza aveva previsto, come sistema di chiusura, il solo cancello e non anche il "blindato", altrimenti l’unico modo per respirare sarebbero state… le bombole dell’ossigeno. Il bagno? Non rispettava esattamente i requisiti previsti nell’attuale regolamento penitenziario, altro che acqua calda e doccia in cella. Lo rivedo esattamente come allora: non ricordo la marca dell’azienda produttrice, ma era molto capiente, rosso con delle scritte bianche, e lasciava dei maledetti segni quando mi ci sedevo sopra. C’erano ancora le tracce della pittura murale che aveva contenuto. Il sistema era antiquato ma tutto sommato comodo: ad ogni richiesta quel secchio mi veniva letteralmente gettato in cella, e dopo averlo utilizzato dovevo solamente rispingerlo fuori, fino alla successiva necessità fisiologica. Naturalmente ero nel più totale isolamento: avevo la censura della posta, il divieto di vedere la TV e di ascoltare la radio, di leggere i quotidiani (ma mi veniva negato qualsiasi libro, anche vecchio di decenni: forse qualche veggente poteva aver scritto in anticipo della mia vicenda e suggerirmi elementi utili ad inquinare le prove?) e la vigilanza era rigorosamente a vista, effettuata da non meno di 3 agenti per turno. La notte sembrava il momento ideale per le perquisizioni: non so cosa ci fosse da cercare, dal momento che ero guardato a vista e senza la possibilità di avere alcunché, neppure lo spazzolino da denti (e dove mi sarei sciacquato la bocca…?), ma tant’era. Dopo un po’ di tempo fui autorizzato ad usare un bagno che si trovava in fondo al corridoio del reparto isolamento. Nonostante fosse un locale cieco, senza alcuna finestra, gli agenti avevano la precisa disposizione di guardarmi a vista in qualsiasi momento e, siccome la turca nasconde ben poco, il loro imbarazzo era più evidente del mio. Tutto questo andò avanti per un buon periodo, ma non me ne poteva fregar di meno, perché avevo davanti un muro che mi ero costruito dentro per sopravvivere, e non era certamente quel regime di vita che poteva spaventarmi.
Stranamente, mi viene da dire, i problemi cominciarono col passare degli anni, quando quel muro iniziò a sgretolarsi Sebbene nel 1994 le mie condizioni carcerarie fossero di gran lunga peggiori rispetto a quelle odierne, quella situazione mi pareva più facile da sopportare. Vivevo una condizione psicologica e morale diversa, ero ancora lontano da quella serie di delicate fasi che, se e quando arrivano, fanno affiorare il rimorso e sentire sulla coscienza tutto il peso dei gesti sbagliati, quei cambi di prospettiva che ti fanno capire che l’ergastolo e l’isolamento non sono quelli inflitti dai giudici, ma ciò che si sente nel proprio cuore. Io so che i motivi della mia detenzione non dipendono dai giudici che mi hanno inflitto la condanna o dall’istituzione carceraria che mi tiene rinchiuso, ma sono una diretta e logica conseguenza del mio comportamento. Ma so anche che far scontare due anni di isolamento dopo vent’anni di galera è un’inutile tortura, che spesso interrompe un percorso di presa di coscienza, importante e doloroso. Un percorso che deve avvenire a contatto con gli altri, in una situazione di "normalità carceraria" che non ti incattivisca inutilmente, ma ti faccia sentire ancora di più il peso di scelte sbagliate. Solo una pena che riesca ad innescare quei processi di cambiamento capaci di convertire anche i cuori apparentemente più duri, una pena che sappia veramente cambiare le persone, ma cambiare dentro, è il modo migliore per rendere vera giustizia alle vittime dei reati.
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