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Persone “libere” in una redazione in galera Ci sono carceri dove la vita detentiva è di una inutilità terrificante Per questo sono fermamente convinto di aver fatto la “scelta” giusta, quando ho deciso di farmi coinvolgere nella redazione di Ristretti Orizzonti e nelle sue interminabili, infuocate discussioni
di Marino Occhipinti, giugno 2008
Una delle prime cose che chiesi appena arrivato in questo carcere, nell’ormai lontano 2000, fu quella di partecipare alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti, rivista che avevo già conosciuto nel precedente carcere e che mi appassionava soprattutto per i toni sobri e mai lamentosi. Avevo avuto infatti da subito la sensazione, quando me ne era capitata tra le mani una copia, che leggendola si respirasse una voglia di non parlare solo agli addetti ai lavori, ma di far “assaggiare” la galera anche a chi sta fuori, arrivando alla radice dei pregiudizi e della cattiva informazione e cercando di dare a tutti gli strumenti per capire una realtà così complessa come quella della vita detentiva. A causa dell’isolamento diurno (conseguente alla condanna all’ergastolo) al quale ero sottoposto nel 2000 non potei essere ammesso, e riuscii a far parte della redazione soltanto a partire dal marzo del 2002, ed oggi, che dopo oltre sei anni sono il più “vecchio” qui dentro, sono fermamente convinto, ora più di allora, di aver fatto la “scelta” giusta, sempre se di scelta si può parlare, visto che in carcere il potere decisionale dei detenuti è alquanto limitato. Tutti quelli che frequentano attività nelle aule adiacenti alla nostra redazione si meravigliano sempre che, dopo anni, noi di Ristretti abbiamo ancora tante cose da dirci, quando stiamo lì seduti intorno a un tavolo a discutere con accanimento, a litigare, a preparare un nuovo numero del giornale. Ma a meravigliarsi spesso sono anche le persone che vengono da fuori, gli ospiti, i nuovi volontari, che scoprono così che in carcere esiste una specie di “laboratorio sociale” dove ancora le persone hanno il gusto di confrontarsi, magari anche di scontrarsi, di fare in qualche modo cultura. Quello che conta è che, alla fine di ogni riunione, anche quando gli argomenti dibattuti sono stati particolarmente spinosi e scottanti, e quando di conseguenza gli animi si sono particolarmente accesi perché ognuno è “libero”, almeno in questo, di esprimere le sue riserve e le sue titubanze, spesso si rientra in sezione con un modo di vedere le cose nuovo, mai preso in considerazione prima. Ed è proprio grazie a questo percorso di condivisione e di confronto, e alle continue idee della vulcanica Ornella, che sono nate molte delle nostre iniziative. Penso al progetto carcere-scuole, che ogni anno vede lievitare l’adesione degli istituti e quindi degli incontri, un’iniziativa laboriosa e complessa che porta i detenuti in permesso nelle scuole e gli studenti in visita in carcere. Non allo zoo, ma in carcere, a parlare con chi i reati li ha commessi, e spesso in modo veramente grave e irreparabile, in un percorso di “scoperta” e di avvicinamento a qualcosa – la prigione, i reati e chi li ha compiuti – con cui quasi nessuno, nella sua vita, pensa di avere mai a che fare.
Dopo anni di ostinato silenzio sulle mie responsabilità sono stato “costretto” a parlare del mio passato
Spesso sento dire che gli incontri sono importanti per gli studenti, “che così imparano quanto a volte possa essere più facile di quel che si pensa finire in prigione”, e non so quanto di vero ci sia in questa considerazione, ma sono sicuro di quanto questo percorso sia invece importante per noi. Anche quest’anno siamo arrivati alla fine degli incontri, una trentina, completamente sfiniti, “svuotati”, perché ogni volta non è mai come quella precedente, ogni volta le domande sono inaspettate, diverse, e la tensione e le emozioni anche. Quattro anni fa, all’inizio del progetto, ogni volta che ci veniva chiesto cosa avessimo fatto, spaventato dal giudizio dei ragazzi, mi trinceravo nel silenzio. Ora mi sento comunque a disagio nel rispondere che sono in carcere per omicidio e che la mia condanna è l’ergastolo, e la paura che gli altri mi vedano “solo” come un assassino e non come persona non è scomparsa del tutto, ma è pian piano scemata; e mi sembra un bel passo in avanti che questi incontri siano serviti agli studenti, ma soprattutto a me stesso, che dopo tanti anni di ostinato silenzio sulle mie responsabilità sono stato “costretto” a parlare del mio passato, dei miei reati, e quindi a fare i conti con quella parte di me stesso che più mi fa male. Alcuni giorni fa, durante una delle consuete discussioni in redazione, un mio compagno ha detto che lui preferirebbe un carcere senza attività ma con le celle aperte, e col campo e la palestra tutti i giorni. Io l’ho vissuta per sei anni, una detenzione come quella che vorrebbe lui, e la ricordo di una inutilità terrificante. Dal 1994 al 2000 sono stato in una galera completamente “impermeabile” alla società esterna, dove si viveva nell’ozio più totale. È vero che le celle erano aperte dalla mattina alla sera, così come la palestra, per cui giocavamo continuamente a calcetto oppure a tennis, e anche se fisicamente ero sicuramente più in forma di adesso, senza un filo di grasso e con i pettorali belli gonfi, non tornerei assolutamente indietro. Ognuno vede la galera con i suoi occhi, ed ognuno ha bisogno di scontare la propria condanna con modalità che possono anche variare a seconda di quel che si è commesso. Tanto per intenderci, io che sono in carcere per omicidio, probabilmente avverto la necessità di impegnarmi in qualcosa di diverso rispetto a chi sta scontando una pena per furto, per rapina o per spaccio di stupefacenti. Non è quindi per spirito di contraddizione che non condivido il parere del mio compagno secondo il quale è meglio una galera senza attività ma “aperta” nel suo interno, evidentemente abbiamo soltanto delle necessità interiori diverse, che mi hanno portato, in questi sei anni, a non “perdere” nemmeno una volta la redazione in cambio di un’ora “d’aria” o di due ore di bicipiti e addominali, e la mia “scelta” è stata tutt’altro che un sacrificio. Ristretti Orizzonti è diventato forte, consolidato, credibile, ed è soltanto questo che per noi conta, e che mi spinge a provare un senso d’orgoglio per il lavoro che siamo riusciti a fare tutti insieme, detenuti e volontari, senza mai lasciarci scoraggiare dalle difficoltà e dalle incomprensioni che naturalmente non sono mancate, come sempre accade nelle cose della vita. Oltre a rendermi la galera più sopportabile, Ristretti Orizzonti mi ha insegnato quanto importante sia il confronto con gli altri per facilitare lo sviluppo di una coscienza critica, ma anche per crescere culturalmente e umanamente. Considerazioni che si racchiudono perfettamente nel convegno di ascolto delle vittime di reato che abbiamo organizzato quest’anno, dove, nella palestra del carcere, a parlare con noi e con 600 persone venute da fuori, c’erano delle vittime di crimini pesantissimi: Olga D’Antona, Silvia Giralucci, Giuseppe Soffiantini, Manlio Milani e Andrea Casalegno. È stata una vera lezione di vita per noi, ho visto miei compagni condannati per omicidio, considerati dei veri “duri”, piangere nell’ascoltare le loro testimonianze. È stata una giornata che ha lasciato un segno profondo in tutti i partecipanti, e l’abbraccio con Olga D’Antona, da solo, è bastato a “ripagare” di tutte le fatiche chi, in questi dieci anni, si è impegnato affinché Ristretti Orizzonti, e tutte le sue attività, diventassero una realtà davvero importante sia per chi le organizza e sia per chi, a qualsiasi titolo, vi partecipa. |
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