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Mi ricordo quando guardavo dall’alto della collina di Kuzbaba l’Italia…
Il racconto di Altin, un ragazzo albanese a cui le ferie costarono care
Di Ilir Curai, aprile 2000
Ero un ragazzo con molti sogni, come tutti i ragazzi. Il mio paese l’Albania, era uno stato comunista, aveva preso le distanze sia dal blocco sovietico sia dal blocco occidentale. Facevamo parte dei paesi non allineati; in quel periodo i sogni da noi difficilmente si avveravano. Il mio nome è Altin, provengo da Valona, una delle città più belle dell’Albania. Nel 1990 avevo 17 anni. Nell’estate di quell’anno, nella capitale Tirana furono assaltate le ambasciate di quegli stati che avevano una sede diplomatica in Albania, il sogno di lasciare il paese era grande per tutti i ragazzi della mia età, e in tanti ci unimmo agli adulti che assaltavano le ambasciate. Furono però pochi quelli che riuscirono a lasciare il paese, questa piccolissima minoranza era una speranza per gli altri ragazzi che erano rimasti in Albania. Tra quelli rimasti c’ero anch’io. Tutto sembrava irreale, non riuscivamo a credere che stesse accadendo una cosa del genere nel nostro paese: sino a pochi anni prima vivevamo sotto il regime di Hoxha dove per molto meno si finiva in galera o ancora peggio. Ad esempio per reati d’opinione, o se tentavi l’espatrio, avevi a che fare con "le squadre speciali del regime", molti sparirono, i loro familiari automaticamente erano prelevati con la forza e portati quasi sempre nella zona di Lushnje all’interno dell’Albania, dove erano controllati e non potevano avere contatti con altri. In pratica eri considerato un traditore del Popolo e della Nazione, di diritto alla difesa… non se ne parlava neanche. Spesso la notte mi recavo in cima alla collina di Kuzbaba al centro di Valona e restavo lì per ore a guardare le luci della costa italiana: il mio desiderio era attraversare quel mare per scoprire cosa ci fosse da tenere così illuminato. Mio padre era direttore di un’industria conserviera nel campo ittico, mia madre era insegnante, avevo la fortuna di far parte di una famiglia di buon livello culturale. Mio padre aveva iniziato la carriera politica, ma poi non l’aveva proseguita perché lo zio di mia madre, che era un antagonista politico al regime, aveva dovuto fuggire in Francia. Anche noi rischiammo di essere portati a Lushnje, perciò ci consideravamo fortunati. Nel 1990 mio padre fu inviato in Italia, a Brindisi, per un contratto che riguardava l’industria statale ittica di cui era uno dei maggiori responsabili. Era la prima volta che lasciava il paese, al suo ritorno ci raccontò dell’Italia, della vita che si faceva, delle vetrine, di quelle strade lunghissime che non finivano mai, erano le autostrade. Assorbivo ogni sillaba del suo racconto ed il desiderio di partire in me cresceva. Non conoscevo nessuno in Italia, mi serviva un indirizzo, un appoggio, per me era come prepararmi ad un salto nel vuoto. Sapevo che mio padre aveva nella sua agenda personale indirizzi di suoi referenti commerciali in Italia, un giorno decisi allora di sottrargliela e copiai tutti gli indirizzi e numeri telefonici italiani, poi la riposi nella sua scrivania. Mio padre parlava spesso di un suo amico commercialista brindisino, del quale era stato ospite. La notte del 7 marzo ‘91 mi unii al gruppo di mio cugino e tutta la sua famiglia, che erano pronti a partire per l’Italia. Quella stessa notte c’imbarcammo su un rimorchiatore e sei ore dopo eravamo al largo delle coste pugliesi. Io ero partito senza avvisare i miei, e per dirla tutta ci rimasero molto male. Io non voglio trovare scuse, ma l’occasione di imbarcarmi capitò all’improvviso e non potei avvisare nessuno, non c’era tempo. L’attraversata andò bene, sbarcammo in Italia a Brindisi, giunti sul molo dovevamo attendere la questura, che insieme ai volontari della Caritas e della Croce Rossa ci avrebbero portato al campo di Frassanito ad Otranto. Scappai allora dal molo di Brindisi e andai in cerca del commercialista amico di mio padre, di cui avevo l’indirizzo. Una cosa che non scorderò mai è l’incontro casuale in una stradina di Brindisi con una signora che mi si avvicinò parlandomi in italiano… io non capivo assolutamente niente di cosa stesse dicendo, la donna mi diede dei soldi e mi indicò la strada per giungere all’indirizzo del commercialista, in pratica mi aiutò senza conoscermi, vedendo che ero un ragazzo molto giovane e disorientato, e questo fece crescere in me la fiducia e la speranza nel mio futuro in Italia. Finalmente trovai lo studio e Michele, l’amico di mio padre, mi trattò molto bene, ero felice dell’accoglienza che mi aveva riservato. Mi fece salire in macchina e mi portò nella sua villa a Brindisi, lì mi presentò gli altri membri della sua famiglia, che mi accolsero in un’atmosfera calorosa. Dopo cena Michele mi fece fare una telefonata a casa mia in Albania, e al sentire la voce di mio padre e mia madre piansi, era la prima volta che ero lontano da casa, ero in un paese che sognavo da anni ma di cui non conoscevo niente, gli usi, la lingua, tutto quello che conoscevo dell’Italia lo avevo appreso guardando la televisione. Restai in Puglia alcuni mesi ospite di Michele. Volevo regolarizzare la mia posizione in Italia, quindi mi ripresentai al campo di prima accoglienza di Frassanito, riuscendo ad avere un permesso di soggiorno della durata di due anni per lavoro. Trovai lavoro a Milano come cameriere in una birreria del centro, al quartiere Brera. Lavorai in nero per due mesi dopo di che mi misero in regola, allo scadere del permesso di soggiorno, essendo assunto in regola e avendo un mio appartamento, mi concessero un altro anno di soggiorno. Nel mio lavoro ero diventato bravo, avevo imparato anche a fare il barista, e grazie al fatto che stavo sempre a contatto con la gente imparai bene la lingua italiana. Dopo quasi tre anni dal mio arrivo in Italia il desiderio di riabbracciare i miei era troppo forte, lo dissi al proprietario del locale e mi concesse quindici giorni di ferie. Mi imbarcai sul traghetto a Brindisi: tornare nella mia terra suscitava in me una forte emozione, mentre restavo a guardare in silenzio la costa albanese avvicinarsi pensavo a quanto ero cambiato e a come la mia vita ora poteva ancora evolvere, qualche sogno di quel ragazzo, che guardava dall’alto della collina di Kuzbaba l’Italia, lo stavo già realizzando. All’arrivo c’erano ad attendermi mio padre e mia madre e riabbracciarli fu una delle sensazioni più belle che abbia mai provato. Invece dei quindici giorni concessi dal proprietario del locale restai a Valona un mese, non riuscivo a staccarmi nuovamente dalla mia terra e dalla mia famiglia. Con il risultato che quando lo feci e tornai in Italia, mi licenziarono subito senza farmi riprendere il lavoro. Il mio datore di lavoro era molto arrabbiato, ed onestamente non aveva torto. Il suo fu un ragionamento da imprenditore che poco concede ai sentimenti, io mancavo da tre anni da casa, ma queste ragioni personali non gli impedirono di licenziarmi in tronco, stava facendo solo il suo lavoro, ed in un certo modo posso capirlo. Fatto sta che mi trovai, come si suol dire, "con il culo per terra". Era scaduto il permesso di soggiorno, quindi ero diventato un irregolare, cercavo lavoro, ma senza documenti nei locali, che sono molto soggetti a controlli, non ti assumono. Conobbi in quel periodo nella sala biliardo dei miei connazionali, diventammo amici, ma poi in seguito non si dimostrarono tali, e io finii per essere coinvolto in un episodio particolarmente grave, e ora sono in carcere in attesa del procedimento di Cassazione. La mia speranza, una volta chiarita la questione giudiziaria, è quella di tornare ad essere un uomo libero e poter svolgere un lavoro onesto, che mi permetta di vivere con dignità.
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