Cronaca di una morte forse evitabile

 

Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere

 

di Graziano Scialpi, settembre 2004

 

Non conoscevo Paolo. Non eravamo amici. È “entrato” nella mia vita nel pomeriggio di giovedì 9 settembre. Il mio compagno di cella era stato appena spostato al quinto piano, quello dei lavoranti, e rientrando dalla redazione, due ore dopo, ho trovato Paolo come mio nuovo coinquilino. Non conoscevo Paolo. Non abbiamo avuto modo di conoscerci, sia per la brevità del tempo che abbiamo condiviso, sia perché la nostra convivenza è iniziata in un momento poco propizio. Quel giorno avevo appena saputo che il martedì successivo avrei dovuto sostenere un esame universitario e la mia testa era concentrata solo su quello. Per cui, dopo averlo fatto accomodare e sistemare, mi sono scusato con lui per la scarsa attenzione che avrei potuto dedicargli per qualche giorno. Lui non ne ha fatto un problema, anzi, quando studiavo cercava di disturbarmi il meno possibile. Però, anche se poco, qualcosa so di lui. Appena è entrato in cella mi è sembrato che fosse un “pesce fuor d’acqua”. Impressione che ha trovato conferma quando mi ha spiegato che stava scontando tre mesi per resistenza a pubblico ufficiale: avrebbe dovuto tornare in libertà il 14 ottobre. In secondo luogo mi sono reso conto che non “era messo bene”, nel senso che non aveva fonti di sostegno o qualcuno che lo seguisse nella carcerazione. Infine ho capito che aveva notevoli problemi a livello fisico. Ma in quel momento pensavo di avere tempo per approfondire la conoscenza, tutto il tempo della galera. Perciò mi sono informato con delicatezza, per non ferire il suo orgoglio, se avesse bisogno di sigarette o di qualcos’altro di essenziale, rinviando offerte di aiuto più sostanziali a quando avremmo avuto maggiore confidenza. Lui mi ha assicurato che aveva tabacco a sufficienza, insistendo anzi per contribuire alla spesa con i pochi euro di cui disponeva. Ma non ho avuto il tempo di fare di più. Sabato mattina (11 settembre), dopo aver bevuto il caffè insieme a me, Paolo si è vestito e, trascinando la gamba sinistra, è andato nella saletta ricreativa, dove è possibile trascorrere le ore d’aria, mentre io sono restato in cella a studiare. Ma, dopo nemmeno mezz’ora, è ritornato, dicendo di non sentirsi bene. Dopo essersi steso sulla branda, si è alzato di scatto ed è corso in bagno, squassato da conati di vomito. Iniziando a preoccuparmi, gli ho chiesto cosa sentisse, se aveva male di stomaco. Lui mi ha risposto che sentiva i “sudori freddi”, che stava molto male, ma che non era lo stomaco. Rendendomi conto della sua sofferenza, ho chiamato l’agente in servizio al piano, spiegandogli che il mio compagno si sentiva molto male. Dopo aver chiesto l’autorizzazione per telefono, l’agente è tornato per informarsi se Paolo ce la faceva a scendere all’infermeria da solo. Io mi sono offerto di accompagnarlo, ma lui ha declinato l’aiuto e si è avviato al piano terra, trascinando la gamba malata. Dopo una ventina di minuti è ritornato in cella. Gli ho chiesto cosa gli avesse riscontrato il medico e lui mi ha risposto: “Mi ha fatto un’iniezione, mi ha dato delle gocce e mi ha detto di mangiare in bianco”. Quindi si è steso sulla branda girandosi e rigirandosi senza trovare pace. Dopo qualche momento si è rialzato chiedendomi se gli avrebbe fatto bene mangiare una mela. Io gli ho risposto: “Male non può farti”. Si è alzato, ha mangiato una mela, poi mi ha chiesto una sigaretta, perché non ce la faceva ad arrotolarsene una. Terminata la sigaretta, l’ultima sigaretta, si è di nuovo steso sulla branda, girandosi e rigirandosi, incapace di trovare una posizione che gli desse un po’ di sollievo. Dopo qualche minuto si è addormentato all’improvviso, girato sul fianco destro, in posizione fetale. Subito ha iniziato a russare forte e il suo respiro era sofferente, intervallato da apnee di dieci-quindici secondi. Per un attimo ho pensato di svegliarlo, ma poi ho preferito farlo riposare, nella speranza che il sonno lo aiutasse a riprendersi, anche perché sapevo che quel tipo di disturbo è frequente nei russatori. Ma il mio istinto mi diceva che qualcosa non andava perché, mentre studiavo, ho iniziato a contare mentalmente i secondi che duravano le sue apnee. È andata avanti così per una decina di minuti, finché il respiro si è interrotto per 15, 30, 45 secondi. Ho alzato gli occhi e l’ho guardato, cercando un segno che avesse ripreso a respirare senza che me ne fossi accorto, ma Paolo era immobile e i secondi passavano sempre più veloci. Mi sono alzato gli sono andato vicino e l’ho chiamato, ho urlato il suo nome più volte, scuotendolo per un braccio. Poi gli ho tastato il collo, cercando un battito che non c’era. Mi sono affacciato alla porta della cella, gridando all’agente che era lì vicino di chiamare il medico, perché il mio compagno aveva smesso di respirare. Quindi sono tornato da Paolo, gli ho steso le gambe e ho iniziato a praticargli il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. La seconda volta che ho soffiato, dalla sua bocca è uscito un fiotto di rigurgito liquido. Nel frattempo l’agente ha aperto la porta della cella, permettendo di entrare a due lavoranti che si trovavano in sezione. Insieme abbiamo tirato giù dalla branda Paolo, adagiandolo sul pavimento di cemento nudo. Dopo averlo tenuto per qualche momento girato sul fianco, per permettere ai suoi polmoni pieni di liquido di spurgarsi, sono ripresi sempre più frenetici il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, i pugni sullo sterno, mentre altri detenuti si accalcavano sulla porta della cella, affannandosi a dare consigli del tipo: “fagli bere un po’ d’acqua”, “tiragli su le gambe”, “mettigli un po’ di aceto sotto il naso”. Nessuno voleva accettare la realtà tragica della situazione, tutti preferivano pensare che era solo un malore e che Paolo si sarebbe ripreso. Dopo un’eternità, i cinque-sette minuti che sono necessari a percorrere il tragitto dall’infermeria al terzo piano, è arrivato il medico, ha auscultato il muto petto di Paolo e ha dato ordine di metterlo sulla barella. Mentre i ragazzi sollevavano il corpo, il medico ha guardato nel nulla del muro bianco di fronte a sé, mormorando: “Lo avevo visto cinque minuti fa…”. Poi sono partiti verso l’infermeria.

 

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto

Di Paolo in cella sono rimaste la macchia del rigurgito polmonare sul pavimento, la chiazza sulle lenzuola “di casanza” provocata dal rilassamento della vescica e le sue povere cose che, due ore dopo, ho dovuto mettere in un sacco nero di plastica e consegnare a magazzinieri meravigliati di quanto poco possedesse. Qualcosa so di Paolo. So che aveva lavorato per 25 anni come verniciatore, emigrando anche in Germania, e che i solventi gli avevano corroso i polmoni, rendendolo invalido. So che aveva avuto un grave incidente che lo aveva sciancato, facendogli trascinare la gamba e costringendolo a fare iniezioni per il mal di schiena. So che viveva da solo perché aveva divorziato da poco e l’evento lo aveva fatto soffrire parecchio. So che aveva due figli piccoli che non lo conosceranno. Proprio venerdì sera, non so come, il discorso era caduto sulla morte e lui mi aveva detto: “A me interessa vivere solo finché i miei figli saranno maggiorenni”. Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe mai dovuto entrare in carcere per una condanna di tre mesi. So che, con le patologie di cui soffriva, non avrebbe dovuto finire in carcere nemmeno con una condanna a tre anni. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere. Ma perché è morto Paolo? Puntare il dito solo sulle inefficienze del sistema medico carcerario e sui tagli che da tre anni a questa parte si abbattono sulla sanità penitenziaria sarebbe sin troppo facile e scontato. Paolo  è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto. È morto perché forse il suo avvocato non ha ritenuto remunerativo preparare le tre-quattro carte che gli avrebbero facilmente evitato di finire dentro. È morto perché non si chiamava Tanzi e quindi non meritava una veloce corsa in ospedale al minimo accenno di malore. È morto perché l’opinione pubblica, che è formata da poveracci come lui, continua a sostenere un sistema dove i ricchi, i potenti e gli ammanicati sono “più uguali degli altri”. È morto perché la stragrande maggioranza della nostra società civile soffre di una comoda presbiopia congenita che la fa reclamare e acclamare solo per i problemi distanti, molto distanti, possibilmente oltremare, perché cominciare a salvare le vite sottocasa sarebbe indegno, troppo poco nobile, perché significherebbe sporcarsi le mani sul serio. È morto anche per causa mia. Perché non ho dato retta al mio primo istinto che mi spingeva a svegliarlo quando forse non era ancora troppo tardi. La differenza è che il mondo continuerà a ignorare Paolo, che ormai è solo un numero di una statistica, mentre io per il resto dei miei giorni sarò tormentato dal dubbio se avrei potuto salvarlo e per il resto dei miei giorni  i suoi occhi sbarrati e privi di vita continueranno a osservarmi, rivolgendomi la loro silenziosa domanda: perché?