Storia di Gianni, entrato all’età di quindici anni in carcere

 

Uscito in semilibertà a trent’anni, ora finalmente libero, e libero di continuare "fuori" la sua esperienza con il teatro iniziata "dentro"

Di Nicola Sansonna e Gianni Stoppelli

 

Ho rivisto Gianni Stoppelli, un amico, dopo quattordici anni. Sarà la galera che in qualche modo… preserva, ma il tempo sembrava non essere trascorso per niente, e comunque è stato molto clemente per entrambi, da un punto di vista esteriore.

L’occasione che ci ha fatto rincontrare è stata una rappresentazione teatrale, fatta qui in carcere dalla compagnia con cui lavora da quando è stato scarcerato.

L'ultima volta che ci incontrammo eravamo nel carcere di San Gimignano, era il 1986, le attività culturali erano allora piuttosto rare; in quel periodo andavano per la maggiore quelle fisiche e ginniche, che entrambi praticavamo con assiduità e passione, autonomamente.

Ho chiesto a Gianni se volesse rispondere ad alcune domande riguardo alla sua storia, che si snoda su quindici anni di carcere; includendo anche quello che sta vivendo ora che è un uomo libero.

Queste sono le sue risposte (parte delle sue risposte) e considerazioni.

 

"Oggi, il primo giorno da uomo libero…"

La mia storia è una delle tante che si possono incontrare nel mondo ristretto delle patrie galere. Entrato a quindici anni per un fatto grave, vi sono rimasto, tra una cosa e l'altra, per altrettanti. Ti scrivo oggi, nel mio primo giorno da uomo libero, essendomi stata notificata ieri la revoca della misura di sicurezza (libertà vigilata).

Mi è facile e difficile nella stessa misura parlarti di ciò che hanno rappresentato questi lunghi anni e di quello che è stato e continua ad essere l’inserimento nella vita "comune", "normale", "sociale" o che dir si voglia.

Uscito dal carcere, mi sono reso conto di quanto fossi strutturato per vivere, o meglio, per sopravvivere all’interno del mondo chiuso e di quanto fossi carente di strumenti per affrontare la vita esterna. Mi sentivo (e lo ero anche) piccolo per tutti gli aspetti pratici che riguardano il vivere quotidiano, burocrazia, lavoro, casa, spese, impegni, tempi, ritmi, insomma: responsabilità. Apparivo grande, a volte, nelle mie elucubrazioni mentali, ma non mi garantivano nulla che fosse la sopravvivenza materiale.

Certo è che mi sentivo fortemente schizzato: un uomo bambino.

Sostengo che il carcere rappresenti un processo all'interno del quale, in modo più o meno patologico, si rimane o si ritorna ad essere bambini.

Lì c’è sempre chi decide per te: fai questo, fai quello, questo sì, questo no, questo si vedrà… Ho vissuto una sorta di schizofrenia applicata. Crescevo all’interno di un ambiente che mi richiedeva di rispondere a diversi piani di relazione, e a tutti non potevo, in pratica, mostrare me stesso tutto intero: dovevo farlo a pezzi. Ai compagni di pena dovevo tenere celata la parte di me sensibile che cresceva e si sviluppava, mentre dovevo tenere accesa e desta la parte istintiva legata alle dinamiche di conflitto; ed in questo modo anch’essa cresceva e si sviluppava.

Per sopravvivere, soprattutto in alcuni anni passati, dovevi riuscire a convincerti che tutto era possibile, dovevi sviluppare la capacità di non avere limiti o tabù di sorta, che potessero, nel momento dello scontro, farti giungere il minimo dubbio che ciò che stavi facendo fosse sbagliato. Dovevi arrivare a far tuo, fin nelle viscere, il concetto che infilare il coltello nella pancia di qualcuno fosse una soluzione plausibile. Fortunatamente io e tanti altri non ci siamo mai trovati a vivere direttamente questo tipo di situazione, ma tutti convivevamo quotidianamente con l’idea che potesse succedere.

Agli operatori che osservavano (agenti, educatori, psicologi, etc…), dovevo svendere, fino a volte ad apparire ossequioso, le maniere gentili ed occultare tutta intera l’altra parte… Anche con loro la sensibilità, ma anche il carattere, dovevo tenerlo nascosto, poiché le volte che tentai un confronto, fui tacciato d’immaturità. Finiva sempre che ogni volta che affermavo un pensiero o un sentimento che fosse in contrasto con gli stereotipi proposti da entrambi i "sistemi", subivo una pesante punizione.

Schizofrenico - Paranoico. Chissà quali altre psicosi si sviluppano all’interno di un mondo chiuso, un’istituzione totale come lo è il carcere.

 

Un uomo in carcere, sottratto alla vita reale, l’unica esperienza che fa è quella di sé

E’ vero che mettersi al centro della propria attenzione, in tali contesti, garantisce la sopravvivenza, ma limita anche la crescita e lo sviluppo.

Proprio perché continuamente sotto l’occhio vigile del controllo, in realtà non impari a fare tue le cose che fai, ma nella maggior parte dei casi s’impara a fingere di farle. E la quotidianità fa il resto… Ci s’illude di cambiare vita una volta varcata la soglia, si fanno progetti, sogni...Ma sono campati in aria.

E non perché la persona che si proietta in un futuro diverso menta esplicitamente, a sé e agli altri, ma perché, in verità, non si confronta minimamente con ciò che sarà, una volta fuori, "il piano di realtà". Recita la parte di un copione più complesso di ciò che appare, fa solo parte dell’allestimento… E tali dinamiche garantiscono la recidiva, la coazione a ripetere; garantisce che le persone che le subiscono tornino a fare l’unica cosa che conoscono, che si percepisca se stessi solo ed unicamente all’interno di un ruolo di devianza, affinché questo sistema possa rimanere inalterato.

Insomma, se si fa di tutto per far vivere le persone al dì sotto della cosiddetta "normalità", come si può pretendere che le reazioni siano quelle di una personalità considerata "normale"? Come si può pensare di inserire una persona all’interno di un contesto X, se la si fa vivere in un altro, nel quale si sviluppano dinamiche completamente differenti? Come può un individuo modificarsi all’interno di un sistema che non si modifica?

Credo di poter dire che la tanto inflazionata parola "rieducazione", rispetto ad una risposta istituzionale, sia una casualità… un Big Bang… difficile, quanto improbabile a realizzarsi…

Penso che il carcere non possa dare risposte utili alla risoluzione di un problema. Sono convinto invece che sia l’uomo, solo, a fare tutto lo sforzo, aiutato, ovviamente, da altri uomini soli…

Amo rispondere che ridarsi una vita è uno sforzo da titani, ed in quanto uomini destinato a fallire in partenza… Ma è una sfida che bisogna, in un modo o nell’altro, saper cogliere… e farne una lotta, un obiettivo… Bisogna estendere il problema, denunciare la truffa del consorzio umano nel quale stiamo vivendo, dentro e fuori delle mura… Bisogna ricercare lucidità, strumenti, forze, unione, speranze, tutto pur di abbattere sistemi che non solo risultano inutili, ma peggio ancora dannosi, come lo è il carcere.

Mi chiedi di parlare delle difficoltà incontrate durante il mio percorso, dentro e fuori, non posso fare a meno di darti queste risposte, le quali non rispondono sicuramente alle esigenze di spazio alle quali mi preghi di sottostare.

Il teatro in carcere è stato sicuramente un incontro importante nella mia vita, mi pone oggi però in una posizione di forte messa in discussione, poiché questo può essere o diventare strumento di legittimazione dello stesso sistema nel quale opera.

Ti racconto però il nostro incontro.

La prima volta che misi piede su di un palcoscenico, fu nel carcere minorile di Torino. Rappresentammo, prima dentro e poi fuori, una pièce di Henry Miller, Proprio pazza per Harry. Tra gli adulti, in alcuni istituti, ebbi poi occasione di continuare a coltivare questo grezzo interesse. In realtà non sapevo neppure spiegare perché provassi questo flebile slancio: non fu amore a prima vista, però continuavo appena ne avessi l’occasione a proporlo o propormi.

Partecipai, nell'arco degli anni, all’allestimento di una decina di spettacoli. Giravo sempre, nei vari trasferimenti che subivo, con la mia bella cartellina scolastica che conteneva i testi sui quali avevo lavorato. E se capitavo in un carcere dove non si svolgesse l’attività teatrale, pur non avendo affinato gli strumenti, proponevo la messa in scena di uno dei testi che mi portavo dietro.

A Padova, con il Tamteatromusica, scoprii un altro modo di fare teatro, che non fosse partire unicamente dal testo preesistente. E in quel periodo, prima di uscire in semilibertà, con un lavoro di creazione, taglio e cucito, misi insieme il testo del laboratorio autogestito e mi cimentai un po’ con la regia.

Non possedevo né gli strumenti, né la determinazione per pensare che il teatro potesse essere altro che un’esperienza che avrebbe potuto considerarsi anche chiusa. Ma come capita in amore, pur non essendo preparati, pur non sapendo spiegare esattamente gli eventi che ci coinvolgono, continuai a star attaccato alle sue sottane.

Appena fuori partecipai a diversi laboratori. Ho collaborato con l’Accademia della Follia di Trieste, ho condotto tre laboratori all’interno del centro sociale Pedro. Ho partecipato ad un bando di concorso indetto dall’E.T.I., guadagnandomi così un biglietto per Marsiglia e la possibilità di lavorare per dieci giorni, nove-dieci ore al giorno, in un contesto professionistico. Esperienze che mi hanno dato modo di formarmi un minimo. In questo momento sto partecipando a due laboratori, e spero per febbraio di far partire un mio nuovo laboratorio e di continuare a far girare, almeno qualche volta ancora, lo spettacolo che avete visto (rappresentato qui in carcere N.d.R.).

La Coda costituisce la fase conclusiva di un percorso laboratoriale durato quattro mesi circa, al quale ha partecipato un gruppo complessivo di venti persone, sei delle quali andate in scena con il testo da me elaborato.

L’impianto narrativo nasce dall’unione di alcuni brani tratti dal libro "WKHY" di Renato Curcio, una tranche del testo Risacche di Piero Ferrero, e qualcosa scritto da me.

Confesso di aver pensato seriamente alla possibilità di entrare in carcere a fare un laboratorio. Tant’è che una delle motivazioni che mi hanno spinto ad entrare è stata quella di mostrare un "documento" che attestasse la capacità di portare a termine un percorso laboratoriale. Lancio qui questa provocazione, non sia mai che qualcuno degli addetti ai lavori la colga.

Perché sono venuto in carcere a proporre questo lavoro? Forse la ricerca in ciò che appare consueto, dato o conosciuto… Questo è il limite da oltrepassare, andare oltre ciò che ci sembra noto.

Vedere con altro sguardo, altro sentire i luoghi dell’orrore che hanno caratterizzato alcuni momenti del proprio percorso vita, può permettere ad alcuni di rileggere il proprio trascorso e così superarlo… Non so…

Forse ricerco l’autocelebrazione nel luogo che per lungo tempo ha rappresentato la "mia casa". Forse voler entrare ed uscire... forse affermazione di una mutazione avvenuta o sperata. Forse uno specchio nel quale altri come me possano riflettersi... Forse uno specchio nel quale possa riflettere e non riconoscermi più… Forse voler dire "si può", forse è solo arte, forse è solo tornare per un po’ ed in altro modo "nel ventre della bestia". Forse è solo provocazione…, forse è… E’ un gesto, una tensione, un richiamo, un dolore, un addio, un riconoscimento, ricercato fortemente…