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Toccare, abbracciare e stringere forte la persona che ami Tutto questo si può fare anche in carcere: sono ormai tantissimi infatti i Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi, ma non l’Italia
di Ernesto Doni, novembre 2006
Io di galera ne ho fatta tanta, ma penso che il destino non è stato poi così severo con me visto che la mia famiglia non mi ha mai abbandonato. Considerata questa lunga esperienza e vista anche la mia età, spesso mi trovo a dover ascoltare i miei compagni detenuti lamentarsi della solitudine in cui si trovano e accusare i figli che non li pensano, le mogli che li abbandonano. Ai ragazzi più giovani che entrano in carcere e non sanno ancora quello che li aspetta cerco di aprire gli occhi raccontando esperienze tristi e felici, in modo che loro ne possano trarre delle conclusioni e non trovarsi delusi, pieni di angoscia, depressi e fare qualche gesto estremo. Appunto per questo ho deciso di scrivere queste righe, in modo che chi legge si faccia una idea di che cosa significa la galera per quanto riguarda i legami famigliari. In galera, riuscire a mantenere vicine le persone amate è una questione di fortuna. Noi non possiamo fare niente. Una volta finiti dentro non siamo più nelle condizioni di coltivare e mantenere salde le relazioni. Questo semplicemente perché qui non lo puoi più fare. Quando sono entrato in galera mi sono accorto da subito di essere rimasto solo, e certo le persone amate, per quanto mi volessero bene, non potevano seguirmi in cella. Loro naturalmente dovevano continuare la loro vita, e purtroppo lo dovevano fare senza di me. Spesso avevano bisogno di me, bisogno che facessi sentire loro che esistevo e che potevo continuare ad essere utile, ma non era per niente facile. In quell’ora di colloquio che mi era concessa potevo fare poco. Per non litigare si era stabilito che una settimana veniva mia madre e l’altra veniva mia moglie. Ovviamente la voglia di vedermi era tanta per entrambe, ma io continuavo ad essere trasferito da un carcere ad un altro e loro per venire da me dovevano perdere una intera giornata tra treni, attese fuori dal carcere e perquisizioni. Un conto è passare dei mesi in carcere, un tempo abbastanza breve che ti permette di fare dei sacrifici per poi dimenticare in fretta. Si esce e si trova tutto come era prima, è come se tornassi da un viaggio di lavoro e ci metti un attimo a riconquistare la moglie e riempire il vuoto creato nella casa per i figli. Tutt’altra cosa naturalmente è fare cinque, dieci o come me vent’anni, e riuscire a mantenere vicini moglie, figli e tutto il resto. Semplicemente non si può. A meno che uno non sia abbastanza fortunato da avere una moglie e dei figli che lo amano ciecamente e che considerano l’assistere un proprio caro in carcere come una missione cui dedicare la loro vita. Un rapporto va nutrito e mantenuto in vita almeno attraverso tre elementi che sono fondamentali alla propria compagna: la presenza, l’amore, il proprio contributo nell’affrontare la vita. Ma qui, in carcere, non si può garantire nemmeno una di queste cose a chi dovrebbe continuare a starmi a fianco e a condividere il resto della vita “finché morte non ci separi”. È fuori luogo parlare della presenza, dato che il fatto di essere chiuso in una cella rende impossibile qualsiasi tipo di presenza fisica. Ma l’amore sì che si può fare. Quella necessità fisica, che riguarda tutti gli esseri umani, di poter toccare, abbracciare e stringere forte la persona che ami, di poter addormentarsi con in bocca il sapore delle sua labbra e svegliarsi sentendo il profumo della sua pelle. Quella necessità vitale si può soddisfare benissimo nonostante la separazione della galera. E non è fantascienza. Nella maggior parte dei Paesi è possibile per i detenuti passare periodicamente delle ore o una notte con la propria compagna in una stanza che ti fa dimenticare per qualche momento di essere in carcere. E questa cosa sarebbe fondamentale per continuare a dare un senso al rapporto di coppia che il carcere distrugge. Mentre della presenza ho detto che è impossibile e dell’amore sostengo che non costa niente permetterlo, il discorso si fa più difficile circa il terzo elemento che è il proprio contributo ad affrontare la vita. Molti sono i problemi che la quotidianità impone, ma quelli più sentiti sono soprattutto di carattere finanziario, e quando si è in galera, non soltanto è difficile dare il proprio supporto alla famiglia, ma anzi si diventa un peso. Però, se un detenuto riuscisse ad essere nelle condizioni di aiutare economicamente la propria compagna a tirare su i figli, allora forse ci sarebbe più possibilità che il rapporto durasse fino a fine pena. Pochi ci pensano, ma ogni notte che la donna di un detenuto va a letto da sola, ogni volta che i figli stanno male e non sa a chi lasciarli prima di andare a lavorare, ogni volta che non ce la fa ad arrivare con i soldi fino a fine mese, lei piange e maledice sua marito per non esserle vicino. E la persona amata si trasforma nella persona più odiata, nella causa delle sue sofferenze, nella incarnazione di un destino assurdo da cui scappare più lontano possibile. L’unico modo per attenuare un po’ questa crisi è quello di permettere al detenuto di essere più vicino alla famiglia, sia dal punto di vista economico, con più possibilità di lavorare e di mantenersi senza pesare sui propri cari, sia dal punto di vista affettivo, con colloqui più lunghi e più intimi. Soltanto allora la famiglia non lo considererà più come una persona morta e sepolta, ma come parte viva e fondamentale. E quando a fine pena uscirà dalla galera, non rischierà di trovare una famiglia che lo odia, ma delle persone che lo aspettano a braccia aperte. |
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