Ero un delinquente, mi piaceva questo genere di vita

 

Che cosa vuol dire essere un uomo doppiamente castigato: come detenuto e come padre Ero un delinquente, mi piaceva questo genere di vita, oggi mi guardo indietro e mi rendo conto che quella vita in realtà mi ha levato tutto

 

Di Enrico Flachi, luglio 2001

 

Mi è capitato di leggere il resoconto del seminario, svoltosi nel carcere di San Vittore, che aveva come tema il rapporto genitori detenuti - figli.

Da padre carcerato vorrei poter aggiungere una voce in più, un piccolo contributo affinché i lettori, coloro che vivono fuori e che non conoscono questi lati della realtà carceraria, possano almeno in minima parte comprendere cosa significhi essere genitore detenuto, e come realmente noi che siamo in carcere paghiamo per i nostri errori, e come soffriamo nel pagarli, e nel comprendere poi nel tempo il male che causiamo ai nostri figli con la nostra "non presenza".

Mi chiamo Enrico e parlerò della mia situazione personale. Se a volte, nell’affrontare il tema degli affetti, uso il pronome "noi" invece che "io", è perché molti altri detenuti, con i quali ho avuto modo di confrontarmi su questo problema, soffrono come me per la loro situazione famigliare, per i rapporti che si sono nel tempo modificati con i loro figli.

Purtroppo tutti tendiamo a nascondere quello che è un grave disagio famigliare, e a volte non vogliamo dire neppure una parola su questo per paura di stare troppo male. Vorrei portare un piccolo esempio per far capire come stanno le cose realmente: un mio amico, e come me padre detenuto, qualche tempo fa viene a sapere che il figlio in casa non si sta più comportando in modo corretto, rientra a ore esageratamente tarde, cosa che per un ragazzo di tredici anni è inaccettabile, ed ogni volta che la madre tenta di spiegargli che non va bene così, che lei ha paura, lui le si rivolta contro in maniera aggressiva. Il padre al colloquio cerca di richiamare suo figlio con garbo e di riportarlo alla ragione, e per tutta risposta si sente dire che non deve rompere i coglioni, in quanto come padre non c’è stato mai quando la famiglia ne aveva bisogno, e poi non è lui a mantenerlo, e in casa ha portato solo fame disperazione e dolore. Ora non si parlano più, e il figlio non va più a trovarlo: ecco perché è così difficile parlare di certi problemi così delicati.

Io sono detenuto da dieci anni, oggi più distaccato che mai da mio figlio, distaccato non per mio desiderio, o per colpa di quelli che fuori cercano di seguirci come possono, pur di non spezzare il sottile legame tra genitore detenuto e figlio. Il fatto è che la mia vita affettiva ora è in crisi e vedere mio figlio è diventato ancor più difficile, anche perché il lavoro che fa la madre di mio figlio non le permette molte possibilità, sia di tempo, che economiche: da Milano per venire fin qui a Padova, entrare a fare colloquio e ritornare ci vuole un mezza giornata, e almeno centomila lire, salvo complicazioni per il viaggio.

Mi definisco un "padre doppiamente castigato", perché non solo mi trovo in galera da molti anni, ma ho un figlio che ha seri problemi motori in quanto cerebroleso, io non l’ho nemmeno visto nascere, il due gennaio compie dieci anni e il suo papà lo ha potuto avere vicino concretamente solo in pochissime occasioni, quando versava in pericolo di vita ed era intubato in un letto di ospedale. Poi, quando è cresciuto, il mondo di suo padre lo ha visto sempre sotto forma di sbarre, cancelli, salette colloqui squallide, prive di ogni cosa che potesse dare un senso meno crudele della realtà. Il mio rapporto con lui, quello che tristemente ho con mio figlio, si può benissimo definirlo un "non rapporto"

Mio figlio è cerebroleso, con sette patologie diverse in quell’unico corpicino, nove anni e mezzo e non parla, non cammina, ma grazie a Dio nonostante tutto sa farsi capire bene, sa dare affetto, tenerezza, e trasmettere amore con i suoi sguardi e i suoi gesti. Il fatto però di vederlo ogni quindici giorni, ed ora una volta al mese, rende difficile mantenere saldo un rapporto affettivo, il bambino tante cose non può capirle, e i distacchi continui lo portano automaticamente a vedermi come una persona qualsiasi, ride e gioca poco con me perché spesso è infastidito per il viaggio pesante, o l’attesa troppo lunga per entrare, e non mi considera minimamente, rifiuta ogni mio tentativo di approccio.

 

Basterebbe un po’ più di umanità in chi gestisce questo mondo carcerario, per rendere meno violento il distacco tra genitori e figli

Ho sempre pensato che questa situazione di mio figlio in qualche modo mi avrebbe dato la possibilità almeno di stare più a lungo con il bambino ai colloqui o di ottenere quella salettina dove stare da soli senza quel baccano che la sala comune produce. Niente di tutto questo: le salette sono due ed è difficile ottenerle, e poi qui a Padova il sabato non è possibile fare le due ore di colloquio, neppure per coloro che di problemi ne hanno molti, e seri. Per poter fare le due ore con il mio bambino, sua madre dovrebbe perdere una giornata di lavoro, e questo non è possibile perché, se non lavora, lei farebbe fatica a tirare avanti e non potrebbe neppure permettersi di portare il bambino a trovarmi.

Dopo un viaggio di ore, dopo un’altra ora di attesa prima che ci si possa riabbracciare, ci si incontra il più delle volte in locali desolanti. Imporre alle famiglie dei detenuti condizioni di incontro così avvilenti significa non aiutare certo i figli a mantenere saldi gli affetti e a desiderare i colloqui. Il carcere in realtà distrugge pian piano relazioni, affetti, rapporti con i figli, mentre basterebbe solo un po’ più di umanità per rendere meno precari i nostri legami famigliari. Succede invece spesso che i nostri figli provino repulsione verso le istituzioni, gli agenti, e tutti quelli che controllano e puniscono, non perché gli viene insegnato da noi, ma proprio perché con il tempo vedono, si rendono conto che, si! noi genitori abbiamo fatto degli sbagli, una scelta di vita che ci ha divisi e ha creato dolore in loro, ma il menefreghismo delle istituzioni, la scarsa sensibilità di chi gestisce questo mondo carcerario e potrebbe rendere meno violento questo distacco tra genitori e figli, può essere a volte peggiore di quella cattiveria e pericolosità che è stata attribuita a noi.

Ero un delinquente, mi piaceva questo genere di vita, mi ha dato momenti di soddisfazione, non lo nego e non mi vergogno di dirlo, questo però faceva parte del mio passato, oggi mi guardo indietro e mi rendo conto che quella vita in realtà mi ha levato tutto, mi ha levato le vere gioie, il crescere mio figlio, l’essergli concretamente vicino, il godermi anche nella sua disgrazia quella che poteva essere una famiglia vera, e che oggi, dopo dieci anni di mia "non presenza", non lo è più. Quel poco che mi è rimasto è l’essere padre, ma ancora più che mai "latitante" per mio figlio.