Un carattere porta-guai

Ecco perché ho finito per commettere un reato. Ma quanti sono i ragazzi che finiscono per violare la legge per il “cattivo carattere” o il “desiderio di potere e di ricchezza”?

 

di Elton Kalica, agosto 2006

 

A scuola, a Tirana

 

Non ricordo bene se era una pioggia d’ottobre o di febbraio. Ma oltre alle piogge grige e fredde di Tirana che rimangono sempre nella memoria, ricordo che stavo per finire nei guai. Mi tolsi di dosso l’impermeabile color verde oliva che continuava a grondare acqua  mentre Endrit, un compagno di classe, continuava a raccontarmi come era stato picchiato da due ragazzi di fronte alla scuola. Quei due tipi li conoscevo anch’io. Il loro modo di camminare scomposto per i corridoi della scuola, dando spintoni ai più giovani e tirando i capelli alle ragazze, non passava inosservato. Ma nella nostra scuola vi erano diversi ragazzi che si comportavano come loro e io li guardavo come si guardano le automobili dal bordo della strada, stavo attento a non andargli contro quando dovevo attraversare, poi, un momento dopo, la loro esistenza veniva cancellata dalla mia mente. Ma quel giorno non andò così. Il mio amico aveva un occhio nero e mi aveva chiesto di aiutarlo a vendicarsi. Quel giorno non potevo ignorarli.

Certo potevo dirgli che non ero in grado di dargli una mano, che temevo di essere espulso dalla scuola o che avevo paura dai miei genitori. Ma avrei fatto la figura del cacasotto, sarei passato per quel tipo di amico sempre bravo e disponibile, ma che poi, alla prima difficoltà, ti gira le spalle e se ne va. Quindi mi tolsi l’impermeabile che continuava a grondare acqua e gli dissi: “Va bene andiamo!”. 

Mancavano cinque minuti all’inizio della prima ora di lezione, e quindi decidemmo che era abbastanza per mettere in atto la nostra vendetta e ritornare poi in classe. Trovammo subito l’aula dove faceva lezione la classe dei due, e mentre ci avvicinavamo, li vedemmo che, come richiamati da qualche forza sconosciuta a noi favorevole, uscivano in corridoio con uno zaino in mano, lo appoggiavano subito per terra e frugavano all’interno tirando fuori una merendina, mentre un altro ragazzo li raggiungeva in lacrime chiedendo di riavere indietro la sua roba. Approfittammo della distrazione per aggredirli. Endrit attaccò per primo con una raffica veloce di pugni quello più vicino mentre io mi avventai contro l’altro che, sorpreso, non si difese nemmeno ma si buttò per terra e si raccolse in posizione fetale. La vista mi si restrinse e vidi soltanto il corpo raggomitolato che presi a calci. Tutto il resto si scuriva, finché mi accorsi che c’era un altro piede che tirava calci alla stessa schiena che stavo colpendo io. Era il mio amico Endrit. L’altro ragazzo era scappato lasciando il suo amico per terra, a prendersele anche per lui. Una cosa che io non avrei mai fatto.

Tirai per il braccio il mio amico dicendogli di ritornare in classe, ma appena mi girai, sbattei addosso al professore di Fisica, un uomo grande e robusto, che mi bloccò subito il polso. Mi accorsi in quel momento che il corridoio si era riempito di ragazzi curiosi che avevano creato un passaggio stretto dove avanzava il professore di Fisica, trascinandomi dietro per una mano. Mi portò dritto dal preside, che telefonò a mio padre in ufficio per convocarlo urgentemente. Prima il preside e poi mio padre mi chiesero i motivi della nostra aggressione. Spiegai come erano andate le cose, e il preside partì subito con una breve lezione di comportamento civico. Disse che dovevo avere fiducia nelle autorità, e che dovevo rivolgermi sempre a lui e mai farmi giustizia da solo.

Poi mio padre mi ordinò di promettere che non avrei più fatto una cosa simile, ma non me la sentii e mi rifiutai di fare una promessa che non avrei mai mantenuto. Io non ero una femminuccia, e mi consideravo uno in grado di risolvere da solo i propri guai, quindi non potevo promettere che, se uno faceva un torto a me e ai miei amici, io sarei corso dal preside.  Non avrei mai potuto tirarmi indietro perché nessuno mi doveva mai chiamare cacasotto. Quella sera ricevetti a casa una razione abbondante di schiaffi in sostituzione della cena, e il giorno dopo si riunì il consiglio disciplinare che mi sospese per una settimana, con una nota negativa in condotta.

 

In Italia

 

Dopo quattro anni, finii le superiori ed emigrai in Italia. Facevo qualche lavoretto saltuario e mi ero anche trovato la morosa, quando un giorno d’estate – ricordo benissimo il caldo che soffoca Milano d’agosto, e ricordo che stavo per finire nei guai – incontrai Renzo, un mio amico che si lamentava delle ingiustizie che gli aveva arrecato un nostro paesano, un tipo prepotente, che nella sua vita di emigrato si era specializzato nel fregare i suoi connazionali, tra i quali anche il mio amico. Renzo quindi era deciso a dargli una lezione e quello che chiedeva era il mio aiuto. Per un momento sentii la voce di mio padre che mi ordinava di promettere di non farlo mai più, per un attimo pensai di dirgli di no, che avevo paura, oppure che avevo da fare e che non potevo aiutarlo, ma erano parole che non avevo mai pronunciato nella mia vita, erano parole che un uomo non doveva mai pronunciare. Lo guardai negli occhi e gli chiesi: “Renzo dimmi, cosa vuoi fare?”.

Naturalmente non avevamo più quindici anni e io dovevo immaginarmi che non mi stavo mettendo a disposizione per partecipare ad una bravata, punibile con un richiamo disciplinare, ma stavo andando dritto in galera. La vendetta che aveva in mente il mio amico era di un tenore molto più pericoloso, talmente che siamo finiti tutti e due in carcere con l’accusa di sequestro di persona. Negli occhi del maresciallo dei carabinieri che mi interrogava vedevo la stessa espressione arrabbiata del preside della scuola, mischiata con quella minacciosa di mio padre, e per questo tenni la bocca chiusa e mi rifiutai di collaborare. Al processo fummo condannati alla pena di diciassette anni.

 

In carcere

 

Sono passati quattordici anni da quel giorno piovoso di Tirana e dieci anni da quel giorno caldo di Milano, e mi trovo nel carcere di Padova, dove continuo a scontare quella condanna per sequestro di persona. Sono seduto sullo sgabello e sto guardando fuori, attraverso la grata della finestra, due rondini che stanno costruendo un nido enorme sotto la tettoia della palestra. Il loro impegno riflette la grande attenzione che intendono dedicare ai piccoli, per tirarli su sani e forti, per insegnargli a vivere a lungo e lontano dai pericoli. Mi sono fermato a guardare le due rondini mentre stavo pensando al preside della mia scuola superiore e a mio padre. I loro consigli e le loro raccomandazioni mi sono ritornati in mente con la velocità di un lampo subito dopo che ho parlato con Luli, un mio conterraneo che è in carcere perché condannato a dieci anni per spaccio.

Nel nostro reparto di detenzione i casini sono rari, ma immancabili. La vita di solito scorre lenta, pesante e senza scontri, poi all’improvviso qualche piccola banalità accende gli animi di qualcuno che si scatena contro qualcuno altro. Così anche Luli, che non aveva mai fatto problemi fino ad oggi, ha avuto una discussione un po’ aspra giocando a calcetto, e poi è stato picchiato da due persone, che l’aspettavano sotto le scale. E Luli non la manda giù.

Si vuole vendicare anche lui come Endrit e come Renzo, e dato che l’unico altro albanese in reparto sono io, è venuto a chiedermi una mano per aiutarlo a portare a termine il suo piano, per accompagnarlo negli inevitabili guai che seguiranno. Lui è lì che parla pieno di collera, la sua rabbia gesticolata è inarrestabile come un fiume in piena, mentre io continuo a guardare le rondini e mi chiedo se questa volta devo finalmente comportarmi secondo i consigli mai ascoltati di mio padre. Osservo le rondini mentre Luli è in corridoio che mi aspetta.