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Spezzare la catena della vendetta Il perdono è stato come respirare un’aria che non mi spettava Se il padre della persona che hai ucciso dice che non ti odia più, ti senti come perduto, ti manca la terra sotto i piedi, ti assale una sofferenza che prima nemmeno immaginavi
di Dritan Iberisha, febbraio 2008
Sono in carcere per duplice omicidio. Voglio raccontare cosa è stato per me odiare ed essere odiato, e anche cosa succede quando uno che ti odia per il male che gli hai fatto, poi ti perdona. Nella mia vita ho fatto del male a diverse persone. A volte ero spinto dall’odio che avevo verso di loro perché mi avevano fatto del male a loro volta, altre volte invece soltanto per motivi futili. Però quella volta che ho ucciso è stato per una vendetta. Sia prima di entrare in carcere, sia nei primi anni di carcerazione non ho mai pensato se le cose che facevo erano giuste oppure no. Sapevo che dovevo farle e basta. Odiavo quelli che avevano ucciso una persona a me cara e il dovergli dare la caccia l’avevo preso come una ragione di vita. Non pensavo alle conseguenze per le loro famiglie e per la mia, e poiché l’odio era assolutamente più forte della paura per il carcere, non temevo nemmeno di andare in galera. Non mi interessava di vivere o di morire. Nel mio paese, dopo la caduta del regime comunista, non c’era più ordine pubblico e i Tribunali non funzionavano più. Quando qualcuno commetteva un crimine, se non veniva preso in flagranza di reato difficilmente veniva punito, perché molti poliziotti erano stati licenziati in quanto comunisti e allora non c’era più nessuno che faceva indagini. Vedere qualcuno che ha ucciso girare per la città tranquillamente il giorno dopo non è facile per i famigliari o gli amici della vittima. Quindi molte persone hanno cominciato a ritornare a quell’insieme di norme tramandate che è il Kanun e a farsi giustizia da soli. Sembra strano, ma si pensava che la fine del regime avrebbe rapidamente prodotto un maggior benessere in Albania, invece ha sfasciato tutte le istituzioni e ha fatto ritornare in vita una specie di legge che ha regolato la vita del mio popolo nei tempi antichi, quando in Albania le persone non avevano uno Stato. In questo clima anch’io ero convinto che dovevo essere più duro e più cattivo degli altri per sopravvivere. Anzi pensavo che quella era l’unica cosa da fare e che non c’erano alternative. Dovevo seguire alla lettera la regola dell’occhio per occhio, dente per dente. Passati appena quattro anni di carcerazione i miei famigliari mi hanno mandato la notizia che il padre di una delle vittime aveva deciso di perdonarmi di avergli ucciso il figlio e che la faida con lui era da ritenersi chiusa. Questa notizia per me è stata buona, e nello stesso tempo in qualche modo “umiliante”. Mi sono sentito troppo male. Mi sentivo un essere umano che respirava un’aria che non gli spettava. Mi chiedevo giorno e notte come mai lui aveva trovato la forza per perdonarmi, mentre io non avevo mai pensato di perdonare suo figlio e chiudere per primo con quella tragedia. In quella occasione sono arrivato alla conclusione che odiare non solo non porta da nessuna parte, ma ti fa unicamente stare male, e ti costringe a cercare ossessivamente di fare del male a qualcun altro. E il paradosso è che quando hai trovato il tuo nemico e lo hai ucciso, non ti liberi dal malessere, ma continui a sprofondare ancora di più nella bestialità della violenza e non riesci più a distinguere il buono dal cattivo, ma perdi ogni rispetto per l’essere umano. Secondo me odiare è facile, invece smettere di odiare è difficilissimo, ma quando questo avviene, succedono delle reazioni imprevedibili, come nel mio caso, in cui l’umanità di quel padre mi costringe a convivere con un rimorso in più. Anche se sto scontando la mia pena, per me non vuol dire che ho pagato il male che ho causato ad altri, perché so benissimo che nessuno potrà mai restituire ai familiari delle vittime i loro cari. Ecco perché dico che un conto è quello che si paga con la giustizia, e cioè il carcere, un altro conto è quello che devo alla mia coscienza e ai famigliari della vittima del mio reato, perché io immagino che per loro il dolore rimarrà per sempre e di certo non si cancellerà quando arriverà il mio fine pena. |
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