Sognavamo un paio di jeans

 

Storia di uno scafista albanese

 

Quello che segue è il racconto di un detenuto albanese che nella sua vita ha fatto anche lo scafista, è un’esperienza che in qualche modo lo ha segnato e di cui conserva anche dei ricordi dolorosi.

Ognuno di noi, quando si racconta, cerca di trascurare le proprie miserie e di dare il meglio di se, e forse anche il nostro interlocutore lo ha fatto. Noi sappiamo che gli scafisti guadagnano molto, che alcuni fanno parte di organizzazioni criminali, ma sappiamo anche che ci sono ragazzi che fanno questo mestiere, spinti dalla voglia di guadagnare un po’ di soldi, in un paese in cui non ci sono grandi possibilità di scelta. La realtà è dunque più complicata di come, spesso, la descrivono quei giornali che amano le tinte forti e parlano solo di scafisti che buttano a mare donne e bambini.

 

Di Artur, nome di fantasia, agosto 1999

 

Sono nato in Albania in una città vicino al mare, Valona.

La mia è una famiglia di operai molto numerosa, mio padre lavorava nelle cave di calce.

Avere la possibilità di studiare sotto il regime comunista di Enver Hoxha non era molto facile. Gli studi erano riservati ai figli degli intellettuali o agli uomini del regime, oppure bisognava essere molto bravi per ottenere una borsa di studio, ed io lo ero.

La mia casa è proprio vicino al mare, quando ero bambino i nostri giochi si svolgevano tutti lì, sulla spiaggia, ed il mare era la nostra unica fonte di divertimento.

Modificando dei vecchi televisori riuscivamo a recepire il segnale italiano, anche se sotto il regime di Enver Hoxha la ricezione delle trasmissioni italiane era severamente vietata.

Quelle immagini mi portavano la realtà di un mondo, di un paese che mi sembrava incredibile, quel tipo di vita la desideravo, ed anche quelli che per lavoro, come i camionisti, avevano la possibilità di uscire dall’Albania ci raccontavano di un paese delle favole. Noi sognavamo veramente un paio di jeans.

Dopo la morte di Enver Hoxha, mentre frequentavo il primo anno di ingegneria meccanica, un giorno del febbraio ‘91 iniziava la rivolta di Valona che poi si estese in molti paesi dell’Albania: erano in molti a tentare di assaltare i porti per espatriare, ma i tentativi fallivano perchè i militari sparavano addosso. Le navi ed i pescherecci furono allontanati dai porti ed ancorati allargo, nella rada.

In una notte del marzo ‘91 io e un mio amico del mio stesso quartiere, che lavorava su un peschereccio, ci provammo. Quella notte ci ritrovammo a casa mia una decina di ragazzi, attendevamo il segnale che doveva arrivarci dal peschereccio ancorato al largo. Doveva farlo il nostro amico, a quel punto lo avremmo raggiunto a nuoto.

Ricordo le lacrime di mia madre, che si metteva letteralmente davanti alla porta per impedirci di partire: per quella notte sia per il casino che fece che per la sua determinazione riuscì a fermarci.

Due miei fratelli maggiori arrivarono in Italia con il grande esodo del ‘91, io soltanto sei mesi dopo, riuscendo finalmente a salire su un peschereccio, dopo aver pagato cento dollari.

Approdammo nel porto di Brindisi, conoscevo un po’ di italiano e riuscii a riunirmi con i miei fratelli. Sono rimasto in Italia sino ai primi mesi del ‘94, facevo il muratore ma avevo molta nostalgia di casa mia, mia madre, i miei fratelli, il mare.

Alla fine, un giorno mi imbarcai a Trieste sul traghetto con destinazione Durazzo. Arrivato a Valona rimasi stupito del grande cambiamento che era avvenuto in quel breve lasso di tempo: negozi, grosse auto, gente vestita in maniera molto appariscente. Domandai agli amici come era stato possibile tutto questo, la risposta fu: il mare!

Il mare che da bambini guardavamo con gioia e rispetto ora poteva cambiare la mia vita! Parlai con un mio amico che aveva alcune conoscenze ed iniziai ad inserirmi nel giro degli scafisti, il mio primo incarico fu di fare l’accompagnatore. Visto che parlavo l’italiano, salivo sul gommone con la gente che chiedeva di fare la traversata alla ricerca di fortuna e di condizioni migliori di vita, facevo il viaggio con loro sin qui in Italia, scendevo e li accompagnavo fino ad una stazione ferroviaria, provvedevo ai biglietti e tornavo in Albania con il primo traghetto.

Durante questi viaggi imparai a portare il gommone: non è una cosa facile. Dopo poco, me ne affidarono uno. La paga era più del doppio di quella da accompagnatore.

Con i soldi guadagnati in un anno mi comperai anch’io un gommone e mi misi per conto mio. Quello che mi stupiva, anche se pure io avevo fatto la stessa esperienza, era la determinazione che quelle persone avevano a voler partire ad ogni costo, spesso erano loro

che tentavano di spingerci a partire anche se le condizioni meteorologiche erano pessime. La decisione era comunque mia, se le previsioni del tempo non erano buone non si partiva; mi consigliavo anche con anziani pescatori e non sbagliavano mai!

Quando sento le storie di scafisti che gettano la gente in mare, resto male, perché so che noi non l’abbiamo mai fatto. Capita che qualcuno possa cadere in mare per qualche manovra improvvisa, ma non c’è volontarietà, gli scafisti sono responsabili della gente che trasportano, se si comportassero come tante volte si legge sui giornali, in Albania sarebbero puniti dagli altri scafisti, anche perché la loro attività ne verrebbe danneggiata.

La prima volta che mi affidarono un gommone, sentivo molto la responsabilità che era caduta sulle mie spalle. Nelle mie mani c’era la vita di trenta persone, le loro vite e la mia dipendevano dalle decisioni che prendevo io. Un errore nell’affrontare un’onda avrebbe significato la fine. Purtroppo nel febbraio del ‘96 accadde proprio questo…

Partimmo da Valona, il mare era calmo e le previsioni buone. Eravamo in trentatre sul gommone.

Uscimmo dalla baia di Valona e il mare cambiò improvvisamente, ci ritrovammo tra onde alte ed un forte vento di tramontana veramente cattivo: pensavamo che superato quel tratto critico il mare sarebbe tornato navigabile, ma purtroppo non fu così Dopo alcune miglia decidemmo di tornare indietro, le onde superavano i quattro metri ed il vento era molto teso, proseguire era una pazzia. Cercai di impostare la virata ma nella manovra un’onda ci sommerse completamente, grazie aDio nessuno cadde in mare, con quelle condizioni atmosferiche avrebbe significato la morte sicuramente. A quel punto detti massima potenza ai motori, di modo che la prua del gommone si alzò facendo defluire da dietro l’acqua imbarcata.

Puntai la prua verso la costa riuscendo a percorrere oltre venti miglia in quelle condizioni Finalmente si iniziarono ad intravedere le luci della costa, accolte da un urlo di sollievo da parte di tutti noi eravamo in salvo o almeno lo credevamo.

Ma il mare non ci dava tregua.

Un’onda più grossa delle altre si abbatte sui motori bloccandoli. era successo ciò che di peggio poteva capitarci in quelle condizioni, l’onda aveva rotto i serbatoi della benzina. La prima cosa che pensai è che stavamo tutti per morire.

Mantenni la calma cercando di infonderla anche agli altri, dicendogli che il gommone era quasi inaffondabile, e infatti restò coperto d’acqua, ma galleggiava. Lanciai subito i razzi luminosi per chiedere soccorso, dopo di che attivai la radio, ma purtroppo non riuscii a contattare né la capitaneria del porto di Valona né quella di Otranto.

Finalmente vedemmo una nave e iniziammo a sbracciarci ed a fare segnali per farci notare, veniva verso di noi… forse non ci vide… ma ci passò così vicino che rischiò di affondarci. Non so dire quale fosse la sua nazionalità.

Le ore scorrevano ed eravamo in balia del mare, cercavamo di dirigere il gommone a remi aiutandoci con le mani ma la corrente era troppo forte.

Arrivò l’alba, ci eravamo nuovamente allontanati dalla costa, continuavo a mantenere la calma e cercavo di infonderla agli altri nella speranza che qualche imbarcazione ci vedesse e potesse soccorrerci, ma trascorremmo anche quel giorno e la notte successiva in quelle condizioni disperate. Il giorno seguente verso le dieci del mattino vedemmo in lontananza il traghetto di linea Otranto-Valona, ma a causa delle condizioni del mare non fummo avvistati, anche perché eravamo semisommersi. Nel primo pomeriggio udimmo il rumore dei motori di un aereo e iniziammo ad agitare indumenti per attirare la loro attenzione.

Fortunatamente l’aereo volava a bassa quota e ci vide, ci sorvolò alcune volte, dopo di che lanciò quattro segnali fumogeni per segnalare la nostra presenza. Ci avevano trovati, eravamo salvi. Dopo mezz’ora ci raccolse il traghetto di linea che in precedenza non ci aveva visto. Il gommone fu abbandonato sul posto e dopo quella avventura decisi di chiudere con il mare, smisi di fare lo scafista.

La speranza è che in futuro non ci sia più necessità di rischiare la vita per attraversate clandestine, e io spero che con l’aiuto dell’Italia e di tutta l’Unione Europea, unita alla nostra determinazione di popolo, riusciremo ad avere prospettive di vita dignitosa anche in casa nostra.