Te la sei voluta, sei venuto in Italia a far reati, e ora fatti la galera da solo…

Il percorso a ostacoli di mio fratello per venirmi a trovare dall’Albania

 

di Arqile Lalaj, novembre 2006

 

Sono uno di quei pochi detenuti stranieri che ha la fortuna di avere un parente, nel mio caso un fratello, che riesce a venire in Italia una volta all’anno con un visto turistico. L’Albania, il Paese da cui provengo, non fa parte dell’Unione Europea, e quindi per poter entrare in Italia bisogna per forza munirsi di un visto d’ingresso: una cosa difficilissima da ottenere.

Ecco concretamente che cosa fa mio fratello per venire a trovarmi. La prima cosa in assoluto che mio fratello deve avere per poter presentare la domanda al Consolato italiano è una dichiarazione di garanzia fatta da un cittadino italiano, o da uno straniero che abbia un regolare permesso di soggiorno. La garanzia consiste nell’offrire la disponibilità di ospitare la persona e farsi garante di provvedere al suo mantenimento, nel caso che la persona straniera non sia in grado di farlo da sola. Questa dichiarazione di garanzia deve sempre essere valutata dalla Questura italiana, che fa le verifiche del caso e poi dà il suo parere. La fortuna di mio fratello è quella di avere degli amici in Italia che sono disposti ad ospitarlo.

Quindi, la persona che garantisce, dopo aver ricevuto il nullaosta della Questura, che solitamente dura dai 45 fino ai 90 giorni, lo spedisce a mio fratello che si trova in Albania. Poi lui presenta la domanda di visto d’ingresso presso il Consolato italiano di Valona e attende il telegramma col quale il Consolato notifica la fissazione di un colloquio, che è una specie di interrogatorio attraverso il quale le autorità vogliono capire tutto: il lavoro che fai, quello che hai fatto, i motivi per cui vuoi andare in Italia, dove, come e quando hai conosciuto le persone che ti garantiscono l’ospitalità. Ovviamente mio fratello non menziona il fatto che deve venire a trovarmi in carcere e insiste sul discorso del viaggio turistico in compagnia dei suoi amici italiani: avere un pregiudicato in famiglia comporta una quasi sicura negazione del visto d’ingresso per motivi di sicurezza e di ordine pubblico.

Ottenuto il visto, si parte per il lungo viaggio Valona-Padova. Traghetto fino a Brindisi e poi in treno risalendo tutta la penisola fino a Padova. Sistemazione in un albergo e poi attesa delle due ore di colloquio del giovedì, e altre due il venerdì. Il tempo per parlare e raccontarmi tutte le novità dalla famiglia e dal mio paese. Le quattro ore non sono certo sufficienti ad aggiornarmi su tutto quello che succede, e così senza che ce ne accorgiamo si giunge alla fine. Un forte e lungo abbraccio per dirsi addio fino al colloquio successivo, che non si sa mai quando avrà luogo.

Finito il colloquio, mio fratello parte subito per il viaggio di ritorno senza perdere tempo: dopo avermi visto in carcere, dopo aver adempiuto al dovere morale verso il fratellino, non gli rimane più niente da vedere in questo Paese, deve solo pensare al resto della famiglia che è a Valona. Eh sì, perché i miei genitori hanno soltanto lui ormai. Io non posso esser loro vicino, e questo è un grande rammarico che mi accompagna durante questo triste percorso di galera. La giustizia ha condannato me perché ho spacciato droga, ma la condanna più grande l’hanno subita i miei genitori, e sono stato io a condannarli con la mia condotta. E per loro, che hanno 73 e 71 anni, non ci sono state attenuanti per l’età, ma una pena esemplare, quella di non avere un figlio vicino in un periodo della vita nel quale se ne ha maggior bisogno.

Io però credo di non essere stato da solo ad infliggere questa condanna ai miei genitori, in qualche modo mi sembra che complice sia anche il governo italiano, che non gli permette di venire a trovarmi con facilità. Perché se si potesse, i miei genitori prenderebbero l’aereo un paio di volte all’anno per venire a incontrarmi. Mentre così come stanno le cose, non riescono a trovare delle persone in Italia che garantiscano anche per loro, come fanno per mio fratello.

Tutti i genitori dei detenuti hanno il diritto di andare a trovare i loro figli, così come i figli dei detenuti hanno il diritto di sentirsi figli per qualche ora, giocare e passeggiare in un giardino, anche se è il giardino di un carcere. Invece questi diritti sono garantiti soltanto ai detenuti italiani, mentre per noi stranieri il bisogno degli affetti e dell’unità famigliare è come se non esistesse. Tutti dicono: “Te la sei voluta, sei venuto in Italia da solo, e ora fatti la galera da solo”, ma quanto è civile un atteggiamento del genere? Quanto riesce a rieducarci un comportamento di questo tipo?

Come fa una persona a rieducarsi, quando si sente continuamente spinta a fare gesti estremi per attirare l’attenzione? La frustrazione è grande quando vedo tanti ragazzi stranieri come me accarezzare le fotografie dei propri figli che non possono vedere, o di una moglie che non possono abbracciare. Mentre basterebbe poco per farci sentire di nuovo il calore di una famiglia, il sorriso di un figlio. Basterebbe poco per regalare qualche ora di consolazione a queste famiglie che soffrono per anni senza poter vedere il proprio caro in carcere. Qualche ora di colloquio sarebbe come una boccata di ossigeno per recuperare energie ed andare avanti, sopportando il peso della galera sulle spalle.