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Informiamo di più sul senso dei permessi premio In galera si disimpara a vivere fuori in mezzo alla gente libera Se avessi dovuto affrontare tutti quei cambiamenti e quei problemi della vita fuori in un solo botto, tutti assieme, penso sarebbe stata molto, ma molto più dura che non farlo passo passo, con i primi permessi
di Andrea Andriotto, novembre 2008
Era la Pasqua del 2004 quando, dopo quasi nove anni ininterrotti di carcere, ho avuto la possibilità di metter piede fuori dalla galera. Il Magistrato di Sorveglianza, infatti, per la prima volta mi aveva concesso un permesso premio da trascorrere con la mia famiglia. Fu un Evento, un vero e proprio avvenimento, sia per me, sia per tutta la mia famiglia che per l’occasione si riunì e per tutto il tempo, dieci ore, mi ricoprì di attenzioni, cercando di dimenticare il carcere, il dolore, il tempo trascorso e tutto ciò che mi ero perso in quegli anni vissuti fuori dal mondo. È passato un po’ di tempo da quel giorno, ma lo ricordo sempre come fosse ieri. Fu un rimescolarsi continuo di emozioni: eccitazione, trepidazione, commozione, tensione, nervosismo, gratificazione, felicità, piacere… impulsi che, così, concentrati e tutti assieme, non ricevevo da tempo. L’ultima volta che ero stato a casa mia, per radunare tutta la mia famiglia bastava un tavolo con sei sedie: eravamo quattro figli e i genitori. I miei fratelli, tutti più grandi di me, non avevano ancora messo su famiglia, e non c’era ancora nessuno che potesse chiamare noi zii, o i miei genitori nonni. Col passare degli anni, invece, per fortuna, i miei fratelli si sono tutti sposati e nel 2004, nove anni dopo, io ero diventato zio di sei marmocchi. Sì, certo, vivendo in carcere avevo comunque avuto modo di sapere come si stava evolvendo la vita là fuori, e dai racconti dei miei genitori o dei miei fratelli, avevo vissuto anch’io tutte le varie tappe: preparativi, matrimoni, gravidanze, battesimi, primi giorni di scuola. Ma, stranamente, per me i miei fratelli erano rimasti solo i miei fratelli, e i miei genitori erano esclusivamente i genitori miei e dei miei fratelli. Quel giorno, invece, in quella sala da pranzo dove ero cresciuto per i primi vent’anni della mia esistenza, mi resi conto realmente per la prima volta di quanto tempo fosse passato dal giorno del mio arresto. Per riunire tutta la “mia” famiglia, non bastava più un tavolo con sei sedie. In giro per casa c’erano delle piccole creature che giocavano e scalpitavano come fossero a casa loro, e chiamavano me zio e nonni i miei genitori. Caspita, quanto tempo era passato! Dopo quel primo permesso per fortuna ce ne furono molti altri e col passare del tempo capii che, pur essendo cambiate parecchie cose, pur non avendo più gli stessi ruoli di dieci anni prima, quella era pur sempre la “mia famiglia”, e pian piano ho cercato di ri-cominciare a ri-conoscere i miei cari nei loro nuovi ruoli. Nuovi per me, ovviamente. Passò un anno prima che fosse fatta una nuova proposta per allargare il mio percorso di reinserimento. La direttrice di Ristretti Orizzonti, infatti, si era data da fare e mi aveva proposto per un lavoro da svolgere all’esterno del carcere. Così, dopo dieci anni ebbi la possibilità di reinserirmi nel mondo del lavoro. Il mio programma prevedeva ogni giorno l’uscita dal carcere per recarmi sul posto di lavoro e la sera poi rientravo a dormire in carcere. Aspettavo da tempo una proposta del genere, e ovviamente non esitai un attimo ad accettare. Mi rendevo conto che tornare a vivere là fuori dopo così tanto tempo non sarebbe stato facile, ma mi sentivo pronto per qualsiasi sfida. E poi a quel tempo ero anche convinto di aver imparato molto dalla vita ed ero sicuro che quegli anni di galera mi fossero serviti proprio per capire meglio come vivere fuori.
Quel sogno di “recuperare” il tempo perso in galera
Così ho iniziato l’esperienza di lavoro all’esterno carico di aspettative e sogni, e con la speranza di iniziare a recuperare… il tempo perso. Sì, sono sempre stato consapevole che gli anni passati in galera non si sarebbero mai potuti recuperare, sapevo che non avrei mai più avuto 20 anni, ma nel profondo desideravo davvero recuperare almeno una parte di tutto quel tempo perso. E avrei voluto far vedere a tutti che non ero solo quello di dieci anni prima, e se mi fossero state date le carte giuste, la mia vita sarebbe potuta andare in modo diverso… In realtà, però, purtroppo, non ci volle molto per capire che io con la mia esperienza avevo imparato bene solo a sopravvivere dentro, in carcere, e al contempo avevo completamente disimparato a vivere là fuori in mezzo alla gente. Non sapevo più come fosse vivere una vita normale, fatta di gioie e delusioni, soddisfazioni e casini. Mi resi conto che mi stavo portando appresso solo un carico di grosse e belle teorie che trovavano pochi riscontri nella realtà, e, anzi, si scontravano spesso con la concretezza della vita. Non avevo considerato, poi, che per ricominciare a vivere bisognerebbe riuscire a lasciarsi il passato alle spalle. E nel momento in cui mi sono ritrovato inevitabilmente a dover fare i conti, in modo diverso da come avevo sempre fatto finché ero dentro, con ciò che dieci anni prima mi aveva portato in carcere, cioè l’uso di sostanze per cui mi ero già rovinato la vita, mi sono impaurito e mi sono accorto che tutte le mie certezze, che tutte le mie convinzioni cresciute e alimentate in carcere, erano andate a farsi friggere nel momento in cui ho dovuto confrontarmi direttamente con la vera realtà. Mi ero dimenticato che la paura è nemica della vita e che in teoria si può essere convinti di tante cose, ma poi è solo quando ci si scontra con la cruda concretezza delle cose che si capisce davvero sin dove arrivano le nostre certezze, le nostre verità, tutte le nostre sicurezze. È stata dura, certo, gli ostacoli sono molti, ma se non mi fosse mai stata data quella possibilità di uscire dal carcere in quel modo, pian piano, e se invece avessi dovuto affrontare tutti quei cambiamenti e quei problemi in un solo botto, tutti assieme, be’… penso sarebbe stata molto, ma molto più dura. E più facile sarebbe stato finire con l’essere un peso in più per le persone che mi stanno attorno, e di conseguenza anche per la società.
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