In pochissimi l’hanno veramente aiutato

a tornare definitivamente libero

 

Gli ultimi anni di vita e di "semiprigionia" di Horst Fantazzini raccontati dalla sua compagna: sono un po’ la storia di tutti quelli che vivono con fatica le dure regole della semilibertà

 

Di Patrizia (Pralina) Diamante, febbraio 2002

 

Volevo raccontare la mia personale esperienza, diciamo straordinaria poiché ho condiviso cinque anni della mia vita con una persona molto speciale: Horst Fantazzini, il "rapinatore gentile" che negli anni ‘60 era diventato una leggenda che riempiva tutte le pagine dei giornali, e che è morto tragicamente in carcere cinque giorni dopo il suo ultimo arresto, nel dicembre dell’anno appena trascorso. Un’esperienza però anche assolutamente ordinaria, perché simile a tante altre vicende umane e sociali di mogli e compagne di detenuti.

A partire dalla mia storia, si può allargare il discorso e capire che è un fatto più vasto, che riguarda tutti gli affetti vissuti in condizione di prigionia o di semiprigionia, o di "semilibertà" per usare un termine falso. Falso perché non può esistere una libertà spezzata in due, o la si concede senza condizioni, oppure è una trappola che può indurre una persona, specialmente se già provata psicologicamente da tanti anni di carcere, alla disperazione.

Conobbi quello che voleva diventare mio marito (ma non ci sono stati né il tempo né le condizioni per sposarci ufficialmente) cinque anni e mezzo fa, per corrispondenza. Eravamo entrambi appartenenti al movimento anarchico. All’inizio era un po’ uno scherzo, io redigevo una fanzine che si chiamava "Groucho fuma" (dalla poesia di Salvatore Salemi) e con l’amica Dada Knorr avevamo scritto un libro che s’intitolava "La nostra Idioma".

Lui, come spesso succede ai carcerati, ingannava il tempo leggendo, aveva persino conseguito una laurea in letteratura. Gli piacque il mio linguaggio ironico, demenziale, caustico, assolutamente folle, come diceva lui: "Tu giochi con le parole come se fossero stelle filanti, coriandoli colorati". Era affascinato dal mio modo di scrivere, e conosceva le mie doti come pittrice. Ci innamorammo quasi subito. Bene, per farla breve, anche lui che era pittore, grafico ed eccellente scrittore (nel 1976 Giorgio Bertani di Verona pubblicò il suo libro autobiografico "Ormai è fatta!" sui tragici fatti di Fossano del 23 luglio ‘73 (dai quali è stato tratto un film), e per quattro anni a partire dall’ottobre del ‘96 ci fu uno scambio colorato, folle, intensissimo di lettere, di disegni, di poesie, di ritagli di giornale, di fotocopie e quant’altro ci veniva in testa in quel momento...

Il carcere tende a sopprimere i colori, a fermare il tempo, a restringere gli spazi, ad annullare la personalità, a far regredire le persone ad uno stato di dipendenza assoluta, ad uniformare i comportamenti, ad esprimere regolamenti anche in campo affettivo, a separare gli amanti; quindi le nostre lettere erano abbastanza "strane" e talvolta provocatorie in un ambiente come quello, ma assolutamente necessarie per mantenere un contatto e restituirci un calore e una presenza l’uno dell’altra che ci mancava moltissimo.

Per anni le lettere e quelle poche e brevi telefonatine concesse, hanno sostituito la presenza quotidiana, hanno acceso le nostre fantasie erotiche, hanno significato una speranza di una vita libera, insieme.

Una volta o due al mese lo raggiungevo a colloquio, scoprendo un mondo che prima non conoscevo e che mi rimarrà impresso per tutta la vita.

Capivo o non capivo l’assurdità di certi regolamenti, che vietano di portare a colloquio questo e quello, non potevo cucinare per lui e mi adattavo solo per poterlo vedere e per non creargli ulteriori difficoltà. Nelle sale d’attesa incontravo tanti familiari, mogli, genitori e figli di detenuti, e cercavo di instaurare con loro un rapporto di cordialità e di gentilezza, perché li consideravo miei "compagni di sventura". Vedevo le loro difficoltà che non erano dissimili dalle mie.

Innanzi tutto per accedere a colloquio si sottostava ad una serie di pratiche burocratiche interminabili e ci facevano aspettare una vita, ma non potevamo tenere l’orologio una volta entrati in quel girone dantesco: il tempo era ed è in mano loro.

Il contatto troppo stretto era ed è tuttora vietato, per noi c’era sempre un tavolo oppure in certe carceri c’è addirittura ancora il muretto nel mezzo, ma come si fa a tenere due amanti separati? per un bacio in più "non regolamentare" si rischiava e credo si rischi ancora di venire espulsi dal colloquio. Tutto quello che potevamo concederci era "strappato" con la velocità e con l’astuzia, quando i controlli si allentavano un po’…

Con queste cose assurde, ma fatte apposta per fiaccare i parenti, per indurli a non andare più a trovare i propri cari, dato che la "droga" comunque entra lo stesso... abbiamo continuato per anni, e finalmente è arrivato un primo permesso.

All’inizio coi suoi permessi era un’euforia continua, eravamo felicissimi, pieni d’entusiasmo e di sana allegria, persino un po’ matti, ma davvero la gioia di poter fare l’amore finalmente era troppo grande !

Passavamo ore intere a coccolarci, a guardarci negli occhi, a studiare i nostri corpi, a sciogliere tensioni e rabbie, ad esprimerci una felicità incontenibile, grandissima, che gli altri tuttavia coglievano e ne erano persino imbarazzati… forse invidiavano un pochino la nostra irruenza, la nostra spontaneità, l’amore grandissimo che ci stavamo regalando. I nostri occhi brillavano come fuochi nel mare.

Ma i permessi erano un po’ come una vacanza alle Bahamas da quell’inferno, e quando arrivò con la "semilibertà" il lavoro esterno come magazziniere, Horst usciva alle sei del mattino per tornare dentro alle dieci di sera… all’inizio sembrava molto bello, in lui c’era molta curiosità e molta voglia di riscattarsi da una vita intera passata dietro le sbarre, di tornare ad una vita quasi normale da operaio "come ai vecchi tempi" in mezzo alla gente di Bologna, la sua bella città; di recuperare l’affetto dei figli, di dimostrare che "poteva farcela", di sistemare la sua casa, di riunirsi a me e a mio figlio Chicco; poi sopraggiunsero delle difficoltà enormi.

 

Una delle rare notti che dormimmo insieme sognò d’essere in cella

Il ricatto di dover tornare ogni sera alle dieci era sopportabile all’inizio, poi diventò una trappola, una spada di Damocle sulla testa che gli pesava moltissimo, che non lo faceva dormire, che gli dava un tormento enorme. Era anche molto stanco e debilitato a livello fisico, il lavoro non era proprio il massimo; credo che fosse provato da tanti anni di carcere anche duro, in condizioni estreme. Nei decenni passati, in seguito ai fatti di Fossano aveva subito vari interventi chirurgici, era uscito da due tentativi di suicidio, da un coma e da un feroce pestaggio all’Asinara.

Aveva dei problemi di salute abbastanza seri che non manifestava per paura di tornare in carcere (ai semiliberi non è concesso il diritto di curarsi fuori, non hanno nemmeno il diritto di avere un medico di famiglia).

Questa sua situazione era di particolare disagio sia per lui che per me, per la gravità della sua posizione giuridico-carceraria (aveva un Fine pena calcolato intorno al 2.017), ma credo che si possa paragonare ad altre situazioni di semiliberi che si ricongiungono coi loro cari.

Le nostre poche ore giornaliere insieme erano condizionate da questo ricatto, e le persone che aveva intorno, i figli, gli amici o coloro che si spacciavano per amici, non riuscivano a capire questo nostro stato d’animo. Non siamo stati molto fortunati e le persone che abbiamo avuto intorno non erano proprio dei mostri di sensibilità.

In poche ore di libertà "concesse" è difficile ed alla fine impossibile viversi qualsiasi cosa in modo tranquillo, spesso eravamo costretti ad accavallare tempi, appuntamenti, interessi, ma la vita sociale, della quale aveva bisogno, non si conciliava con i nostri momenti d’intimità. Stare con gli altri; sistemare la casa, accudire un cane, andare a fare la spesa, uscire fuori o stare in casa da soli, a letto, a fare l’amore: non era possibile di viversi tutto insieme contemporaneamente. La smania in lui cresceva. Crescevano anche le mie insicurezze. La dipendenza dall’istituto del carcere era tale che una delle rare notti che dormimmo insieme, nell’ultimo periodo, sognò d’essere in cella. Era sempre più stanco e sempre meno motivato a continuare una vita in condizioni durissime.

Forse tentò una rapina per questo, o per dimostrare a se stesso e al mondo di non essere una persona finita, perché era ribelle per natura, il figlio di un anarchico leggendario che negli anni ‘20 sparava ai fascisti o perché ingenuamente sperava di farcela e avrebbe avuto più soldi per noi, dato che il Natale era alle porte e Bologna già scintillava di luci e traboccava di doni...

Horst ribelle, anarchico, bandito ? Rapinatore per una tensione di libertà, o prigioniero di un mito ? Mi diceva sempre: "Sono stanco di fare il martire, ho sopportato troppa galera".

Sta di fatto che molti ci "ricascano" e poi ritornano dentro. Ributtando i loro cari in un tormentone senza fine. La galera è anche un po’ per noi che viviamo il carcere come l’estremo ricatto sulla nostra vita.

Molti dicono che andare dentro è più facile che restare fuori. E di certo, vivere l’affettività con una persona detenuta è difficile, ma forse con una persona in semilibertà è ancora più difficile. Si dovrebbe concedere la libertà piena, completa, e se ci sono dei problemi dare a queste persone la possibilità di curarsi, non per restituirle alla "normalità" ma perché siano veramente felici.

A parte le considerazioni politiche e sociali, sul fatto ad esempio che "in carcere ci vanno solo i poveracci" (come scrissi per il suo funerale, avvenuto il 29 dicembre scorso) il carcere è un’istituzione classista per eccellenza, nel carcere non troverete mai una sola persona che veramente conti: la legge non colpisce mai le persone ricche o gli uomini di potere, poiché è fatta su misura per loro...

Sono convinta che se Horst avesse avuto più tempo da dedicare al nostro rapporto senza altre persone negative intorno, ed a progetti di lavoro gratificanti che oltretutto conosceva bene (grafica, computer e scrittura), sarebbe stato meglio, si sarebbe sentito maggiormente realizzato, meno umiliato, e forse non avrebbe tentato l’impossibile.

Molti parlando a vanvera (poiché non conoscevano Horst) hanno giudicato questa vicenda, tirando somme approssimative, tirando l’acqua al loro mulino o speculando politicamente sul suo gesto o addirittura sulla sua morte, in pochissimi l’hanno veramente aiutato a tornare definitivamente libero.

Sto scrivendo un libro su tutta la vicenda. C’è del rosa, ma anche del giallo e del nero. Un punto interrogativo sull’epilogo tragico di quest’uomo.

Restano per me amare considerazioni sulla vita di questa persona in particolare, ma anche sulle condizioni che abbiamo vissuto, e che vivono i detenuti e i "semiliberi" con le loro famiglie…

Un caro saluto alla redazione di "Ristretti Orizzonti" e a tutte le famiglie che hanno a cuore la condizione dei loro cari "ristretti".