Amare un uomo che sta in carcere è un gioco di abilità

Quando una settimana è fatta di 167 ore di attesa e un’ora di colloquio. La sola cosa che provo con chiarezza è l’estrema speranza che, un giorno, tutto questo possa e debba finire

 

la compagna di un detenuto, novembre 2006

 

Il mio uomo non sta partecipando a un reality show in un’isola deserta, non vive su una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano; non è nemmeno un astronauta; non è partito per la campagna di Russia… il mio uomo vive nella torre, e muri e blindati e sbarre e soldati ci separano. È uno che deve pagare un suo debito alla società, la quale lo priva della libertà, del tempo dell’esistenza attiva e di me.

La mia vita è sospesa quanto la sua in un modo di esistere che ha sempre troppo vuoto intorno e il vuoto, si sa, assorbe vita ed energia e vuole essere colmato. Una settimana consta di 168 ore, io ne trascorro 167 aspettando; aspetto quell’ultima centosessantottesima ora che mi consentirà di stare con lui. Sessanta preziosi minuti, durante i quali dovrà starci tutto quello di cui una coppia ha bisogno, tenerezza, confronto, notizie di ordinaria quotidianità e persino silenzio. Ogni vigilia redigo l’indice delle cose che vorrò dire e fare; e calcolo un tempo probabile perché possa starci tutto e ogni punto, questione o problema, dovrà essere compiuto allo scadere del tempo o finirà per diventare un tarlo o, peggio, un incubo e vanificare l’energia benefica che il colloquio mi dà e che mi sosterrà per l’intera settimana.

È un gioco di abilità amare un uomo in questa condizione, devo usare ogni suo sguardo, l’inclinazione della sua voce, il suo braccio intorno alle spalle, le parole che mi dice e come le dice, il suo profumo, il calore del suo corpo, per dare un senso alla mia storia anche quando, rigettata sul piazzale antistante il carcere, la vita normale mi arriva addosso con tutta la sua luce, aria, libertà che per me diventano solo vuoto. È il momento in cui ho tutte le 167 ore davanti, un treno lunghissimo che sibila stridente; la percezione che lui esiste è vivissima, sono appena uscita dalle sue braccia, a testimonianza che lui esiste veramente.

Sento la mia anima alzarsi in volo verso la vita e cozzare come un uccello contro un vetro troppo lindo; sento tutta la ferita del limite colare sui miei occhi: c’è di tutto da fare in questo sabato pomeriggio, c’è tanto cielo e gente e vetrine; c’è estate, c’è inverno e mare e neve e chiese e vele… ma lui è in un altrove a cui io non posso accedere. La sera me ne sto con la testa sul cuscino, ad occhi chiusi, facendo la moviola del nostro incontro, fisserò ogni cosa dentro di me perché so che, già domani mattina, l’immagine di lui tornerà ad essere fissa come quella sua foto che mi sorride dal comodino…

Poi comincerò a muovermi tra i miei impegni, fagocitandoli o, forse, facendomi inghiottire da essi, per non pensare, per non sentire che lui non c’è… il lavoro, la gente, appuntamenti, impegni, la casa, i fiori, il cane, la spesa… tutto si somma, si accalca nelle mie giornate in un ritmo frenetico: non voglio pensare, non voglio sentire quando mi manca, non voglio avere bisogno della sua voce che mi chiama in fondo alle scale. Devo avere sempre qualcos’altro da fare, essere in ritardo per non lasciare spazio alla testa, per non vedere che non c’è mai il suo maglione blu buttato sulla sedia, le sue scarpe in disordine, la schiuma da barba lasciata aperta sul mobile del bagno.

 

Quel letto è davvero troppo grande

 

La notte affronto il letto molto tardi, quando sono così stanca che crollerò al contatto con le lenzuola, perché quel letto è davvero troppo grande e insopportabile la metà che resta sempre intatta. Concedo solo un attimo all’idea del suo viso abbandonato nel sonno, a me stessa non consentirò il desiderio di lui perché già troppe volte ho sentito il mio corpo piangere di un dolore che non può avere consolazione che in lui. Lascio che tutto taccia, nascosto da strati di una glaciazione lunga tutti gli anni scritti su quel faldone. A volte ho la sensazione di essere solo una testa vagante, tanto è lontana la percezione della mia persona fisica che solo lui, col suo amore e col suo desiderio, può definire. Eppure il mio corpo lo curo quasi con disperata ostinazione perché sento il tempo fuggire e temo che quando verrà, non ci sarà più niente di buono e di bello per lui sotto il mio vestito.

Le sue lettere sono parentesi di vita. Le aspetto con ansia, controllo i tempi e i modi del postino. Le osservo giacere nella cassetta e già parlano di lui. Scorro su di esse e so, con certezza, quello che lui vive, pensa, sente. Conosco il suo umore, quello che mi dice e, ancor di più, quello che tace. Gli scrivo molto anch’io e benedico la carta, la penna e quella grafia che si dispone sul foglio dando forma ai nostri pensieri, ma temo il giorno in cui le parole si faranno logore, e suoneranno vuote, estenuate da un tempo troppo lungo.

La mattina, mi dice di essere viva la certezza della sua esistenza e, subito, calcolo quanto tempo mi separa da lui: se è troppo cerco impegni, espedienti che, come chiodi di uno scalatore, mi aiuteranno a salire la parete troppo rigida della sua assenza; se, invece, il molto è stato fatto, qualcosa comincia ad allentarsi dentro di me: posso finalmente pensarlo come verità. Posso e devo, perché se non faccio partire il meccanismo di “decompressione”, rischio di arrivare da lui e di non essere in grado di viverlo pienamente, di assorbire l’energia di vita, di realtà, di cui ho bisogno per non pensare di me stessa di essere solo una pazza visionaria.

 

Obbligata a mettere in pubblico ogni sguardo, sorriso, ogni gesto di tenerezza

 

Il tempo della vigilia è scandito, come si conviene, da una liturgia di gesti e di pensieri, è uno stato d’animo sospeso, emozionato… l’importante è non perdere il passo o niente sarà adeguato ed efficace…, ed è così che mi ritrovo un’altra volta lungo il viale del carcere… Pochi istanti ed entrerò nello stargate che mi porterà da lui. Un minuetto di gesti e frasi che si ripete sempre uguale… nomi pronunciati come parole d’ordine, suoni di metal detector, ordini impartiti, voci imperative; il nastro trasportatore fagocita masserizie; domande, risposte, mani sulla mia persona… la realtà mi passa davanti come scene di uno spettacolo in allestimento. Non voglio che m’importi di nulla, di quel luogo in ogni caso contrario alla mia essenza. Sento solo i battiti del mio cuore come tonfi sordi dentro al mio petto e voglio con tutta me stessa che neanche un brandello della mia dignità resti impigliato nelle spine di quel passaggio obbligato.

La fila che seguo mi porta nell’anticamera della sala colloqui. Sento qualcuno lamentarsi della attesa troppo lunga; per me quel tempo è il mare della tranquillità; adesso potrei aspettare 100 anni perché ormai lui è vicino e qualsiasi attesa non potrà essere più lunga delle crudeli, inesauribili, miserabili, ineffabili 167ore. Ricompongo il mio cuore e aspetto di sentire il nome del mio uomo. È gioia intensa quella che mi scorre dentro mentre percorro i pochi metri dell’ultimo corridoio; scruto attraverso le pareti di vetro cercandolo; incontro altri visi che mostrano i segni della mia stessa ansia, della mia stessa attesa. La chiave gira nella toppa e finisce l’ultima barriera, finisce il lungo treno delle ore d’attesa. Finisce la non-esistenza.

Incontro i suoi occhi, le sue braccia mi avvolgono e nel nostro abbraccio c’è di tutto, anche il confine della centosessantottesima ora, 60 minuti, talvolta 58, che sono la parte concreta del mio amore…, del mio amore “laterale”, sarebbe giusto dire, perché tutto avviene mentre noi stiamo seduti fianco a fianco. Ultimamente, ho una storia soprattutto con la parte destra del mio uomo perché è da quel lato che sto seduta accanto a lui… almeno, però, mi può avvolgere col suo braccio e posso dargli un bacio senza dovermi protendere sulla barriera di un bancone come avviene in altri istituti, questo mi fa sentire fortunata e dimentico ogni fatica.

Chi mi sta intorno, invece, non lo posso dimenticare mai, sia esso dietro al vetro o seduta al tavolo accanto al mio, non saprò mai ridurre una persona ad una silhouette impersonale. È una continua, impercettibile violazione, quella che vive la mia persona, obbligata a mettere in pubblico ogni sguardo, sorriso, ogni gesto di tenerezza, la minima effusione; non solo il sesso è intimità, ma ogni cosa che spetterebbe solo al mio uomo. Il tempo trascorre tra le cose dette, quelle lasciate ai sorrisi, alle carezze, alle lacrime, le note di vita, le raccomandazioni, qualche bacio.

Un giro di chiave e una voce impone la fine del colloquio. L’atmosfera si fa concitata, la testa non riesce più a controllare quello che accade; mi sento pronunciare parole, ne ricevo altre sconnesse, la sola cosa che distinguo è la supplica che portano in esse, quella di continuare ad esistere e l’estrema speranza che, un giorno, tutto questo possa e debba finire. Non riesco mai a vederlo andare via, si dissolve.

Sono lì quando mi gira le spalle come un automa, ma i miei occhi non riescono a trattenere quella immagine. Resto ferma al centro della sala e ogni volta mi chiedo come faccio ad accettare, mi stupisco di non scoppiare a piangere, di riuscire a trattenere il dolore, di vederlo portato via in una dimensione altra, in cui io non potrò più nulla. Tristezza, impotenza, a volte persino disperazione si affollano in me senza che io ne mostri il segno, ma sento il mio cuore scagliarsi contro quel blindo ormai chiuso. Come un bambino disperato lo strappo via a stento, lo trascino via lungo i corridoi. Sento sul petto l’affanno, forse barcollo non lo so, mentre ritorno nella desolazione e altre 167 ore di attesa; di un nuovo, sempre uguale, interminabile tempo, vuoto di noi.