La "medicina miracolosa" che non fa sentire il dolore del carcere

 

Ma chi ha il coraggio di parlare finalmente di psicofarmaci?

 

Dalla compagna di un detenuto, marzo 2002

 

Per la prima volta nella rubrica dedicata alla salute pubblichiamo una lettera. Ce l’ha scritta la compagna di un detenuto che si trova in un carcere X, non occorre dire quale: in realtà, la situazione che descrive, di un uomo imbottito di psicofarmaci, la si ritrova un po’ dappertutto. Parlarne è però difficile: dispiace a molti detenuti, che temono di vedersi ridurre la dose di quei medicinali che li fanno stare un po’ meno peggio, spesso dispiace a chi si occupa della custodia e preferisce avere a che fare con persone più "tranquille". Ma bisogna anche avere il coraggio di affrontarla, questa questione degli psicofarmaci, e noi cominciamo qui, chiedendo di segnalare altre situazioni come quella descritta nella lettera che segue.

 

Cara Redazione,

vi scrivo per raccontarvi la storia, o meglio il calvario del mio convivente, tuttora chiuso in carcere. Ex tossicodipendente, 18 anni di droga, dopo il metadone, da più di 3 anni è mio compagno di vita affettiva.

Sembra retorica, ma da quando ci conosciamo lui è cambiato, non più droga, recupero tramite il mio amore e il Ser.T. locale, con difficoltà, ma non più di tanto, credetemi, era tornato a vivere, con me, era più uomo, più equilibrato nonostante tutto, eravamo insieme, lottavamo insieme, e lui era riuscito ad avere un affidamento in prova, tramite il Ser.T. Ci pareva di toccare il cielo con un dito, finalmente anche fuori dai suoi strascichi legali, ovvero reati minori, ma di vecchia data, che accatastati lo marcavano con la solita parola: Pregiudicato, anzi, pluripregiudicato (reati tipici di chi si droga, ma non gravissimi come potreste pensare).

Dopo un anno e mezzo di affidamento, dopo che tutto filava liscio, nel rispetto pieno delle regole, lo ferma la Questura, mentre lui stava parlando con una persona che a sua volta aveva pendenze penali. Morale: violazione della quarta prescrizione dell’affidamento in prova: non frequentare persone pregiudicate ecc., ecc. Ma lui non frequentava proprio nessuno, si era fermato appena per dire questo: Ciao, come stai? Lavori?

E la legge non ammette ignoranza, punisce, punisce anche chi come lui stava facendo un buon percorso di recupero, a detta dello stesso Ser.T. Dopo pochi giorni, rientro a casa e trovo un suo biglietto, dove mi dice: "Non preoccuparti, sono in Questura, ciao ti amo".

Inizia l’incubo, l’avvocato, gli assistenti sociali, periodo di ferie, non trovo quasi nessuno, trovo lui in carcere, dolore, ma speranza sicura dell’udienza, pensavo andasse bene, invece, colpa dell’avvocato, colpa del caldo, colpa dei mesi in più arrivati, il magistrato ha deciso di lasciarlo "dentro". Lui ha cominciato ad andare in depressione, ma, sostenuto da me, pareva cercasse di superare questo stato anche iscrivendosi ad un corso interno. Ulteriore problema, trasferimento in un altro carcere per esubero di detenuti.

Lo trovo molto addolorato, triste, piange spesso, gli manco come l’aria, anche se vado a trovarlo tutti i colloqui; no, anche questa non ci voleva, ha subito un secondo trauma, ogni volta cercavo di tirarlo su, ma vedevo che stava male; ho fatto istanza con un medico esterno che lo ha trovato parecchio depresso causa la carcerazione, chiede la detenzione domiciliare e invece me lo mandano in osservazione in un Ospedale psichiatrico giudiziario, sapete come sono a volte gli psichiatri dei penali, o li riempiono di sedativi o spediscono come pacchi postali i detenuti in un bel manicomio. 30 giorni di agonia, di paura, ed io telefonavo, parlavo, domandavo cosa stava succedendo. Morale, ritorna indietro, con la diagnosi: Sano di mente (o quasi), i disturbi sono causati da un tipo di vita detentiva, quindi giustificabili da ciò, ma nonostante questo compatibili con il sistema carcerario.

Mancava solo che avessero aggiunto: arrivederci e grazie, al prossimo detenuto!!! Così che il magistrato, molto fiducioso dei pareri degli psichiatri carcerari (penale e psichiatrico giudiziario), decide di tenerlo dentro.

 

Vado a trovarlo, lui viene avanti ai colloqui che sembra uno zombie

 

Io vado a trovarlo, è sedato continuamente, è sempre in cella, viene avanti ai colloqui che sembra uno zombie, perde l’appetito, a volte fatica a camminare, non fa attività, con quella terapia in corpo non è in grado, gli stanno bloccando la sfera emozionale, molto spesso cambiano terapia, fanno cocktail, un poco di questo, un poco di quello, lui è nervoso e bloccato dentro di sé, dice che non dorme, probabilmente vuole riaprire gli occhi al suo fine pena, vedo che non ce la fa, la sua testa è come senza pensieri, fatica a parlare, le sbarre gli sono entrate nella mente, esco dai colloqui con la rabbia e il nervoso che mi divora.

Vorrei portare il magistrato qui nel carcere e fargli vedere quanto lui, il mio uomo, è compatibile con il sistema carcerario, visto che il medico lo ritiene compatibile e rischia di renderlo un vegetale, pur di fargli scontare la pena in carcere.

Nuova udienza, rimane un’altra speranza che subito dopo viene uccisa dallo stesso psichiatra, per lui è compatibile, niente detenzione domiciliare per il momento, forse una comunità chiusa. Ma pensate che lui, avendo me fuori, ci andrebbe, passerebbe da una detenzione carceraria, dove ha almeno la possibilità di vedermi, a una comunità dove mi vedrebbe molto meno? E perché poi, visto che sono più di tre anni che non fa uso di sostanze stupefacenti, solo per uscire dal carcere? Io lascio decidere a lui, anzi cerco di convincerlo a entrare anche lì pur di non vederlo così, ma lui niente.

Contatto quasi tutti i giorni il Ser.T., per trovare una soluzione intermedia, ma tutti sembrano avere un unico obiettivo, illuderti nell’aiuto sperato e parlare, parlare, parlare, parlare e intanto il tempo scorre; credo che i programmi Ser.T., purtroppo, siano condizionati dagli esiti di rigetto degli stessi, di programmi ambulatoriali non se ne parla, sono quasi tutti respinti. Lui fuori da quasi più di tre anni non si drogava, aveva bisogno di lavoro, e ironia della sorte, lo chiamano a lavorare dopo che era già in carcere. Assurdo ma vero. Stando rinchiuso, psicologicamente peggiora e basta, si annienta la mente e il corpo, rischia di perdere quello che aveva completamente recuperato, ma gli psichiatri del carcere hanno deciso che è meglio rinchiuderlo ancora di più. E anche se fosse lui a chiedere la "medicina miracolosa" che non gli fa sentire il dolore del carcere, acconsentire a uno scempio del genere non è da irresponsabili? forse il medico non sa che una persona può essere talmente satura di medicine che il cuore non ce la fa più e si ferma per sempre, o forse pensa che senza le medicine il mio uomo tenti il suicidio. È probabile, un depresso lo fa, ve lo assicuro, ma proprio per questo dovrebbero dargli gli arresti domiciliari e non tirare in ballo la storia dell’affidamento, che è difficilissimo riaverlo, ecc., ecc. . Il mio uomo non ha ucciso nessuno, si è sempre comportato bene, non è umano quello che sta vivendo, gli manca poco meno di un anno al fine pena, ma, se continua così, gli succede che muore mentalmente e diventa irrecuperabile o fisicamente cede.

C’è la protezione degli animali, la protezione degli ammalati, ma al detenuto chi ci pensa? Se ci pensa lo psichiatra del carcere, chi controlla le medicine che usa, la quantità? Se il mio uomo fosse compatibile con il carcere, non sarebbe preso in questo modo, non sarebbe imbottito di psicofarmaci, se stesse bene non vi avrei scritto, lui starà bene e rinascerà quando tornerà a casa, se non sarà troppo tardi.

È un uomo in pena e non un uomo che sta scontando una pena, si lascia andare alla deriva, non lo riconosco più, cerco di svegliarlo dal suo torpore, ci sono tante volte che lui mi prende quasi sonno al colloquio, le mascelle inchiodate, mi arriva a piccoli passi al colloquio e con i pugni chiusi, irrigidito nel corpo e con occhi cerchiati di verde o quasi, e questo succede quando è al massimo della terapia, con il minimo (terapia serale) ha il dolore impietrito nel volto, sembra che abbia dieci anni in più. Non vi dico lo strazio, occhi sbarrati dalla paura di dovere rimanere ancora dentro, credetemi non so quale sia il male minore (o peggiore), si guarda intorno impaurito, sembra non avere altro che un grosso trauma nell’anima. Riesce ad amarmi e solo questo riesco a fargli dire dalla sua bocca, mi dice solo che mi ama e che vuole tornare a casa, per ritornare ad essere una persona, con dignità. E tutto questo dicono che è compatibile con il sistema carcerario. Questo uomo soffre troppo, di tutto, questo è il suo male, stare lontano da me, dalla sua famiglia, lo distrugge. Altre volte è stato in carcere, prima di conoscermi, e non si era mai ridotto così. Non vi aggiungo altro, sto male.