Che strano, non ricordo di aver  mai visto le tue scarpe

 

Anni di colloqui in carcere “a mezzo busto”

 

                                                                                            di Chicca, marzo 2004

 

I malintesi, la rabbia, la gelosia, le parole dette senza ragionarci su in carcere si dilatano con tempi infiniti: litighi oggi con il tuo compagno, e devi aspettare fino al prossimo colloquio, una settimana, o due, o di più, per cercare un punto di accordo, un confronto, delle parole di scusa o di chiarimento: tutto faticoso, nella già faticosissima gestione di un rapporto di coppia. La lettera che Chicca scrive all’uomo che per dieci anni ha seguito di carcere in carcere è la testimonianza di questa fatica, di questa continua e rabbiosa ricerca di qualche attimo di intimità, di questa aspirazione impossibile a piccoli pezzi di felicità.

Caro M., se penso a noi due le emozioni sono ancora tante e mi accompagna sempre il continuo ricordare le carceri girate pur di vederti anche attraverso un vetro. Penso di aver lasciato tante impronte digitali nell’appoggiare le mie mani su quel vetro per avere un contatto freddo, ma che scaldava i nostri cuori. Mi domando come tu possa aver dimenticato tutto ciò, solitamente è il detenuto che viene lasciato dalla propria compagna o moglie, invece tu mi hai lasciata senza una spiegazione, un perché. Sai, quando eri nel carcere di Trani, anche se è un supercarcere, mi sembrava tutto più umano, dalla tua finestra vedevi il mare, quel mare che per te è vita, il mare della tua Puglia che tanto ami. Dopo tanto freddo e grigiore delle carceri del nord, ti sei trovato là, e io non sentivo la fatica di dodici ore di viaggio, perché il treno mi portava da te e dai tuoi occhi azzurri. In tutti i colloqui di quegli anni, in giro per le carceri di tutta Italia, quando tra noi c’era il vetro potevamo vederci solo a mezzo busto, e ora se chiudo gli occhi non ricordo di aver mai visto le tue scarpe. Se non c’era il vetro c’era il muretto e ci sedevamo sulle panche di ferro inchiodate al pavimento, e quando uscivo mi chiedevo: “Ma com’era vestito? Che pantaloni aveva? Di che colore?”. Che strani particolari mi vengono in mente, vero? Penso che solo se ami intensamente noti e senti queste cose, perché sono le uniche intimità che puoi viverti. Ho bisogno di rivederti nella mia mente ogni giorno, ma poi ho in testa solo un viso e uno sguardo che a ogni “ciao alla prossima” mi accompagna con malinconia e sofferenza per quel nuovo distacco dopo un’unica ora di colloquio.

Eravamo così lontani in quei colloqui, che per sfiorare le tue labbra ho dovuto aspettare che ti trasferissero al nord e ho aspettato ancora anni prima di potermi sedere a un tavolino con te, e finalmente quando è successo, in un carcere un po’ più umano, ho potuto stringerti le mani, guardare le tue scarpe, salutarti con un abbraccio quando ti vedevo… ma non è servito, non c’è stato il tempo per capire, per spiegarci, e ci siamo allontanati… quel cancello si è chiuso alle nostre spalle. Sarebbe bastato un po’ più di tempo al colloquio per non gettare undici anni di vita, ma hanno vinto la rabbia e l’orgoglio per parole mai dette.

Il mio cuore è sempre lì vicino a te, ma in questi anni ci hanno portato via il tempo e quell’affetto intimo e privato che non è riuscito più a riscaldarci e a tenerci uniti. Vorrei del tempo, delle ore per essere vicina a te, ma non vorrei più essere guardata, spiata, vorrei stare sull’erba con te a rotolarmi, vorrei riempirti di baci farti il solletico per strapparti un sorriso, quel sorriso che non conosco, e quei baci tanto sognati e desiderati.

Ma è bastato un malinteso, un non capirsi e non potersi chiarire perché il colloquio era ormai finito… e io amore mio non potevo vederti se non dopo una settimana… non potevo tornare a casa e con calma telefonarti, parlarti, spiegarti o allungare una mano sul tuo viso per una carezza e per vedere il tuo sorriso. Nel viaggio di ritorno solo rabbia e un’immensa solitudine e l’orgoglio ferito e una continua domanda: perché? Perché non mi capisci mai? Perché non mi sento il tuo amore, perché è così difficile amarmi? La rabbia e l’orgoglio poi mi hanno tenuta lontana da te, aspettavo di giorno in giorno una tua lettera… e così chiusi nelle nostre ragioni, nei nostri silenzi, il tempo è passato, e mi sono chiesta: come hai potuto dimenticare dieci anni di colloqui?

Quante sofferenze passate… Sì, forse tu non lo sai ma io ho sofferto con te, perché so quanto ami il mare, quanto ami l’aria e il sole sul viso e il vento; ricordo quando eravamo ragazzi e ti vedevo sfrecciare con la moto, e il mio cuore batteva, ed ha sempre battuto anche dopo, ogni volta che riuscivo a rivederti in un carcere del nord o del sud. Sì, ne ho girati di carceri, anche solo per poterti vedere attraverso un vetro, e il mio cuore batteva come a quindici anni. Ma tu ti sei dimenticato di come in questi anni ho salito di corsa le scale del tribunale anche solo per accompagnarti mentre ti portavano via, perché pensavo che la mia presenza per pochi attimi potesse alleviare tutte le tue sofferenze. Mi sentivo vicina a te e per me erano importanti gli attimi che riuscivo a vederti, per me eri tutto. Hai dimenticato quando stavi male e io sono corsa e ti ho visto nel letto di un ospedale, ma non eri come tutti gli altri degenti, no tu eri in un reparto bunker in un letto di ferro in un buco, controllato a vista, e che fatica far finta di niente, e doverti lasciare ancora una volta lì da solo. Quante lacrime in quei viaggi di ritorno, e quanta gioia nel contare i giorni che mi avvicinavano di nuovo a te.

Ora non so più quello che tu dici o pensi, ma so quanto ancora è lunga la tua carcerazione, e se nelle tue lunghe giornate hai un pensiero per me non allontanarlo, non allontanarmi.