Per difendersi dalla cattiva informazione

Fantasie e luoghi comuni sul carcere e sulle pene. Quando stampa e tv parlano di detenzione senza spiegare, o senza capire, o a volte senza voler capire…

 

di Stefano Bentivogli, marzo 2006

 

Spesso scrivere e parlare sono strumenti che invece di aiutare a capire assumono un ruolo che è esattamente il contrario. Si arriva addirittura a creare degli stereotipi, delle generalizzazioni, che sono assolutamente strumentali a deformare la realtà, fino a renderla funzionale a logiche di parte. Per quanto riguarda poi l’ambito penitenziario, c’è il vantaggio, per chi fa certe operazioni di autentica disinformazione, di non avere nessuno che replichi o smentisca, sia perché chi si trova dietro le sbarre non ha facile accesso ai mezzi d’informazione, sia per una cultura che tende a togliere il diritto di parola a chi ha commesso un reato, ed anche perché i mezzi culturali che il detenuto medio possiede sono scarsi.

Tra i motivi della cattiva informazione sui temi del carcere e del disagio sociale ad esso connesso c’è anche un elemento che oscilla tra l’impreparazione degli addetti all’informazione, e la pigrizia di andare a capire un ambito molto particolare, nel quale leggi, regole e usi consolidati sono abbastanza difficili da comprendere anche per chi è dell’ambiente, i detenuti stessi. Tutto ciò giova spesso ai tanti che, sfruttando proprio questa immagine deformata dei detenuti e della detenzione, ne approfittano per farne un’arma utile a sostenere le continue spinte giustizialiste alle quali ormai ci si è abituati ad assistere. Basta guardare le ultime leggi approvate, oppure più semplicemente un qualsiasi articolo di cronaca nera o giudiziaria.

Proverò a mostrare solo alcune immagini classiche, quelle che comunemente rientrano tra i modi di dire e di pensare della gente, e che ovviamente ritroviamo sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici che usano ancora il populismo per attirare consensi, dimenticando il dovere all’informazione corretta, unica attività che rende i cittadini più liberi di giudicare criticamente e quindi di avere opinioni consapevoli, e non derivanti da un immaginario che magari con la realtà non ha niente a che vedere.

 

Ecco alcuni esempi:

 

In Italia le pene sono brevi

 

Questo è uno dei modi di dire tipici di chi con il sistema penitenziario non ha avuto niente a che fare. È vero che bisogna tenere presente quale è il sistema di riferimento che si prende perché, come sempre, qualcuno che sta peggio lo si trova, ed in ambito penitenziario non necessariamente c’è corrispondenza tra livello di democrazia ed entità delle pene. Quindi, se vogliamo prendere a riferimento gli Stati Uniti, dove oltre alla pena di morte c’è una legge che dopo tre reati prevede il carcere a vita, noi italiani siamo veramente messi bene e non dobbiamo lamentarci. L’unico commento può essere che la sicurezza negli U.S.A. è molto minore che da noi, e che quindi non vale l’equazione: durezza e lunghezza delle pene=maggiore sicurezza sociale.

Se guardiamo altri Paesi, più vicini culturalmente e geograficamente, troviamo che per quanto riguarda lo spaccio degli stupefacenti siamo tra quelli con pene più alte e con un sistema di aggravanti che le portano vicine ai massimi applicabili (trenta anni). Per l’omicidio volontario poi ci sono in Italia pene che vanno dai ventuno anni, all’ergastolo nel caso di particolari aggravanti. Esistono Paesi, dove la pena massima alla prima condanna (tranne casi eccezionali) è comunque  quindici anni, raggiunti i quali la pena viene riesaminata e viene deciso se il condannato può essere rimesso in libertà o meno.

Un’altra cosa che si dice spesso ed impropriamente è che in Italia, per ogni anno di carcere scontato, viene anticipato il “fine pena” di tre mesi, la cosiddetta liberazione anticipata. Ci si dimentica sempre di ricordare che questo beneficio è legato alla “buona condotta”, che non significa solo non commettere né reati né infrazioni al regolamento, significa anche “aderire positivamente alle offerte trattamentali” che l’istituzione penitenziaria propone. Ora non è semplice come potrebbe sembrare, in carceri sempre più sovraffollate, mantenere lo status della “buona condotta”, con persone sempre più sofferenti anche di disagio psichico, con un personale dove gli operatori, addetti alla custodia e non, sono sempre sott’organico, dove la convivenza di etnie e disagi diversi viene compressa in spazi e regole spesso difficilmente comprensibili. Basta una discussione, un’incomprensione, a volte una parola detta in più per perdere questo beneficio.

Le pene in Italia sono abbastanza lunghe, addirittura nel caso degli stranieri irregolari, dove gli innumerevoli processi in contumacia impediscono l’esercizio di un reale diritto alla difesa, le pene sono lunghissime, e per chi non ha i mezzi per difendersi è quasi sempre così. Ma poi, quanti sono quelli che sono in grado di stabilire qual è davvero la “lunghezza” di un anno, dove ogni giornata è fatta di venti ore chiusi in una cella di pochi metri quadrati?

 

I recidivi: professionisti del crimine e irriducibili del male

 

Con la recente legge ex-Cirielli si è tornati a parlare in maniera forte del fenomeno della recidiva. I recidivi per legge sono coloro i quali, essendo condannati in via definitiva una prima volta, commettono altri reati e subiscono altre condanne. Sempre per legge poi ci sono vari distinguo a seconda che le condanne successive alla prima siano per reati della stessa indole, avvengano nell’arco di cinque anni ecc..

Se questa è la neutra definizione che ne dà la legge, c’è invece poi l’interpretazione che ne danno i politici, soprattutto quelli che la ex-Cirielli l’hanno proposta. Recidivi: si tratterebbe di persone spregevoli, la cui abitudine a violare le leggi è data dall’odio per gli altri, un odio  che neanche la galera, strumento principe della rieducazione, è riuscito a volgere in amore e rispetto per le regole. Una  volta l’ho sentita mettere nei termini “ad una persona viene data una possibilità, poi una seconda, ma se sbaglia ancora, allora possibilità non se ne danno più”, così un politico commentava il senso della ex-Cirielli. Provate a pensare ad una persona che abbia problemi a livello di disturbi del comportamento, oppure ad un tossicodipendente: è possibile stabilire una quota di trasgressioni entro le quali si applicherà una pena normale, oltre la quale si passa invece ad un aggravio tale da consegnare gran parte della sua vita alla vita da gabbia?

La gran parte dei recidivi lo sono per reati di lieve entità, e se i loro reati sono frutto di problemi quali la tossicodipendenza ed il disagio sociale, come si fa a stabilire un limite oltre il quale queste persone sono da considerare irrecuperabili? L’immagine che se ne vuole dare è invece di tipo moralista, dove l’opzione illegale è una scelta, uno stile di vita che sottende una cultura ai limiti dell’eversione: e in occasione delle varie dichiarazioni che si sono sentite sulla ex-Cirielli si è tentato di dare proprio questo tipo di definizione del recidivo.

Ad ogni modo solo un ipocrita può far finta che la recidiva non sia un problema, e che non sia un problema serio il fatto che ci siano persone che commettono ancora reati, dopo averne scontate le pene per altri. Ma come tutti i problemi seri, è più complessa l’analisi che ne va fatta. Bisognerebbe chiedersi ad esempio come mai il carcere non sortisce il benché minimo cambiamento nel recidivo, e quindi quanto senso ha inasprire ulteriormente le pene attuali che, se applicate, consentono già un discreto aggravio dell’entità della condanna per i recidivi.

Ma chi sono questi benedetti recidivi? Se ne può fare una categoria rigida al punto da proporre leggi che appiattiscono, sempre in maniera rigida, le risposte della giustizia (come la ex-Cirielli vuole stabilire)? Chi in carcere c’è stato un’idea di chi siano i recidivi se l’è fatta, anche perché già oggi le carceri ne sono piene, tanto che sembra quasi che il carcere stesso nella produzione di recidiva un ruolo ce l’abbia. Statisticamente i reati dove c’è maggior recidiva sono quelli contro il patrimonio legati al consumo di stupefacenti e lo spaccio degli stessi e quelli a sfondo sessuale.

Per quanto riguarda questi ultimi è evidente che siamo di fronte a questioni di tipo patologico, sulle quali, invece di continuare a pensare ad inasprire le pene, sarà meglio iniziare a pensare a come curare, durante ed anche dopo la pena, questo tipo di persone. Persone che, quando prima o poi escono, commettono di nuovo gli stessi reati, quindi il problema è più serio di una legge che aumenta le pene. In realtà i detenuti per questo tipo di reati vengono chiusi in sezioni isolate dalle altre, dove spesso non viene svolta alcuna attività, né di tipo “rieducativo”, né di tipo terapeutico.

Per quanto riguarda invece i reati legati alle tossicodipendenze e la recidiva ad essi collegata, il problema è a monte. Finché per mantenersi la dipendenza le persone dovranno procurarsi sostanze che sono proibite, e che quindi hanno un costo proibitivo, continueremo ad avere tanti reati quanto sarà il bisogno di soddisfare le dipendenze esistenti. Sono questi i mostri, i principi del male, quelli da bastonare con anni ed anni di carcere, quelli che hanno un solo problema per la legge italiana, ossia non chiamarsi Calissano, Elkann, Maradona, Colombo e come i pochi altri (ma pare che non siano poi tanto pochi) che hanno redditi tali da consentirgli di pagarsela coi loro soldi, la roba?

Sono questi la gran parte dei recidivi che riempiono le galere italiane, magari il loro malessere e la depressione che li porta a farsi non è lo stress da successo o da troppi soldi, magari è invece una vita sempre più difficile e con pochi sogni, con una miseria e una precarietà materiale e culturale che fa cadere nella voglia di anestesia o nell’illusione di poter essere di più di quello che si è, non accettando il vivere frustrati da modelli oggi proposti come vincenti, che però sono, per la maggioranza, irraggiungibili. Ma quanti profitti creano questi modelli dell’uomo vincente, pieno di soldi, donne, macchine, vestiti, di tutto e di molto costoso!

Questi sono i recidivi, i cattivi, quelli che proprio non la vogliono capire che devono rispettare le leggi, quelli che qualcuno sta cercando di convincere la gente che vanno chiusi in una cella di cui va buttata via la chiave.

 

La polizia li prende ed il giorno dopo sono già fuori

 

Un altro luogo comune è che i criminali vengano presi e il giorno dopo siano fuori liberi. Ma più che un luogo comune è una mezza verità che confonde le idee. Quindi che nella gran parte dei casi dopo l’arresto si esca rapidamente è vero, anzi molti passano qualche ora in commissariato per la denuncia, poi vengono messi in libertà subito, a meno che:

non si corra il rischio che scappino

non abbiano la possibilità di inquinare le prove

non vi siano elementi tali da presupporre che il presunto colpevole possa commettere di nuovo il reato

Si torna liberi sì, ma in attesa di processo perché, per fortuna, si è considerati innocenti finché non sarà stata emessa sentenza definitiva. Poi è vero che, se anche non si torna liberi subito, ossia il magistrato convalida l’arresto, esistono tempi entro i quali o si viene processati e condannati, o si deve essere rimessi comunque in libertà. Questo periodo si chiama “custodia cautelare” e la sua lunghezza varia a seconda della gravità dell’imputazione. Ora, come al solito, quello che fa più scalpore è il tossicodipendente che, il giorno dopo essere stato preso mentre ruba una macchina, è fuori, e magari viene incontrato proprio dalla sua vittima. È comprensibile la rabbia delle vittime ma, ve lo posso garantire personalmente, prima o poi si viene processati, e non si scappa, le pene vengono cumulate e ci si trova ad un certo punto con svariati anni da scontare tutti insieme.

La giustizia è lenta, e situazioni come quella che vi ho descritto, se pure a prima vista non sembra, vanno a svantaggio anche del criminale, che alla fine si ritrova con cumuli di pene da brivido. Ma si scontano poi queste pene, ve lo posso assicurare, i condannati per piccoli reati scontano quasi sempre tutto, magari con qualche anno di ritardo e dopo che hanno cambiato vita, ma scontano tutto. La giustizia lenta fa comodo solo a chi riesce ad arrivare ai termini di “prescrizione”: significa che se il processo dura troppo, per l’imputato, colpevole o innocente che uno sia, la storia finisce lì. Ma queste persone non destano allarme sociale quando il giorno dopo essere finite sotto indagine sono ancora in televisione, oppure su uno scranno in parlamento. E i loro reati non sono mai meno gravi del furto, né meno pericolosi, solo che sotto indagine non ci sono dei poveracci, bensì dei potenti in grado di pagare fior di avvocati.

Andate a vedere che tipi di reati vengono prescritti: non certo quelli dei tossicodipendenti, normalmente presi in flagranza di reato e che, per non rischiare una pena esorbitante, “patteggiano” (cioè chiedono di essere condannati per ottenere uno sconto di pena). A loro il problema della lentezza della giustizia non li riguarda, al processo sono condannati in prima udienza e subito, o nel giro di qualche mese, sono in carcere. Quindi sembrerà strano, ma quelli che il giorno dopo sono in giro a caccia dei soldi per una dose, o vivono sotto falso nome, cercando di evitare gli effetti della Bossi-Fini, pagano, pagano tutto. Gli altri invece usufruiscono di una sorta di impunità automatica, che le nuove norme della legge ex Cirielli facilitano, riducendo ulteriormente i tempi necessari alla prescrizione.

 

Dopo così pochi anni esce dal carcere

 

Così titolano spesso i giornali, lasciando intendere che per certe persone, dopo pochi anni di carcere, lo scontare la pena sia finito e che il detenuto torna in libertà. In realtà si tratta in molti casi  dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, oppure ai permessi premio. Per capire come stanno le cose occorre leggere tutto l’articolo, ed a volte non basta lo stesso. È successo ad esempio quando Omar (coimputato di Erika nell’omicidio di Novi Ligure) sembrava volesse chiedere un permesso premio: già i titoli erano “Omar esce dal carcere”. Solo leggendo si capiva che invece si trattava di passare qualche ora presso una comunità. Ma la stessa cosa avviene quando qualcuno accede alla semilibertà o all’affidamento in prova; sui giornali si fa apparire la cosa come se si trattasse realmente di riottenere la libertà.

Il fatto di poter accedere ad una misura alternativa al carcere cambia radicalmente la vita del condannato, a seconda del tipo di misura concessa il legame col carcere diminuisce  ed aumentano gli spazi di libertà, di autonomia. Ma tutto prevede delle regole e limitazioni, un vero e proprio contratto sul  quale si valuta la buona riuscita o meno del percorso di reinserimento sociale. Non si tratta di riottenere la libertà, piuttosto di scontare la pena in maniera diversa, dove si va dal passare alcune ore a lavorare fuori dal carcere come per la semilibertà o l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, all’affidamento che, secondo i casi, può avvenire presso una comunità terapeutica, o a casa propria con un lavoro. Sulle misure alternative viene effettuato un controllo, sia da parte dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (e del Ser.T. nel caso di tossicodipendenti) che delle forze dell’ordine tramite l’Ufficio misure di prevenzione. Quando il comportamento dell’affidato o del semilibero non risulta idoneo alla prosecuzione della misura alternativa, questa viene revocata, e per tre anni non è più possibile riaccedervi.

Le misure alternative alla detenzione non sono un diritto e, per usufruirne, a parte l’articolo 21 che viene concesso tramite la direzione del carcere, occorre aver scontato gran parte della pena. Sono misure che riguardano in genere la parte finale e dovrebbero consentire un graduale rientro nel mondo libero. Non si tratta comunque di libertà: a parte l’affidamento in prova, nelle altre si continua a pernottare in carcere e, negli orari d’uscita, ci sono severe limitazioni a quello che si può fare o meno. Non è difficile subire una revoca della misura, dipende molto dalla discrezione del Magistrato di Sorveglianza, la stessa discrezione che comunque mantiene nella concessione della misura stessa. Un discorso simile vale per i permessi premio, per i quali, secondo il reato commesso e l’entità della pena ricevuta, cambiano i tempi entro i quali vi si può accedere. E non si è mai liberi di uscire e scorrazzare ovunque, a qualsiasi ora e a fare quello che si vuole. Anche qui vi sono delle prescrizioni da rispettare, possono essere al massimo 45 giorni l’anno ed allo stesso modo delle misure alternative, i permessi premio possono essere revocati.

Quando un detenuto arriva alla concessione di permessi premio o misure alternative, accade spesso che sui giornali si titoli, sempre senza spiegare di cosa si tratta, “X, famoso per aver commesso questo e quell’altro reato, torna a casa”. Magari ha ottenuto mezza giornata per andare a trovare l’anziana madre, ed invece sembra che sia uscito dal carcere libero, e non che abbia un percorso obbligato, degli orari da rispettare, il divieto di incontrarsi con pregiudicati, di usare stupefacenti, di abusare con l’alcol, che possa lasciare l’abitazione della madre solo per qualche ora, che debba passare in Questura per l’obbligo di firma, che non possa uscire dal Comune presso il quale si reca, e che infine debba tornarsene in cella.

Sebbene permessi premio e misure alternative siano ormai istituti datati in termini di legge, sembra sempre che quando sono concessi siano una novità. In realtà, essendo misure di assoluta discrezione del Magistrato di Sorveglianza, la possibilità di una loro concessione cambia radicalmente da un ufficio di sorveglianza ad un altro, tant’è che, potendo costituirsi all’avvio dell’esecuzione di una pena, ci sono persone che scelgono istituti di pena ove, per fama, si sa che l’accesso alle misure alternative è più semplice. Ma la questione delle misure alternative e dei permessi è spesso mal spiegata proprio perché è mal digerita ed accettata, soprattutto quando il reato ha lasciato ferite aperte e rancori non superati.

Difficilmente i parenti delle vittime, ma anche i mezzi di informazione in genere, accettano che il responsabile ad esempio di un fatto di sangue possa ad un certo punto della sua pena cominciare a riaffacciarsi gradualmente alla libertà. Questo è previsto dalla legge che però, in quanto tale, non può sanare il conflitto che si è creato al momento del delitto. La pena dovrebbe di per sé retribuire le vittime ed i parenti del danno subito, in realtà non è quasi mai così, neanche quando la pena è stata scontata integralmente. Di qui deriva che il recupero alla libertà di una persona, che sta scontando o ha scontato una pena,  non è quasi mai visto come l’atto conclusivo di un conflitto dovuto ad un grave torto subito. Il conflitto rimane quasi sempre aperto ed ogni occasione che porti a ricordare il delitto riapre le ferite. Negli ultimi anni si sta ipotizzando di affrontare problemi di questo tipo con la mediazione penale, un tentativo di incontro tra vittime e reo, dove il conflitto può essere almeno attenuato.

Resta comunque, al di là dei tentativi che si possono fare per spiegare meglio i luoghi comuni che sono troppo ricorrenti sui mezzi di informazione, la sensazione che dietro ci sia un problema di tipo culturale, ossia che provare ad affrontare in maniera laica la “questione pena e carcere” sia ancora un’impresa molto difficile. Soprattutto c’è ancora poco ascolto e poco confronto tra chi è dentro e chi è fuori dalle carceri e l’informazione, dentro il carcere, tra le persone che lo popolano, fa fatica ad entrare, vuoi perché questa istituzione è ancora troppo chiusa, vuoi perché in molti non si vuole credere che anche lì dentro, se la si vuol cercare, c’è un po’ di verità che aiuta a capire anche quello che succede fuori.