Tra la galera appena finita e la galera che verrà

 

Il tempo perso in carcere non si recupera e non c’è modo migliore di stare male che provare a farlo. E intanto si finisce per sentirsi un po’ senza età, mentre quelli della tua generazione fanno cose che tu non puoi fare perché non le hai costruite

 

di Stefano Bentivogli, novembre 2005

 

Pensandoci bene, ancora prima di iniziare a scrivere sul “dopo carcere”, mi viene da dire che probabilmente sto passando un periodo difficile, e che forse in un altro momento avrei scritto tutt’altro. È come se mi stessi chiedendo se è il caso o meno di raccontare che le cose non vanno così bene, e che, quando si parla delle difficoltà che si incontrano all’uscita dalla galera, si rischia a volte di dare un taglio lamentoso e sofferente che alla fine infastidisce anche me che scrivo.

Ma forse ha senso farlo lo stesso, perché quando ho accettato di scrivere del dopo carcere sapevo benissimo che sarebbe stata una delle cose più complicate che mi apprestavo a fare. Una prima cosa però occorre sottolinearla, perché per me, ma anche per molti altri, e chi è detenuto lo sa bene, parlare del dopo carcere sembra sempre troppo presto, e non perché io non sia realmente fuori dal carcere, ma perché in realtà sono in una situazione che è nello stesso tempo “dopo e prima” del carcere, una specie di limbo nel quale vivono per anni migliaia di ex-detenuti come me. Ecco, dedico lo sforzo che mi costa, e non è poco, a tutti i mostri del crimine come me: i recidivi!

Lo dedico a loro e lo indirizzo a tutti quelli che si riempiono la bocca di ex-Cirielli partendo soprattutto da alcuni politici della sinistra che, nei confronti di quelli come me, sono disposti a sostenere la legge della destra, proprio nella parte che pesta duro sui recidivi. La mia carriera di “delinquente” è quella classica di chi ha avuto problemi di tossicodipendenza, con una valanga di piccoli reati, giusto quelli sufficienti a pagarmi la dipendenza da una sostanza illecita: una droga illegale. Sì, perché non mi sono mai arricchito, anzi, se qualche soldo avevo messo da parte, l’ho dilapidato senza scrupolo, contribuendo indirettamente a finanziare la criminalità, quella vera.

Ogni volta che sono stato catturato sono stato denunciato, in genere rilasciato a piede libero, in attesa di processo, altre volte sono stato un po’ in custodia cautelare finché mi è stato presentato un primo conto di quattro anni e mezzo di carcere, cumulo di diverse condanne divenute irrevocabili e delle quali era partito l’ordine di carcerazione. Come entro in carcere mi arrivano altri rinvii a giudizio, mediamente tre ogni anno, e man mano che sconto il primo conto di quattro anni e mezzo, altri da scontare se ne aggiungono. Quando mi sembra che il conto sia completo, a sette mesi dal fine pena chiedo un affidamento in prova e l’ottengo. Dopo tre mesi di affidamento mi arriva un altro rinvio a giudizio per reati commessi nel ‘97 a Reggio Emilia, ora so che tra poche settimane avrò un processo. Io di questi reati del ‘97 mi ero proprio dimenticato, di quanti altri mi sono dimenticato? Non sto a spiegare nel dettaglio come funziona, ma potrei rientrare in carcere da un giorno all’altro, non so più qual è il mio fine pena ed il mio dopo carcere inizia così.

Potrebbe addirittura succedere che fra qualche anno salta fuori qualcos’altro per il quale devo essere processato, sì perché di tutte le denunce che ho preso non ce n’è una che sia andata in prescrizione: magari dopo vari anni, ma è sempre arrivato tutto in tempo per essere scontato. Quando sento i dati su quanti processi vanno in prescrizione ogni anno e i commenti dell’italiano medio – almeno quelli che ci vende l’informazione ufficiale – provo una grande rabbia. A me i conti da pagare arrivano tutti e lo stesso vale per tutti i miei compagni che si trovano a fare avanti ed indietro dal carcere, anche se ormai avevano smesso qualsiasi attività illegale.

Eppure ci sono quelli che riescono a mandare sempre o quasi tutto in prescrizione e comunque in galera non li incontri mai. Verrebbe da pensare, quando si decide di chiudere tutti i conti con la giustizia e iniziare una vita diversa, che non si può più, che è troppo tardi: nonostante infatti abbia patteggiato il 99 per cento delle mie condanne, sto ancora aspettando chiusure di indagini e rinvii a giudizio. Questo è quello che capita a me per i tempi della giustizia, mentre per alcuni gli stessi tempi lunghi della giustizia significano l’impunità.

 

I veri professionisti del crimine sono quelli che anche quando li prendono riescono a non pagare mai

 

Per i recidivi come me, e sono tantissimi, iniziare a parlare del dopo carcere è davvero un azzardo. Ma è di questo che voglio parlare, perché sono comunque fuori dal carcere, anche se in alcuni momenti di depressione invece che nel dopo carcere mi sembra di essere in pre-carcere: è questa infatti la condizione di tanti recidivi, sui quali la ex-Cirielli si vuole abbattere, per aumentargli ancora le pene, per togliergli i benefici e per rendere impossibile la prescrizione dei reati. Altro che professionisti del crimine, i veri professionisti sono quelli che anche quando li prendono riescono a non pagare mai, i loro processi durano un’eternità, ed è tutto calcolato per ottenere la prescrizione.

La precarietà quindi è la grande regina di qualsiasi attività: precarietà che può riguardare il lavoro, una casa, una relazione affettiva. Tutto da un momento all’altro può saltare e le sbarre torneranno a frapporsi tra me, il mio presente ed i miei progetti.

Ma per vivere occorre far finta di niente, sperare, o semplicemente non pensarci, tanto non c’è molto da fare, l’obbligatorietà dell’azione penale in Italia è un rullo compressore che schiaccia lentamente soprattutto le vite di chi ha commesso tanti piccoli reati, non importa come e perché. Ricordo ora con tenerezza i miei primi arresti, il fatto di essere rilasciato a piede libero mi dava quasi la sensazione che mi venisse concesso del tempo per mettere a posto le cose e che magari alla fine su qualcosa sarebbero passati sopra: ma tutto, è tutto segnato ed in un lento ed inesorabile ingranaggio prima o poi arriverà l’ennesimo conticino da pagare.

E allora che senso ha stare fuori sapendo che qualche rientro in carcere è ancora possibile doverlo fare? Beh, una certezza però ce l’ho, che i miei problemi con gli stupefacenti in carcere, nella mi-gliore delle ipotesi, si congelano, pronti a scongelarsi non appena fuori ci si ritroverà a gestire le stesse situazioni che ho lasciato. E sono questioni che non si risolvono nelle statistiche viziate di San Patrignano, né esistono farmaci miracolosi. Si superano crescendo ed affrontando i problemi. Imparando innanzitutto ad usare bene tutte le risorse che ci sono, soprattutto i servizi pubblici, e i rapporti personali rimasti in piedi. In carcere tutto questo non si può fare, e non esiste custodia attenuata che tenga, niente riesce a rendere utile una dimensione, quella detentiva, che non aiuta a crescere nessuno, neanche i detenuti non tossici.

 

Usciti dal carcere si arriva presto a trovarsi soli… ed insoddisfatti

 

Comunque il trovarsi fuori è stato inizialmente fantastico, anni di astinenza da tante cose impagabili mi davano un senso di euforia incredibile, e poi continuare a collaborare con Ristretti Orizzonti era comunque una grande opportunità. Ma il resto? E mi riferisco a tutti quegli aspetti che hanno a che fare con il passaggio da una vita senza libertà personale ad una dove, pur con qualche restrizione, tante di queste libertà te le ritrovi tra le mani e devi decidere cosa farne.

È strano, ma dopo un primo impatto entusiastico si cominciano a fare i conti con la realtà. Dentro poteva sembrare che il solo essere fuori dal carcere fosse una soluzione alle difficoltà che comunque si percepivano. E invece piano piano si scopre che fuori la gente si dibatte quotidianamente in un mare di problemi, che l’insoddisfazione che arriva all’infelicità è la malattia di questo secolo, e soprattutto la solitudine uccide. Usciti dal carcere si arriva presto a trovarsi soli ed insoddisfatti, soprattutto quando si è sulla quarantina e quando ci si è creati un po’ l’illusione di essere pronti a riprendersi parte del tempo perduto tra eroina, programmi terapeutici falliti e carcere. Il tempo perso non si recupera e non c’è modo migliore di stare male che provare a farlo. Subito ci si accorge che qualcosa non funziona. Ci si sente un po’ senza età, quelli della tua generazione fanno cose che tu non puoi fare perché non le hai costruite, mettersi a giocare a fare i giovincelli che vivono di esperienze rischia di diventare patetico.

A me è capitato di trovarmi ad esempio fuoriposto ovunque fossi, ed ovviamente era una sensazione tutta mia, nessuno veniva a ricordarmelo. Il pensiero era: cosa racconto di me? Ed il problema non era tanto quello di raccontare che ero stato in carcere, ho sempre sostenuto che giocare a nascondino non paga, il problema è che i momenti e i luoghi di scambio vero sono talmente pochi, da far paura.

Per ora sto tirando avanti con una borsa lavoro del Comune, il minimo per sopravvivere, ma il problema viene dopo, a guardarsi attorno c’è solo da spaventarsi. Non si tratta di dire che lavoro non ce n’è, io credo che almeno qui nel Nord-Est qualcosa si trovi ancora, il problema è quale. Se si vuole rimanere nei lavori regolati a contratto lo spazio va dal lavoro interinale, che ti garantisce qualche mese e… poi vedremo, ai co.co.pro. che hanno lo stesso livello di precarietà dei primi. Se parti da zero sei fregato, perfino le cooperative sociali, in molti casi, limitano la loro disponibilità all’assunzione tanto quanto durano gli sgravi previsti dalle leggi sui lavoratori svantaggiati, cioè finché sei detenuto e sei mesi ancora dopo il fine pena. E poi?

Per il problema casa siamo peggio che per il lavoro, i prezzi degli affitti corrispondono ai salari percepiti o quasi, e poi trovarla, una casa! Al massimo, se si è fortunati ci si organizza in convivenze, difficilmente scegliendosele, come in galera.

Ma in realtà la questione seria a mio avviso è un’altra. C’è un abisso, nel quale secondo me si rischia di precipitare, che consiste in quello che i modelli di riferimento ti propongono e quello che umanamente e soprattutto legalmente uno riesce a realizzare. Abbiamo passato anni in branda a vedere in televisione un mondo che vive di cretinate, che identifica la realizzazione di sé negli standard di spesa che riesce a mantenere, un mondo cinico negli affari e nel lavoro, e smielatamene falso nelle relazioni, come nelle telenovelas. Fuori, a parte pochi privilegiati, si viaggia da sotto la soglia della povertà all’indigenza totale. Perché allora chi ha vissuto nell’illegalità dovrebbe cambiare stile di vita quando l’alternativa è la fame? O comunque perché spaccarsi la schiena sul lavoro quando chi ha successo sembra sia gente che sta tutto il giorno a grattarsi ed a pensare solo a come spendere i soldi?

Insomma, che fosse dura lo si sapeva, ma in questi termini quanti hanno una reale possibilità di farcela? E che fare poi se sei nel limbo di eventuali altre condanne, e questa fase di vita libera potrebbe essere un breve intervallo tra una detenzione e l’altra? E tutto ciò solo perché la giustizia ha tempi biblici, che rendono qualsiasi progetto una fantasia… Ma il dramma è nel non riuscire ad immaginare un mondo diverso e possibile, perché la prima cosa che ti salta agli occhi, appena ti trovi fuori, è che non interessa niente quasi a nessuno di quei pochissimi che, in un mare di reati impuniti e di gente che, nonostante le condanne, in carcere non ci finirà mai, il loro conto con la giustizia lo pagano fino in fondo.

Con il dilagare delle dipendenze e i tentativi dello stato di combatterle dando addosso ai consumatori, si è creata una nuova categoria di persone, e sono proprio quelli che tra il cercare di curarsi e l’affrontare la propria situazione giuridica passano parte della loro vita con il prima e dopo carcere che si sovrappongono e, al di là della lunghezza delle pene, si trovano nella condizione di non poter progettare niente, perché neanche dagli archivi del Ministero degli Interni è spesso possibile sapere quanti processi si dovranno ancora affrontare.