Cinquanta di questi numeri!

 

Dal limitato interesse a passare qualche ora fuori dalla cella, si arriva poi a confrontarsi con la realtà del carcere in maniera nuova ed attiva: questo è un po’ il senso dell’esperienza della redazione di Ristretti Orizzonti

 

di Stefano Bentivogli, luglio 2005

 

Non avrei mai immaginato di trovarmi ad organizzare la mia giornata di detenzione, la mia settimana, i miei permessi premio tenendo presenti i miei impegni con la redazione di Ristretti Orizzonti. Mi sono avvicinato a questa attività perché collaboravo col Tg 2 Palazzi con il ruolo di cameraman, ma la redazione di Ristretti mi attraeva moltissimo, lì c’era veramente la possibilità di informarsi, approfondire, discutere e poi scrivere, che con Ristretti significa stabilire un rapporto di scambio continuo con l’esterno, perché veramente si riesce ad avere contatti con persone con le quali fuori non mi sarei mai immaginato di potermi confrontare.

Non sono uno dei fondatori, e mi sono trovato ad utilizzare anni di lavoro fatto dai miei compagni e dai volontari, un lavoro non semplice e davvero delicato, il tentativo di trasformare i detenuti in un soggetto nuovo, uomini e donne che pensano, parlano, si confrontano: persone in cammino. Ed oggi, con il suo cinquantesimo numero, la rivista ricorda la storia di una realtà che probabilmente, quando è iniziata, nessuno avrebbe mai immaginato potesse arrivare a tanto. Non è difatti la storia del solito giornalino frutto dell’impegno di qualche volontario, sostenuto dal direttore dell’istituto, dove i detenuti pubblicano i loro scritti tanto per fare esercizio artistico, oppure di una valvola di sfiato per tutte quelle persone che non hanno altri spazi ove lasciare i loro messaggi di rabbia, dolore e speranza.

La redazione di Ristretti, pur nelle sue diverse fasi di crescita, è una vera e propria iniziativa culturale, perché sin dai suoi primi numeri ha sempre tenuto come prioritario l’obiettivo di aprire un canale di comunicazione con il mondo fuori, sapendo che di questi esperimenti ne sono stati fatti tanti, e che purtroppo parecchi sono falliti o sopravvivono per inerzia.

Ristretti ha ancora una grande spinta propositiva, forse perché lo sforzo di non essere autoreferenziale continua a mantenerlo, ed oggi con la vivace gestione di progetti sul territorio, soprattutto con le scuole medie superiori ed inferiori di Padova, ha posto le condizioni per cui il carcere è diventato un luogo dove poter andare a “mettere il naso”, a conoscere e capire meglio, creando così nuove sensibilità ed interesse decisamente in controtendenza rispetto alle spinte della cultura dominante.

Per chi non sa nulla di carcere è difficile capire quale elemento di novità la rivista ed il sito rappresentino al livello ai quali sono oggi arrivati. Un esempio è che nel mese di maggio di quest’anno la Casa di reclusione di Padova ha ospitato 600 persone arrivate per un convegno sulla salute mentale, ma il senso di apertura verso l’esterno si coglie ancora di più nei continui incontri che la redazione organizza: scrittori, giornalisti, registi, magistrati, avvocati, studenti, ma anche semplici cittadini che sono entrati in contatto con noi e sono riusciti a venire a trovarci al di qua del muro.

Ma qual è il significato più profondo delle attività di Ristretti? Ognuno di noi che vi partecipa gli dà il suo, proprio perché, fatto salvo il compito principale di informare dal carcere e sul carcere, c’è veramente per ognuno la possibilità di metterci del proprio, e molto spesso dal limitato interesse ad utilizzare un computer e passare qualche ora fuori dalla cella, si arriva poi a confrontarsi con la realtà del carcere in maniera nuova ed attiva.

Per me il rimettermi a scrivere è stato molto importante, ma non lo scrivere in sé e per sé, perché ogni tanto recupero i miei primi scritti durante la detenzione e quando leggo quei fogli mi spavento. È stato invece lo scrivere aiutato dal leggere (studiare in alcuni casi), e poi discutere e confrontarmi tentando di dare un po’ di ordine a quello che avevo in testa, non fosse altro per rendere comprensibile agli altri quello che volevo dire. E poi questo confronto non limitarlo al recinto che la galera ci impone, ma portarlo fuori e con le persone di fuori rivederlo.

Lo scrivere per me è stato il miglior modo di dare un minimo di spessore alle riflessioni che il carcere tutti i giorni mi proponeva, ma che in genere tentavo di lasciar scorrere via, per sentire meno la sofferenza e l’inutilità del posto, delle regole, delle limitazioni nelle quali si è costretti a vivere. Ci vuole veramente un grande sforzo per non cadere nella tentazione di buttare via tutto e tutti, per non inaridirsi e passare il tempo ad accumulare solo rabbia, rinunciando a dare a momenti, che sono comunque la nostra vita, un minimo di significato almeno per noi stessi.

 

La redazione è stata una delle poche occasioni dove mi sono sentito coinvolto come persona che aveva ancora qualcosa da dire e da dare

 

La redazione in questo per me è stata uno strumento formidabile, perché dopo un po’ di tempo che uno fa la vita di galera i discorsi e le riflessioni che si fanno sono sempre gli stessi, tanto che restano spesso uguali di fronte ad un carcere che invece cambia ad un velocità impressionante, e noi detenuti che senza un minimo di confronto serio rischiamo di diventare dei fossili che si parlano addosso di cose di scarso interesse.

Io trovo che tante ore passate attorno ad un tavolo, insieme a volontari lì presenti con la voglia di confrontarsi, e non di convertire le mele marce della società ai sani principi del vivere civile, e neanche con l’atteggiamento di consolare e compatire dei poveri sventurati vittime di intangibili “problemi sociali”, abbiano prodotto molto più scambio e cambiamento reciproco che i colloqui con gli educatori, ormai sempre più rari e finalizzati alle “scadenze trattamentali”.

Non voglio dire che attività come quella del giornale possano essere un valido antidoto contro la recidiva, magari fosse così semplice, sono certo però che per me è stata una delle poche occasioni dove mi sono sentito coinvolto come persona che aveva ancora qualcosa da dire e da dare, e questo riconoscimento mi stimolava a fare qualcosa di più, a mettere me stesso al lavoro cercando di confrontarmi con le esperienze degli altri.

Io trovo che il successo che Ristretti ha avuto finora sia molto legato al voler superare la vecchia immagine del giornalino scritto dai poveri detenuti sofferenti, perché, quando la redazione si riunisce, non ci si concede questo spazio ipocrita e si preferisce piuttosto scontrarsi, anche animatamente, mettersi in gioco, anche se spesso è difficile e pericoloso.

Ci siamo resi conto così che la realtà del carcere italiano stava cambiando radicalmente e che la redazione poteva essere un momento per capire meglio cosa stava succedendo. Per me sono stati momenti di crescita personale notevoli, perché difficilmente fuori, e me ne sono reso conto in questo primo periodo di affidamento in prova durante il quale continuo a collaborare con la rivista, esistono possibilità di conoscenza e confronto così coinvolgenti come quelle avute in redazione. E poi io ho ritrovato energia nell’entrare a far parte di questa bolgia di penitenti più o meno convinti, protagonisti dell’incredibile e dell’inverosimile, oppure protagonisti dell’emarginazione e dell’invisibilità sociale e poi improvvisamente della pubblica pericolosità.

Qui io ho dovuto provare a cercare me stesso, scontrandomi con i miei limiti, quelli degli altri e una legge da rispettare con la quale dobbiamo confrontarci comunque, anche se fuori tutta questa ansia di legalità non la si respira nella vita quotidiana, anzi sembra sempre una cosa che riguardi gli altri e mai i tanti comportamenti illegali che invece si danno sempre più per scontati.

Ristretti Orizzonti oggi rappresenta proprio il tentativo, attraverso il racconto e la testimonianza, di superamento dell’immagine del carcere tradizionale e del detenuto che ormai non esistono più. Non è più la prigione dove le guardie conducono ladri simpatici e maldestri, è la terra di nessuno blindata per i migranti, la comunità terapeutica per i tossici irriducibili, il contenitore per le tante diversità che non hanno più diritto di cittadinanza.

Ma Ristretti Orizzonti è anche il ricordare alla gente libera i diritti dei reclusi, proprio di quelli che devono scontare una pena e perdono per legge la libertà, tutti quelli che sembrerebbe quasi legittimo dimenticare in nome della colpa. Continuando ad avere sempre attenzione anche a loro forse si può mantenere la rotta in direzione di una società basata sulle garanzie e sui diritti, piuttosto di quell’altro modello di società che sembra ormai sempre più proiettata ai divieti ed alle limitazioni, perché proposte di libertà non riesce più a farne.