La sofferenza del carcere ha ben poco a che vedere con la sofferenza arrecata

 

L’immagine dell’uomo rinchiuso in una gabbietta e che vive di privazioni non può coincidere con quella dell’uomo che riflette e capisce i suoi errori

 

di Stefano Bentivogli, giugno 2005

 

Nella redazione di Ristretti Orizzonti di solito non siamo abituati a scantonare le questioni, anche le più spinose, anzi soprattutto questo forse ci distingue, perché non rifiutiamo mai di affrontarle e di metterci in gioco. Quindi provo a dare una risposta, che come sempre non chiude il problema, sul tema delle vittime del reato, rivolgendomi direttamente agli studenti, che l’hanno sollevato all’Università, durante una lezione del corso di sociologia in cui noi di Ristretti, invitati dal professor Pisapia, eravamo i relatori.

Le vittime di reato ed il rapporto con queste è un argomento che da tempo invade le nostre discussioni di redazione, siamo sempre attenti a come ci presentiamo nei loro confronti perché sappiamo chiaramente, che il nostro stare in carcere non è casuale, ma quasi sempre legato a precise responsabilità nei confronti di singoli, gruppi, o l’intera società della quale abbiamo violato le leggi. Vorrei aggiungere però che dei reati denunciati ogni anno solo una piccolissima parte corrisponde poi ad un colpevole che sconta una pena: i numeri dicono che la criminalità è fuori dalle prigioni italiane, ma purtroppo c’è ancora l’illusione che l’essere molto duri nei confronti dei pochi che finiscono dentro sia legittimo, giusto e soprattutto utile.

Questo non attenua minimamente le nostre responsabilità, però pone una questione di fondo: la tutela delle vittime dei reati comincia fuori o dentro le carceri? Io personalmente credo che accanirsi su chi è sotto processo o in esecuzione della pena risolva solo il bisogno di una soddisfazione momentanea, ed i casi più gravi, dove alla vittima è stata tolta la vita sono i più emblematici. Perché nemmeno togliendo la vita al responsabile del delitto si può retribuire un parente per la perdita della persona cara, tuttavia stabilire una misura retributiva, che spesso non è facilmente commensurabile al reato, resta una delle funzioni del nostro sistema penale.

 

L’omicidio di un barbone, senza famiglia né affetti costerebbe molto meno degli altri, perché nessuno reclamerebbe una retribuzione

 

Tornando alla tutela delle vittime di reato c’è chi spinge con forza affinché, sia in fase processuale, che di esecuzione della pena, venga data accoglienza alle istanze di chi è stato danneggiato, con il rischio di consegnare il colpevole alla sua misericordia o alla sua vendetta. Il risultato sarebbe automaticamente drammatico: l’omicidio di un barbone, senza famiglia né affetti costerebbe molto meno degli altri, perché nessuno reclamerebbe una retribuzione, oppure potremmo avere pene molto diverse a fronte di parenti della vittima più o meno vendicativi. L’aver delegato l’istituzione a fare giustizia ha un senso, che è anche quello di non consentire faide eseguite per legge.

Questo solo per dire che non è un argomento semplice e che non si può affrontare in termini contabili, anche per quanto riguarda noi condannati. Perché è vero che si può arrivare a scontare tutta la pena ed illudersi di aver pagato il debito senza aver risarcito nulla nella reale direzione del danno arrecato. Anche da parte nostra la retribuzione è molto illusoria, il subire la sofferenza del carcere ha ben poco a che vedere con la sofferenza arrecata, la detenzione è un luogo distante dal contesto del danno procurato. Quindi anche qui esistono due estremi rappresentati da un lato dalla legge del taglione e dall’altro dalla perdita di contatto totale con il reato commesso.

Queste sono un po’ le questioni di cui vorrei discutere, sperando di non cadere nel vittimismo ma facendo conoscere il punto di vista di un detenuto, anche perché in altri ruoli mi sentirei ridicolo, e soprattutto spiegando meglio che la mediazione penale mi sembra uno dei pochi tentativi seri di affrontare il problema, forse proprio perché è l’impostazione meno contabile e mercificabile di quelle che conosco.

Il Professor Pisapia sosteneva che, a fronte di attività di riparazione del danno, previste dal nostro Ordinamento penitenziario per chi accede alla misura dell’affidamento in prova, noi condannati siamo molto leggeri, che spesso non c’è alcuna convinzione in quello che ci viene chiesto di fare. Ma forse qui la questione sta un po’ a monte, sta anche in un’impostazione della legge che avrebbe un senso a fronte di una modalità di esecuzione della pena che faciliti realmente un momento di riflessione sui propri comportamenti. Invece spesso quanto viene chiesto ai condannati diventa un prezzo da pagare a fronte di evidenti benefici, non più una dimostrazione concreta di consapevolezza dei danni arrecati.

 

È soprattutto una scelta di provare a riavvicinare, senza l’obiettivo obbligato di riconciliare, due storie, due persone e due sentimenti

 

La mediazione penale invece, che nel nostro Paese praticamente esiste soprattutto nell’ambito della giustizia minorile, si pone un obiettivo che non è da poco, anche se così non sembra. Tenta cioè, senza obbligarsi a riuscirvi per legge, di attenuare il conflitto che resta aperto tra la vittima ed il reo. Mi sembra che sia soprattutto una scelta di provare, senza obblighi per nessuno, a ricontestualizzare il più concretamente possibile il reato e le sue conseguenze, di riavvicinare, senza l’obiettivo obbligato di riconciliare, due storie, due persone e due sentimenti. Accetto però la critica del Professor Pisapia che citava il suo colloquio con il rapinatore il quale, dopo quindici anni di carcere, era convinto che nel suo reato non ci fossero vittime, perché anche se resto dell’idea che è una generalizzazione, per molti che si trovano in carcere questo è un pensiero corrente.

 

I ragionamenti deresponsabilizzanti non sono patrimonio esclusivo dell’uomo recluso

 

Soprattutto per le rapine in banca si sente dire talvolta che in realtà non si sono tolti i soldi dalle tasche di nessuno e che l’aver sequestrato dei liberi cittadini in uno stanzino non è una cosa così grave. Detto questo però, chiedo a tutti come sia possibile che dopo quindici anni di prigione una persona abbia ancora questo livello di superficialità. Cosa succede in realtà in molti casi, durante anni di detenzione? Forse è meglio chiedersi invece cosa non succede, come mai non ci sia stato il benché minimo cambiamento di atteggiamento verso i propri comportamenti. Ma come può l’immagine dell’uomo chiuso in una gabbietta e che vive di privazioni coincidere con quella dell’uomo che riflette e capisce i suoi errori?

Poi però non vorrei che passasse la sensazione che ragionamenti deresponsabilizzanti, quali quelli del rapinatore di banche, siano patrimonio esclusivo dell’uomo recluso. Ma scusate, l’immensa popolazione che evade il fisco non ragiona un po’ allo stesso modo? Non si arriva addirittura a forme di giustificazione proposte nientemeno che da nostri eminenti politici? E l’abusivismo edilizio? Certo la modalità è diversa, ma la mentalità sottintesa ed i risultati sono proprio gli stessi, eppure sulle dichiarazioni di Berlusconi non tutti si sono scandalizzati, mentre per il rapinatore la condanna è categorica ed unanime. Il carcere stigmatizza sempre più male di quello che contiene.

La domanda che mi era stata posta era più o meno “Ma se il carcere è così negativo, che risposta dare alla necessità di tutelare le vittime di reato?”. Molti studenti il 20 maggio sono entrati nella Casa di reclusione di Padova per partecipare a una Giornata di Studi sulla salute mentale e forse avranno intuito che non si tratta di trovare una risposta, ma tante e diverse, evitando generalizzazioni e luoghi comuni, e che bisogna conoscere bene quello di cui si parla. Il mio tentativo è stato solo quello di raccontare qualcosa che sia vita vissuta. La sera stessa del 20 maggio il mio compagno di cella, dopo tre giorni di sciopero della fame e della sete (attuato con rigorosa serietà), preso dalla disperazione si è bevuto il detersivo per i pavimenti. Mentre lui vomitava schiuma, steso per terra, ho premuto il campanello d’allarme che però era staccato.

 

I nostri reati e le nostre responsabilità restano lontani anni luce, come lontano sembra il mondo libero dal quale proveniamo

 

Ho cominciato a sbattere lo sportello del portone blindato della cella per far capire all’agente che c’era un’emergenza e mentre ero lì, impegnato nel farmi sentire, il mio compagno è riuscito a rialzarsi e a riattaccarsi alla bottiglia del detersivo. Nello stesso braccio dove c’è la mia cella, nella stessa serata, c’era uno che minacciava di impiccarsi ed un altro che si era tagliato le vene. Non mi dilungo nel racconto della serata perché non voglio sembrare “vittimista” e lascio alla vostra immaginazione a quale profondità arrivasse la mia riflessione e quella dei miei compagni. In quelle condizioni i nostri reati e le nostre responsabilità restano lontani anni luce, come lontano sembra il mondo libero dal quale proveniamo. Resto comunque ottimista, finché trovo qualcuno che abbia ancora voglia di conoscere e capire, fino a quando ci sarà ancora qualcuno disposto ad incontrarci e starci ad ascoltare.