In un milione di piccoli pezzi

 

Parliamo di tossicodipendenza a partire da un libro in cui l’autore descrive i suoi primi ventitré anni di vita, di cui ben dieci in preda all’alcool e alle droghe. A commentarlo, un detenuto che la droga, la voglia di uscirne e le ricadute, la comunità e il carcere li ha sperimentati direttamente

 

A cura di Stefano Bentivogli, febbraio 2005

 

Non so che effetto possa fare, ad una persona che non conosce la dipendenza da alcool e stupefacenti la lettura di un libro come “In un milione di piccoli pezzi” di James Frey. So però che anche per me, che pure l’argomento lo conosco fin troppo bene, leggerlo è stata un’esperienza faticosa e snervante. è scritto infatti in maniera convulsa e a volte caotica: frasi sparate una dietro l’altra, spesso senza un aggancio logico; dialoghi che irrompono come lampi nella narrazione indiretta, spiazzando continuamente il lettore; una punteggiatura quanto meno eccentrica, con uno sterminio di punti e quasi neanche una virgola… Di libri un po’ strampalati mi era già capitato di leggerne altri, ma in nessun caso la loro “digestione” si era rivelata così combattuta. Leggere “In un milione di piccoli pezzi” è stato infatti una continua battaglia, fors’anche perché mi sentivo troppo personalmente coinvolto in una storia che – pur diversissima dalla mia – ha con essa molti punti d’incontro.

L’autore parla in prima persona dei suoi ventitré anni di vita, di cui ben dieci in preda all’alcool e alle droghe, dilungandosi soprattutto sui due mesi passati in una clinica per disintossicarsi. Una clinica degli States molto diversa dalle strutture terapeutiche che ho conosciuto io, in Italia, sia  per ambiente che per tipologia di persone, ma che tuttavia ha con esse fatali punti in comune, se non altro perché le metodologie di disintossicazione adottate in Italia derivano perlopiù da quelle sperimentate molti anni prima in America, dove infatti sono nati gli “Alcolisti Anonimi” e “I dodici passi”, che per molti continuano a rappresentare ancora oggi i “testi sacri” contro la dipendenza.

 

Una crisi d’astinenza è come  respirare senza ossigeno

Il libro racconta, in sostanza, la sfibrante lotta ingaggiata da James alla dipendenza fisica e psicologica dalle droghe. In clinica ci arriva letteralmente a pezzi, e per chi ha provato un’esperienza del genere non è facile reggere l’urto della sua testimonianza:  pagine e pagine di freddo, di vomito, di tremore, di paura, di insonnia, di incubi… Dibattersi in una crisi d’astinenza è come affannarsi a respirare in assenza di ossigeno: si ha la sensazione angosciosa di essere sul punto di morire e di non poterci far nulla. Proprio per questo è molto difficile deciderla razionalmente, l’astinenza. è molto più facile precipitarci dentro, o perché si è costretti in maniera drammaticamente impulsiva a scegliere se morire davvero o morire “solo” di dolore, o perché è qualcun altro che ha deciso per noi. Le prime volte, soprattutto, l’astinenza e la crisi che essa innesca hanno la raggelante imprevedibilità di un incidente; ma con gli anni si finisce, almeno in parte, ad abituarsi all’idea di doverci convivere, come se dentro di sé si fosse riusciti a dare una misura anche a un dolore che le prime volte pareva inesauribile. Si tratta però – e l’ho verificato sulla mia pelle – di una forma di consapevolezza passiva, di una “abitudine al dolore” che sancisce un aggravamento della propria situazione.

A suo modo, James è un personaggio simpatico, testardamente avvincente: vuole trovare la sua strada, contesta tutto quello che gli viene proposto come terapia e, per quanto accetti il dialogo, è ostinato come un mulo e non cede praticamente su niente. Ma nella mia esperienza pratica, di tipi come lui in verità ne ho conosciuti ben pochi. Chi si trova nelle sue condizioni, in genere, è talmente pressato a fidarsi ciecamente di quello che gli viene presentato come sua unica possibilità di salvezza che, almeno in parte, si adegua alle logiche di comportamento che gli vengono imposte, non foss’altro per assicurarsi un brandello di tranquillità.

 

Le regole di tante comunità sono spesso più mortificanti che formative

Gran parte dei tradizionali programmi terapeutici contro la dipendenza – e non solo il carcere –  impongono regole apparentemente insensate e quindi difficilmente accettabili, sul piano razionale. Personalmente ne ho viste e sentite di tutti i colori, ma… guai a protestare che, soggiacendo a certe regole –  così insensate e così prescrittive – ti senti un emerito idiota che sta buttando via il proprio tempo e, peggio ancora, il proprio “senso di sé”.

In certi casi, è vero, si tratta di regole che relativamente ad alcune specifiche problematiche hanno anche una loro sensatezza, ma che tuttavia – estese a tutti, in maniera indiscriminata – acquistano il sapore amaro e talvolta provocatorio di un’imposizione fine a se stessa, e quindi più mortificante che formativa. Ho visto passare dei guai per aver mangiato una caramella al liquore pur non essendo alcolisti, divieti di ascolto di particolari brani musicali, punizioni assegnate perché il letto non era perfettamente tirato, tremila problemi ad avere rapporti umani con l’altro sesso che in alcune realtà è proprio assente.

Molto stile caserma per la disciplina, ma con ulteriori annessi e connessi di tipo morale o meglio moralistico. Il servizio militare serviva solo, si diceva, a farti diventare un uomo, a farti staccare dalla protezione della famiglia, in comunità invece sembra quasi che ti si debba cambiare completamente, la tua vita è tutta un disastro ed anche tu. In qualsiasi cosa tu faccia potrebbe esserci il germe della tua dipendenza. Non è semplice da accettare. Spesso ci si adegua sperando che il programma finisca presto e ci si abitua a fare delle cose a cui non si dà un minimo di senso. In comunità ci sono poi le punizioni, perché alla trasgressione delle regole corrispondono sanzioni di vario genere.

Fino a poco tempo fa c’erano a volte il taglio a zero dei capelli, il sequestro delle poche sigarette che venivano concesse ogni giorno, urla selvagge di rimprovero alle quali si doveva sottostare, giornate intere a spaccare le pietre con la mazza, a contare i sassolini del cortile, a pulire continuamente lo stesso vetro, a non poter rivolgere la parola a nessuno, a dover chiedere il permesso a qualcuno prima di fare qualsiasi cosa, fosse stato anche alzarsi da una sedia.

Non voglio generalizzare, anche perché negli ultimi anni – un po’ per la mutata tipologia dei tossicodipendenti, un po’ per gli scarsi successi che sono stati ottenuti applicando troppo “alla lettera” quei metodi – le comunità hanno cominciato a mettere in discussione il loro modo di operare ed oggi sono parecchie quelle che sperimentano metodologie e filosofie nuove rispetto a quelle propugnate da “Alcolisti Anonimi” e da “I dodici passi”. Fino a qualche anno fa, però, la maggior parte delle nostre comunità era ancora più rigida e dura della clinica americana descritta da James Frey: i programmi duravano anni, non due mesi soltanto, e soprattutto la vita in comunità era scandita da ritmi tanto implacabili che, praticamente, non c’era mai il tempo per starsene seduti a sorseggiare tremila caffè e a fumarsi in pace una sigaretta via l’altra... Tutto era rigidamente razionato, anche il cibo. E il tempo se ne andava tutto in duro lavoro fisico e riunioni in gruppo, con sbandamenti traumatici tra ergoterapia e psicoterapia relazionale, secondo gli inappellabili indirizzi ideologici della Direzione.

 

Anche il carcere alimenta i “mali” che dovrebbe combattere

Oltre alla clinica e ai suoi metodi, James descrive anche i suoi compagni di terapia, utenti ed operatori; ed è questa forse la parte più piacevole del libro, quella che concilia l’individualità dei  drammi personali con un sentire comune e con un’umanità diffusa che costituiscono, certamente, il patrimonio più importante di questo tipo di esperienze. E infatti, nei rari casi in cui scatta davvero la prepotente molla interiore che porta un “tossico” ad affrancarsi dalla sua dipendenza, ciò non avviene per merito delle “lezioni di vita” uguali per tutti e della disciplina schiacciatutti: avviene, semmai, perché quella persona è riuscita a recuperare la sintonia con se stessa e con gli altri che aveva perduto, rientrando in contatto con una sensibilità e un sentire comune che pareva aver smarrito per sempre. Leggendo questa parte del libro, in cui è evidente la contraddizione stridente fra dispotismo delle regole e solidarietà fra simili, mi è venuto da pensare che anche il modello-carcere è afflitto dallo stesso problema: e che spesso, proprio per l’ottusa implacabilità delle sue regole (spesso incomprensibili, non di rado del tutto insensate), finisce per alimentare gli stessi “mali” che dovrebbe combattere.

Il carcere entra in questo libro come uno spettro che aleggia su James e su gran parte dei suoi amici. Anche in America, come da noi, i primi reati non comportano necessariamente la reclusione in carcere; ma dopo, con il radicalizzarsi della situazione, le cose cambiano nettamente, per via della ben nota legge che in alcuni stati prevede – dopo il terzo reato - “l’ergastolo senza libertà sulla parola”, che è davvero un bel sistema per risolvere alla radice la piaga della recidiva, togliendo dalla circolazione le persone senza intervenire sui problemi che le hanno indotte a delinquere. E sono problemi drammaticamente seri, come dimostra il fatto che - per ammissione degli stessi operatori di queste cliniche a pagamento d’Oltreoceano – è considerato un buon risultato se il 15% degli utenti non incappa in ricadute nel primo anno dopo la fine del programma. In Italia i dati sono ancora più bassi e continuano a restare maledettamente incerti, anche a fronte di percorsi terapeutici veramente duri. Pochi, però, se la sentono di dire che le comunità non servono a niente.

A parte James, che esce dalla storia come il miracolo di se stesso, quasi tutti gli altri fanno una brutta fine. Lo stesso potrei dire io, per la mia esperienza: molti di quelli che ho incontrato non ci sono più, altri li ho ritrovati a dieci anni di distanza nella cella vicino la mia, altri sono rimasti a lavorare nelle comunità, e anche diversi di loro sono poi ricaduti. Le dimensioni del problema sono tali, e così forte è in me la consapevolezza dei miei fallimenti, che proprio non me la sento di dare lezioni a nessuno.

Di una cosa, però, sono convinto: che le ricette “uguali per tutti” non possono portare lontano, perché ogni persona è un “caso a sé”, e per indurla ad affrancarsi dalla dipendenza (sia di droga o di alcol) occorre puntare su quello che in effetti è e su quanto di bello e di buono comunque ha. E questo non vuol dire mettere in discussione la ragion d’essere delle comunità: che servono, eccome, e che costituiscono un passaggio spesso indispensabile per tutti, anche per chi fa più fatica degli altri. Ci vuole tanto, tanto tempo per ridare un valore alla propria esistenza quando si è ridotti “in un milione di piccoli pezzi”. E dentro a una gabbia affollata, purtroppo, è ancora più complicato.