Diario di un viaggio

 

Odissea di un trasferimento

 

di Sergio, aprile 2005

 

Non tutti i viaggi si fanno con i mezzi usati normalmente. Ricordo perfettamente che, tanti anni fa, fui costretto ad affrontare uno spostamento di cui personalmente avrei fatto a meno. Mi trovavo ristretto in un carcere del Nord Italia da diversi mesi, quando all’improvviso, in una fredda e piovosa mattina di fine inverno, fui chiamato dall’ufficio matricola per un motivo che ora non ricordo più, ma ha poca importanza, visto che lo scopo della chiamata, come potremo vedere, non aveva niente a che fare con problemi legali o altre faccende che potrebbero interessare questo ufficio. Appena entrato notai altri detenuti, come me “parcheggiati” in una piccola sala di “attesa”. Anch’io fui messo in quel posto. Mi devo fermare per cercare di spiegare il luogo in cui mi trovavo: muri sporchi, imbrattati da scritte che non starò ora ad elencare.

Tanti come me sanno di che cosa sto parlando. Dopo essermi guardato intorno, fissai la mia attenzione sulle persone che stavano aspettando e chiesi a uno di loro, che già conoscevo di vista, il motivo della sua attesa in quel posto, ma lui non mi seppe rispondere. Così passarono i minuti e anche la prima ora. Nel frattempo arrivarono ancora alcuni ragazzi; ormai eravamo una decina in quel buco, sempre più stretti, fumavamo tutti, un po’ per l’attesa, un po’ per la tensione che si era venuta a creare per il fatto che nessuno sapeva niente di concreto. La seconda ora era già avanzata quando la porta si aprì su una divisa con dentro un omone male rasato che cominciava a scandire nomi e cognomi, con una lentezza che non nascondeva la sua stanchezza. Eppure la giornata era appena cominciata.

Quando l’omone finì di elencare tutti i nomi, fu praticamente aggredito da alcuni di noi: chiedevamo il perché della nostra permanenza in quel posto. Come risposta ci fu detto che dovevamo essere trasferiti in altri carceri per motivi di sovraffollamento. Iniziarono delle proteste da parte nostra che furono immediatamente bloccate con la chiusura della porta, che si riaprì dopo cinque minuti, quando fummo invitati ad uscire uno ad uno. Nel corridoio ci aspettava la seconda sorpresa: un certo numero di carabinieri con delle catene in mano. Fu di nuovo fatto l’appello. Nel frattempo un lavorante detenuto portava delle sacche che chiamavano zaini, ove vennero infilate le poche cose che ognuno di noi poteva portare. Ci dissero che il resto delle nostre cose sarebbe arrivato successivamente; ci dichiararono anche quanti soldi ognuno di noi aveva e ci chiesero di firmare. Dopo questa formalità toccò ai carabinieri. Uno dopo l’altro fummo incatenati e alla nostra richiesta di sapere almeno dove saremmo andati, ci fu detto che dopo, sul treno, ce l’avrebbero detto. Eravamo tutti preoccupati: la parola treno significava un viaggio.

Terminate le ultime formalità ci consegnarono un sacchetto di carta dicendoci che conteneva il nostro pranzo. Personalmente non ho mai guardato cosa contenesse quel sacchetto. Uno dopo l’altro fummo avviati verso l’uscita, accompagnati dai carabinieri. Impediti dalle catene nei movimenti, i polsi stretti dagli schiavettoni, le spalle curve sotto il peso degli zaini, ci fecero salire su un furgone. Ammucchiati nel fondo per ragione di spazio (eravamo in dodici), la porta si chiuse…

Il viaggio stava per iniziare.

Per una ventina di minuti fummo sballottati e finalmente, dopo questa prima sofferenza, sentimmo il motore che si fermava. Dopo un po’ la porta si aprì e ci fecero scendere. Ci trovavamo in una stazione ferroviaria. Molto velocemente, quasi per la vergogna che qualcuno ci vedesse, ci fu detto di salire su un vagone del treno che stava aspettando sul binario in prossimità di dove ci eravamo fermati. Cominciavano i problemi: legati come eravamo, con quel carico sulla spalla, fu un impresa salire su quel vagone; più di una volta si rischiò la caduta per terra. Comunque con un po’ d’attenzione tutti riuscimmo a salire senza danni. Appena entrato nel vagone fui colpito da un senso di nausea. Non era un vagone normale ma un carro adibito al trasporto detenuti. Devo fermarmi un attimo per spiegare in quale posto fossi capitato: lo spazio era limitato, c’era un lungo corridoio stretto su un lato, sull’altro delle piccole celle ove fummo immediatamente rinchiusi. Senza luce, in uno spazio così ristretto, anche una persona temprata non si sarebbe sentita a suo agio; per questo, alcuni di noi, protestarono, senza esito comunque. La scorta, quando veniva chiamata, era abituata a questo genere di reclami e ormai non ci faceva più caso.

Si sentì un po’ di confusione, poi il treno si mise in movimento. Naturalmente non sapevamo ancora niente della nostra destinazione. C’era qualcuno che si agitava e che chiedeva di potere parlare con il capo scorta per motivi più che giustificati, ma ci fu risposto che per il momento non era disponibile. Eravamo partiti per una destinazione ancora ignota e penso che, per tutti noi, l’importante fosse sapere dove saremmo andati a finire. Per questo fu di nuovo richiesta la presenza del capo scorta, quasi con rabbia, e, questa volta quell’uomo si degnò di concederci un po’ del suo prezioso tempo. Arrivò con una carta in mano ove aveva scritto una lista di nomi. Con la domanda: “Cosa c’e?”, ci fece capire che era seccato di dover dare delle informazioni, ma era lì e nessuno l’avrebbe fatto andare via senza sapere la sua destinazione. Il mio compagno di catene fu il primo a chiedere dove fosse destinato, disse il suo cognome e il carabiniere, con uno sguardo sul foglio e uno sul mio compagno, rispose che era stato trasferito a Volterra.

Non persi tempo neanche io. Speravo in quel momento che, nella disgrazia, sarei capitato meglio di lui. La risposta fu per me come una mazzata: dovevo andare a Caltanissetta, in Sicilia. In quell’istante sentii il mondo che mi crollava addosso, non ascoltavo più, ero completamente con i miei pensieri, con la mia confusione, la mia incertezza su come mi sarei trovato in quel posto. Ma non sapevo ancora cosa avrei dovuto passare prima di arrivare lì. Quanti pensieri mi passavano per la testa! Non riuscivo ad accettare ancora il fatto che comunque non ci fosse niente da fare per rimediare a quella situazione, cercavo una scappatoia che non esisteva, non volevo rassegnarmi così. Uscii da questo stato dopo un po’ di tempo, non so esattamente quanto tempo fosse passato e quanti chilometri avessimo percorso, anche perché, come già ho accennato, eravamo chiusi in una cella, senza alcuna apertura verso l’esterno. E il treno continuava la sua corsa verso l’ignoto…

Si parlava fra di noi, anche se pochi erano invogliati al dialogo. Cercavamo di tirarci su il morale a vicenda ma in quel momento credo che le parole fossero inutili. Sentivamo solamente il rumore delle ruote sui binari di un treno che corre. Anche se non c’erano comodità, tentai di riposare, più per stanchezza mentale che fisica. Non ricordo quanto tempo rimasi con gli occhi chiusi, ma li aprii subito quando ebbi l’impressione che ci stessimo fermando. Infatti, pian piano, il treno rallentò, poi si fermò. Si sentì un altoparlante in lontananza che annunciava ai signori passeggeri che erano arrivati alla stazione di Firenze. Di nuovo confusione, rumori di catene, porte che si aprivano, nomi che venivano elencati e, finalmente, anche la porta della nostra cella si aprì.

C’era il solito carabiniere che velocemente ci incatenò, poi ci fece cenno di uscire dalla cella. Ci invitò a prendere i nostri zaini; fu un’impresa impediti come eravamo, ma con pazienza ci riuscimmo; fummo avviati verso l’uscita, altra impresa scendere da quel vagone senza rompersi le ossa, ma la fortuna ci aiutò. Immediatamente fummo fatti salire su un furgone che aspettava in prossimità del binario e, completata quest’operazione, il nostro mezzo si avviò. Dopo una ventina di minuti il furgone, dopo averci sbattuti a destra e a sinistra, arrivò a destinazione. La porta si aprì, fummo fatti scendere. Ci trovavamo in un cortile interno, fra un muro di cinta e un portone immenso. Eravamo arrivati alle Murate, il vecchio carcere di Firenze. I carabinieri ci consegnarono alle guardie che ci dissero di entrare. Valicato il portone, fummo rinchiusi in una cella, ma quasi subito la porta si riaprì e, uno alla volta, ci fecero uscire. C’erano una moltitudine di guardie nel corridoio, una di loro mi disse di seguirlo. Mi portò in una stanza per la solita perquisizione.

Mi consigliò di prendere esclusivamente le cose necessarie visto, che l’indomani mattina sarei ripartito di buon ora. Non vedevo l’ora di stendermi su una branda perché lo stress mi aveva fatto venire un terribile male di testa. Finalmente fui accompagnato in una sezione che, a sentito dire, era il transito: ci venivano messi i detenuti di passaggio. Un’altra porta si aprì, entrai in quella cella… L’odore di chiuso mi fece venire la nausea. Tutto era sporco, ma ero troppo stanco per fare lo schizzinoso, perciò mi buttai sulla branda senza chiedere altro che di addormentarmi al più presto. Così fu.

Sentii la porta che si apriva di nuovo, una guardia mi disse di prepararmi: dovevo partire dopo un’ora. La notte era passata velocemente, troppo velocemente, ma mi alzai e con lo sguardo cercai i servizi. Vidi una turca e al di sopra un rubinetto: tutto era lercio, maleodorante, comunque mi lavai la faccia il meglio possibile. Sapevo di avere poco tempo, infatti, dopo un attimo, la guardia aprì la porta e mi disse di seguirlo; mi riportò nella stanza in cui ero stato la sera prima. C’erano già altri due disgraziati, ragazzi che avevano fatto la prima parte del viaggio con me. Dopo esserci salutati il discorso si fermò sulle nostre destinazioni.

Uno di loro andava all’Asinara, isola della Sardegna che aveva la funzione di colonia agricola: il ragazzo era abbastanza contento anche perché, ci disse, non avendo famiglia, doveva lavorare per potersi comperare il necessario per il suo mantenimento in carcere. L’altro invece era un po’ preoccupato, doveva andare a Lecce, ma essendo del Nord Italia e avendo famiglia si chiedeva come avrebbe fatto per potere vedere i suoi cari, vista la distanza che l’avrebbe separato dalla famiglia. Ma i suoi problemi erano secondari per me, avevo anch’io i miei da risolvere. Mentre aspettavamo, altre persone furono condotte nella sala di attesa, alcuni provenivano della sezione, alcuni da altri carceri. Alla fine arrivammo ad essere una ventina, ammucchiati in quello poco spazio: chi fumava, chi urlava, chi si era seduto in un angolo. Meno male che questa situazione durò poco. Arrivò la guardia che cominciò ad elencare di nuovo i nostri cognomi e, uno alla volta, fummo invitati ad uscire. Fuori c’erano i soliti carabinieri che, con grande impegno, ci incatenarono di nuovo. Oramai cominciavo a farci l’abitudine, questo pensavo dentro di me.

Perciò feci buon viso e cattiva sorte. In gruppo da quattro salimmo di nuovo sul nostro furgone e, quando fummo al limite della capienza, la porta fu chiusa… si ripartiva. Dopo una lunga attesa il treno si mise in moto, il rumore delle ruote sulle rotaie diventò assordante, ma penso che tutti noi desiderassimo la stessa cosa: arrivare al più presto a destinazione. Ci sarebbe ancora voluto un bel po’ di tempo. Nella cella c’era poca conversazione, il quasi buio non favoriva certo il dialogo e la stanchezza mentale di tutti non aiutava la socializzazione; perciò ognuno stava per conto suo. Comunque il tempo passava, ogni tanto il treno si fermava, si sentivano delle persone salire e scendere: voleva dire che alcuni detenuti ci lasciavano, essendo arrivati a destinazione, e altri salivano per cominciare il loro viaggio.

Nel mio scompartimento qualcuno sembrava dormire, ma non credo che lo facesse veramente; era più probabile che gli occhi fossero chiusi per cercare di riordinare i pensieri. Cercai anch’io di concentrarmi, ma non ci riuscivo, ero troppo confuso. Qualcuno chiamò i carabinieri per poter andare al bagno e dopo un po’ altre voci si aggiunsero per chiedere la stessa cosa; lo feci anch’io. Uno per volta i carabinieri ci fecero uscire per andare in quel posto, dico così perché non si può chiamare bagno il posto dove entrai. C’era un forte odore di urina, un semplice buco nel pavimento, ma la cosa peggiore era che non ci furono tolti gli schiavettoni per potere fare quello che si doveva. Io rinunciai dopo il primo tentativo e penso che quasi tutti abbiano fatto lo stesso, chi ci avesse provato avrebbe dovuto essere un mago. Comunque, anche se per un attimo, ci venne data l’occasione per stare un po’ in piedi.

Il tempo passava, il treno continuava la sua corsa. Dopo diverse ore, tra una fermata e l’altra, il convoglio prima rallentò, poi si fermò. Forse eravamo arrivati a destinazione. Ci fu il solito “casino”, e dopo un bel po’, la porta si aprì. Fummo di nuovo incatenati (ormai era diventata un’abitudine) e come sempre avviati verso l’uscita. Si sentì in lontananza un carabiniere che parlava di Napoli. Dunque eravamo in quella città. Solito tran tran per scendere dal treno, e il solito per salire sul furgone che aspettava sul binario, ma questa volta c’erano tre furgoni: voleva dire che eravamo di più. Le voci intorno a noi avevano cambiato cadenza, erano più colorite, più allegre, ma a me importava poco. Anche il sole fece una fugace apparizione.

Il viaggio verso il carcere fu tremendo, sbattuti come pacchi sulle parete del veicolo da un autista che sicuramente non rispettava il codice della strada, ma eravamo a Napoli! Dopo una mezz’ora ci fecero accedere ad un cortile interno, eravamo a Poggioreale. Di nuovo solita trafila per essere messo in una cella vastissima, con tante brande a castello. Mi sistemai in una branda inferiore, avendo avuto la fortuna di essere passato per primo alla perquisizione. Feci il letto e mi addormentai subito, senza preoccuparmi più di tanto dell’indomani. La mattina mi svegliai presto, anche perché c’era una grande confusione in quella camera; ci fu portata la colazione: un po’ di latte annerito con del caffè che non sapeva di niente. Mi ricordai così che erano passati due giorni dal mio ultimo pranzo. È vero, ci davano dei sacchetti, ma come ho scritto prima non ho mai mangiato quella roba. Con la colazione ci dissero di prepararci per la partenza, cosa che tutti noi facemmo con la massima fretta. Zaini, catene, carabinieri, tutto era diventato quasi normale per noi, tutti rassegnati al nostro destino.

Di nuovo il famigerato furgone, il treno e la partenza da Napoli per il profondo sud. Era un viaggio che volevo finisse al più presto, ero stanco di essere in giro tra celle di transito e vagoni; volevo farmi una doccia, riposare, non sopportavo più lo spostamento, le condizioni di vita a cui eravamo sottoposti. Dopo diverse ore si arrivò di nuovo in una stazione, non sapevo ancora di essere a Reggio Calabria; si era fatto buio dovevano essere almeno le 22.00. In fretta, questa volta, ci portarono in carcere. Ci fu anche risparmiata la solita perquisizione; ci misero in una grandissima camera che serviva da transito. Dopo un po’ la porta si riaprì e, con mia grande meraviglia, due lavoranti portarono ogni ben di Dio: cibo in abbondanza, oltretutto molto buono.

Ci dissero che tutta quella roba ci veniva offerta dai nostri compagni della sezione – facevano sempre così con tutti quelli che passavano in transito –. Grazie a loro si mangiò molto bene quella sera. Ricorderò sempre l’ospitalità che altri detenuti avevano avuto nei confronti di noi transitanti. Ho saputo più avanti che era abitudine loro usare, con tutti quelli che passavano per Reggio Calabria, la stessa ospitalità. Con la pancia piena, dormii molto bene quella notte; parlando con altri, seppi che l’indomani avrei affrontato l’ultima parte del mio viaggio.

La mattina seguente mi alzai molto presto; ero contento di essere arrivato alla fine, lo stress mi aveva reso nervoso, la mancanza di tante cose essenziali mi dava parecchi fastidi, non mi lamentavo ma ero stufo di quella situazione. La porta si aprì per l’ultima volta. Una guardia mi chiamò, mi disse di seguirlo, mi consegnarono lo zaino, e tre carabinieri mi fecero da scorta, mi fecero salire sul sedile posteriore di un taxi, usato come veicolo di Stato, fra due carabinieri e partimmo. Per arrivare a Villa San Giovanni, all’imbarco del traghetto, ci volle poco tempo e, dopo un istante, fummo nella “pancia” della nave. Anche l’attraversamento dello stretto non fu tanto lungo, durò una mezz’ora, e capii che ero arrivato a Messina. Sapevo che si sarebbe proseguiti senza sosta per Caltanisetta. Almeno potevo vedere il paesaggio mentre la macchina correva sulla strada; non ero mai stato in Sicilia prima d’ora ed era molto bello tutt’intorno a me: campi di aranci e di limoni a perdita d’occhio, colline tondeggianti, arse dal sole, con poca vegetazione. Pensai dentro di me che la Sicilia doveva essere molto bella, peccato che fossi incatenato.

Dopo qualche ora si arrivò a destinazione. Ero in giro da pochi giorni ma mi sembrava di avere viaggiato per un’eternità. Un portone si aprì, mi fecero scendere: ero arrivato nella mia nuova “residenza”.