In Ungheria, nel carcere di Venige, suicidarsi è normale

 

di Roberto Bertoldi, settembre 2005

 

Ho seguito con interesse su Carte Bollate, la rubrica “Carceri nel mondo”, così ho pensato di scrivere la storia che mi ha portato a conoscere il carcere in Ungheria. Mi chiamo Roberto Bertoldi, ho 40 anni e vivo nel primo reparto. Mi ero innamorato di Angela, una bellis­sima ungherese che avevo conosciuto nel 1998 e per questo decisi, nel 2000, di trasferirmi in Ungheria. Vivevo in una splendida cittadina situata in area turistica di nome Nagykanizsa, distante 150 chilometri dalla capitale Budapest. A Nagykanizsa lavoravo a capo di una compagnia d’import-export, una piccola industria tessile che dava lavo­ro ad ottanta persone, inoltre gestivo un ristorante-pizzeria che mi faceva sentire orgoglioso per aver fatto cono­scere a questo popolo le buone specia­lità culinarie italiane. La mia convivente Angela, mi ha fatto diventare padre dandomi un bel­lissimo bambino di nome Noél che da poco ha compiuto tre anni. Potevo dire di essere una persona che viveva con gioia, felicemente. Purtroppo, la mia felicità mori il giorno che fui arrestato.

Una mattina, alle 7, arrivarono dei poliziotti armati nella mia abitazione e alla presenza di mia moglie, tra le sue urla e i pianti del piccolo Noél, fruga­rono dappertutto, mi spinsero brutalmente a terra ed ammanettato dietro le spalle mani e piedi. I poliziotti erano dodici ed ancora ora, pensando a quel momento mi sento male, non riesco a dimenticare il comportamento brutale dei poliziotti che in Ungheria sono chiamati Rèndòrsèg. Ero in uno stato di completa confusione mentale, non ricordo se pian­gevo, quando fui portato in un posto di polizia, dove mi fu notificato il mandato di cattura per dei reati di ricet­tazione; crimini commessi in Italia molto tempo addietro. Tra una parolac­cia e un calcio, che puntualmente mi faceva rotolare a terra con le mani e i piedi ammanettati dietro la schiena, tutto quello che accadeva mi dava la sensazione che era rivolta ad altra persona, mi paragonavo ad un pugile steso al tappeto. In quel comando di polizia passai la prima notte in una cella su un tavolaccio; incominciavo a rendermi conto che non stavo sognan­do, ma che purtroppo vivendo la real­tà. Iniziai a pensare a tutto ciò che avrei perso ed il primo pensiero fu per Angela e Noél. Stavo male, tremavo e piangevo in silenzio.

Senza rendermi conto, ho pensato seriamente al suici­dio, ma ero esausto al punto che fare anche i minimi movimenti mi era impossibile. Il giorno dopo, mi hanno dato un liquido caldo che assomigliava al caffè prima di essere trasportato al carcere di massima sicurezza Venige di Budapest, nell’attesa dei documenti che stabilivano il mandato di cattura e quindi la condanna, che le autori­tà italiane dovevano fare pervenire entro quaranta giorni dal mio arresto. Superato questo termine, in mancanza degli atti giudiziari avrebbero dovuto scarcerami, secondo la legge ungherese, e anche se i documenti che mi riguardavano sono arrivati dopo quarantasette giorni, ciò non è avvenuto. Venige è un carcere che ospi­ta milleduecento persone (ero l’unico detenuto italiano e conoscere la lingua ungherese è stato decisivo per li mia sopravvivenza).

Il Rèndòrseg raggruppa tutte le forze dell’ordine perciò ne fanno parte anche gli agenti penitenziari. Il carcere è formato da tre padiglioni di sette piani, ognuno di questi ospita 150 detenuti. Al settimo piano vivono i lavoranti tutti vestiti con una tuta uguale, per facilitare la libertà degli spostamenti necessari al lavoro. Il piano è un lungo corridoio con celle situate a destra e sinistra, ed in ognuna di queste vivono venticin­que detenuti in spazi limitati con la seconda porta blindata sempre chiu­sa, senza televisione né quotidiani o riviste. Ogni mezz’ora si è controllati attraverso lo spioncino della porta blindata da una guardia accompagnata da un cane; di notte il controllo è fatto accendendo la luce per permettere la conta. Al mattino si deve esser pronti alle 6, con branda in ondine (materasso ben arrotolato e così deve rimaner fino alle 21 perché è proibito stare in branda durante il giorno). Le botte sono date con frequenza da non credere, ogni piano è conti­nuamente controllato da una guardia che passeggia avanti e indietro con un cane a guinzaglio. Ogni sei ore, c’è il cambio.

Il suicidio nel carcere Venige è considerato un fatto normale. Dopo due giorni dal mio arrivo, in cella, un detenuto di 63 anni si è impiccato in bagno che funge anche da spazio per la morte. Non auguro a nessuno di assistere ad un fatto del genere; il volto di quella povera persona era irriconoscibile, la sua maschera era testimonianza della sofferenza che gli è esplosa dentro. A trenta giorni dal mio arrivo, sempre nel bagno della cella in cui vivevo, si è ucciso un altro detenuto di 23 anni. Quando ho capito che si era tolta la vita un’altra persona, mi sono sentito venire meno: questo mi ha evitato di guardare il macabro spettacolo che altri compagni detenuti guardavano con estremo interesse. Al terzo mese della mia prigionia, altro suicidio sempre nel bagno della stessa cella e sempre tramite impic­cagione.

Queste persone che decidevano di farla finita testimoniano le condizioni di vivibilità inumane. Personalmente vivevo continuamente in compagnia della paura che non mi abbandonava un istante, forse non ho compiuto il gesto estremo per paura. “L’aria”, un’ora al giorno obbligatoria, priva di attività sportive o ricreative consisteva nel solo camminare o stare fermi. Si è guardati a vista da sei guardie armate situate sulla muraglia, più altre quattro accompagnate da cani ed armati, che vigilano camminando all’esterno del perimetro della zona adibita ad “aria”. La figura dell’educatore non è prevista, solo guardie. Ogni qualvolta che esci o entri in cella, si è sottoposti a perquisizione; l’ispettore di piano è una donna e per qualsiasi necessità il detenuto deve chiamarla, l’ispettore decide al momento se una richiesta può essere esaudita o bloccata nel medesimo istante in cui è fatta, senza appello. La doccia, una volta il giorno, si fa a turni per celle di 25 detenuti che possono fame uso per dieci minuti. In doccia sono presenti le guardie con manganelli di gomma usati alla minima occasione che si presenta.

II mangiare, disgustoso solo a parlarne, è servito una volta al giorno (questa può essere una fortuna). È permesso ricevere un pacco di cinque chili mensilmente; si può andare due volte il mese in un “bazar” per acquisti che non devono superare i 1200 fiorini (42 euro). I colloqui sono eseguiti con audio e divisorio visivo, mentre si può tele­fonare una volta la settimana, cinque minuti con scheda prepagata. Dopo quattro mesi è finito l’incubo. Sono stato estradato in Italia e precisamente nel carcere di Busto Arsizio dove ho vissuto per quattro mesi ed essere poi trasferito a Bollate. È scontato che il trattamento usato nei confronti delle persone detenute in Italia non è paragonabile minimamente a quello ungherese. Dico questo con gran distacco, senza farmi prendere dal rancore per il fatto che ad oggi non sono riuscito ad avere un colloquio con la mia convivente e mio figlio. Mi rendo conto che sto perdendo la mia Angela, rimanendo sempre più solo, continuando a vivere nella confusione mentale alla quale non riesco a mettere ordine. A Bollate vivo in compagnia di una paura diversa da quella vissuta nel carcere di Venige.