Entri che sei un povero cristo ed esci che sei un delinquente professionista

 

Una storia fatta di 16 anni trascorsi dietro le sbarre di 19 diverse carceri italiane. La solitudine, la rabbia ed i rimpianti, ma anche la speranza di una vita diversa

 

di Nicola Pagliarulo

Casa lavoro Giudecca Venezia, settembre 2004

Scrivo a tentoni nel silenzio della notte alla ricerca di qualche verità: ma perché sono così complicato ed ostinato, tanto da non voler, ancora oggi, accettare le mie debolezze e le mie insicurezze? Da cosa fuggo non l’ho ancora capito, forse dal destino che mi sono costruito, che è tutto l’opposto di quello che credevo. La vita è un dono divino, fatta di sacrifici, di piccole rinunce, di semplicità e unione e armonia della famiglia. L’amore totale, appunto. Tutto questo era il mio mondo. Una splendida famiglia che non mi ha mai fatto mancare nulla, ma nonostante questo ho conosciuto 19 carceri, ho forzatamente convissuto a strettissimo contatto con etnie e culture non desiderate, non cercate. Il tempo ha fatto prima maturare la sopportazione, poi l’accettazione e infine ci siamo anche voluti bene. Ho già scontato sedici anni di carcere: in me c’è qualcosa di marcio. Sedici anni sono una cifra impressionante, e seppure con una gran rabbia interiore sono ancora vivo. Spesso penso a Rimini, Bologna, Milano, Padova circondariale, Padova penale, Trieste, Udine, Belluno, Pordenone, Verona, Venezia circondariale, Venezia Casa di lavoro, Giudecca, Ferrara, Montelupo Fiorentino… e sono ancora vivo. Carceri girati e rigirati più volte: ne porto il “calore” sulla pelle, provare per credere. Una tournée carceraria durante la quale ho visto, ma anche vissuto in prima persona, situazioni in cui l’essere umano viene spogliato della sua dignità, dei suoi valori, delle sue aspirazioni, persino dei suoi sogni e dei suoi progetti. Situazioni dove si perde ogni aspettativa per il futuro, e allora si cerca soltanto di sopravvivere a un infame presente che è il nulla. Certo, cazzo, la colpa è solo nostra, ce la siamo cercata. Abbiamo infranto le regole della società ed è giusto che paghiamo, ma cosa fanno le istituzioni per noi avanzi di galera? Sono entrato per un reato, neppure tanto grave, e come succede per il bingo ne ho vinti altri due. Il carcere è la scuola della delinquenza, dove viene messo lo sbarbato in mezzo a chi, delle patrie galere, ha fatto la sua seconda casa. In carcere impari le strategie per scassinare meglio, i trucchi per raggirare i sistemi d’allarme più sofisticati. In carcere, chissà perché, stringi sempre i rapporti con le amicizie più “sbagliate”, conosci gli agganci più sostanziosi per i traffici di droga o armi, impari bene come rapinare una banca, un rappresentante orafo… Entri che sei un povero cristo ed esci che sei un delinquente professionista. Penso che se solo all’interno di tutti gli istituti penitenziari ci fossero corsi davvero utili, attività ricreative, sportive, ma anche persone esterne a sufficienza e con le capacità per farci staccare la spina della routine carceraria, noi rifiuti della società potremmo imparare qualcosa di più importante e determinante, e magari ottenere un diploma professionale con possibilità di un lavoro una volta usciti, anziché essere sbattuti allo sbaraglio senza neppure un posto dove andare. E poi, proprio per l’uscita, servirebbe più attenzione da parte delle istituzioni, un aiuto di tipo anche “psicologico”, necessità alla quale quasi nessuno mai pensa. È un momento difficile, quello in cui si deve affrontare la propria famiglia, persone anch’esse relegate – non sempre ma molto spesso – ai margini della società per colpa di chi ha commesso il reato. Vergogna e incomprensioni, ed ecco che, anziché stringersi e cercare una soluzione, diventa più semplice telefonare all’amico conosciuto in carcere: “Sono nella merda, hai modo di aiutarmi a tirare su due soldi?”. Sfido chiunque, italiano o straniero non importa, a uscire senza un euro dopo parecchi anni di carcere e tornare dalla propria famiglia, ammesso che sia disposta ad accoglierti, e farsi mantenere. Abbiamo la nostra dignità che troppo spesso ce lo impedisce, invece dovremmo imparare a metterla da parte per chiedere aiuto: “Scusami, ho sbagliato, aiutami a rialzarmi onestamente”. La penso spesso, questa cosa: sulla carta mi sembra tutto semplice, ma poi non ce la faccio. Ho nella mente i troppi compleanni, i tanti natali e le tante pasque trascorsi nella più completa solitudine, periodi della mia esistenza in cui ho vissuto – e vivo ancora oggi – da solo. Abbandonato a causa del distacco e della freddezza che oramai si sono creati tra me e la famiglia: a fine pena sarò ancora più solo. Potrei farmi mantenere da mio padre benestante, “tanto lui ha case e negozi in abbondanza”, ma io da solo ho fallito e da solo ne voglio uscire. Senza scorciatoie, però: senza più puntare la 38 special sull’onesto impiegato e soprattutto senza il fiato del poliziotto alle calcagna. Voglio mettermi in gioco, stavolta onestamente. Ci provo, chissà che non riesca a trovare anche una donna che sappia amarmi con semplicità…