La testimonianza di Michele

dall’Istituto a custodia attenuata di Eboli

 

La storia di una dura convivenza con la droga raccontata in modo crudo e asciutto, senza alcun tentativo di autogiustificazione

 

Di Michele Barba, giugno 2000

 

Sono un detenuto ex-tossicodipendente, attualmente recluso nell’Istituto a custodia attenuata di Eboli. Vengo da una famiglia di ceto medio.

Dopo tanti problemi adolescenziali, fatti anche di conflitti generazionali con i miei genitori, all’età di 25 anni ho iniziato a fare uso ed abuso di sostanze stupefacenti.

All’inizio di questa squallida avventura non avrei mai pensato di andare incontro a tanti guai e a tante sofferenze, pensavo che fosse uno dei soliti capricci legati alla voglia di sentirsi grandi, oppure di assomigliare a quei modelli di persone che spesso i giovani cercano d’imitare a tutti i costi, ma che poi si dimostrano sempre, o quasi sempre, sbagliati.

Quello che è certo è che la tendenza ad assomigliare ad altre personalità di per se è un disagio, ma per chi è giovane ed inesperto non c’è la possibilità di riuscire a vederlo, quasi sempre ci si accorge di questo quando il disagio è cresciuto assieme all’individuo, e recuperare una propria identità diventa una vera e propria impresa.

Da principio assumevo la sostanza di tanto in tanto, poi l’assunzione delle dosi diventava sempre più frequente.

A distanza di sei mesi, mi accorsi che ero entrato in un mondo tutto mio, dove non c’era spazio per nessuno che non fosse un mio simile. Sentivo la necessità di appartenere ad un gruppo, poco importava se assomigliava più ad un branco, l’importanza era esserci, incurante di com’ero e di quello che facevo per procurarmi le dosi.

Dopo altri sei mesi le cose andavano peggio, iniziavo ad avere problemi a relazionare con tutti, in particolare con la mia famiglia che mi vedeva sempre più assente, non partecipavo ad alcuna discussione che riguardasse l’ambiente familiare, mi ricordo che a fatica ero presente a tavola durante i pasti.

Mio padre non riusciva a dirmi nulla, forse anche lui si portava dentro un disagio antico di chissà quale origine, l’unica interlocutrice, tra me e lui, era mia madre, a volte avevo l’impressione che fosse il suo ed il mio portavoce, lei mi riportava tutte le lamentele che lui le faceva su di me (molto probabilmente queste discussioni venivano fatte nei loro momenti d’intimità); certe volte, ancora oggi, mi sento colpevole di tutte le volte che, per parlare di me, hanno dovuto rinunciare alla loro vita strettamente personale, e magari il mattino dopo non si parlavano nemmeno a causa dei diversi punti di vista nei miei riguardi.

Quello che mi piaceva di mio padre era il grande senso di responsabilità che aveva nei confronti della nostra famiglia, infatti lui era puntualissimo ad andare al lavoro, quasi con la stessa puntualità con cui riusciva a non parlare con me.

Mia madre era una donna protettiva con tutti noi, ed in particolar modo con me.

Lo era sempre stata, ma questa protezione andò aumentando quando seppe che mi "facevo". A volte, leggevo con nitidità nei suoi occhi la grande paura di perdermi, e, anche se oggi me ne vergogno, ne ho approfittato, di questa sua debolezza, per raggiungere degli scopi di natura economica mirati all’acquisto di sostanze stupefacenti.

I miei amici (i veri amici, quelli dell’infanzia) incominciavano a raccogliere le prime notizie inerenti al mio stato di tossicodipendente. Qualcuno di loro mi cercava per avere la conferma da me di quanto già saputo per le vie del quartiere. Io cercavo di evitarli. Non mi sentivo in grado di affrontare quei problemi che per me, allora, non erano neanche tali. Con quel mio comportamento, senza rendermene conto, stavo perdendo un patrimonio di un valore molte forte: l’amicizia.

Altri amici o compagni non cercarono mai di parlare con me di quel tremendo problema. Forse anche loro, come me, avevano delle difficoltà di ragioni diverse ed evitavano di incontrarmi; certe volte, quando ci incontravamo per strada, entrambi guardavamo da un’altra parte. Mi ricordo che ciò capitava anche a casa mia e dei miei parenti. A volte, senza aver commesso alcun reato, mi sentivo un "latitante", ma non fuggivo dalle Forze dell’Ordine, fuggivo dalle persone care, e la cosa ancora più grave era quella che fuggivo da me stesso.

 

Poi ci fu la ricaduta, e ricominciò il mio calvario fatto di litigi, di incomprensioni e di bugie, che avevano preso il posto dell’amore

 

Per i primi due anni mi feci scivolare sulla pelle questa estrema esperienza. Mi ricordo che ero ancora convinto di potere smettere di drogarmi quando avessi voluto. O forse avevo già capito dove stavo andando, ma mi rifiutavo, per presunzione o per chissà cosa, di ammetterlo. Anche la paura di tornare indietro, l’orgoglio, mi dava la forza di continuare in quello che era il mio percorso di autodistruzione.

In un periodo di totale di smarrimento e di scarsissima lucidità, chiesi alla mia ragazza di sposarmi. Stavamo insieme da circa quattro anni ed ero quasi sempre riuscito a tenerla lontano dalle mie storie di droga. Non so quante volte ho dovuto rinunciare ad andare agli appuntamenti che il giorno prima le davo per telefono. Mi promettevo sempre di non "farmi" quel giorno, ma puntualmente non ci riuscivo, e, per non farmi vedere sconvolto, ero costretto a non incontrarla.

Lei mi amava molto, e mi rispose di sì. Accettò la mia richiesta di matrimonio.

Oggi posso dire che la sposai non tanto perché l’amassi a tal punto, forse era un tentativo per smettere di drogarmi. Cercavo disperatamente di aggrapparmi a qualsiasi cosa che mi potesse tirare fuori da quella dimensione, e pensavo che con gli impegni che può portare il matrimonio sarei riuscito, con l’aiuto di una persona che mi volesse bene, ad allontanarmi un po’ alla volta dalla realtà che ormai mi stava distruggendo.

Ci sposammo molto velocemente. In un primo periodo le cose andavano nella direzione che mi ero preposto. Mi "facevo" ogni tanto, mi iscrissi anche al Ser.T. per farmi assistere, ma senza mai accettare l’aiuto degli operatori dell’area trattamentale. Mi limitavo ad assumere la terapia metadonica e nel giro di poco tempo entrai in crisi di astinenza anche di quel farmaco, che mi procurava una dipendenza molto più forte di quella dell’eroina.

La nascita di mia figlia Cristina fece rafforzare in me la volontà di smettere definitivamente con la droga, e decisi per il ricovero ospedaliero. Mi disintossicai e per circa quattro mesi non mi "feci".

Poi ci fu la ricaduta, e ricominciò il mio calvario fatto di litigi, di incomprensioni e di bugie, che avevano preso il posto dell’amore. Lei cercò di sopportarmi, ma io ero inavvicinabile. Avevo ricominciato a farmi molto più dell’inizio, certe volte neanche la sostanza stessa riusciva a colmare quell’enorme senso di disagio che mi portavo dentro, per ottenere un risultato per me soddisfacente mi bucavo anche dieci volte nell’arco delle 24 ore. Ma per poterlo fare avevo bisogno di spacciare, di delinquere e subito ci fu il primo arresto. Questo fece perdere ogni speranza a mia moglie di salvare il nostro matrimonio.

Dopo poche volte in cui venne a trovarmi in carcere, un giorno, gelandomi il sangue, mi disse: "Ho deciso di lasciarti". Non dissi una sola parola, mi girai ed andai via. Promisi a me stesso che non avrei mai più parlato con quella donna e così fu per tutto il periodo della mia detenzione.

Dopo sei mesi uscii, andai da lei, e sentendomi ferito nel mio orgoglio, la trattai con disprezzo. Anche se dentro di me urlava la voglia di fare l’amore con lei e di dirle di perdonarmi, non ci riuscii, rivolsi tutte le mie attenzioni a mia figlia e scoppiai a piangere come un bambino. Lei, decisa, mi ribadì il suo intento di separarsi e, consensualmente, decidemmo per la separazione legale.

Questo sua decisione fu per me un ulteriore incentivo all’uso delle droghe, sì! Droghe. Perché iniziai anche con la cocaina e non solo. Questa miscela di sostanze mi mise in una condizione che mi portò, in breve tempo, inevitabilmente, ad intensificare la mia già esistente vita delinquenziale. Infatti, tramite un "amico", conobbi una persona che aveva bisogno di un corriere che facesse le consegne di "roba" tra Palermo, Genova, Napoli e Salerno. La prima consegna la feci tra queste città con un quantitativo di mezzo chilo di cocaina. La mia paga non era stabilita in denaro, ma in droga: per un chilo di merce incassavo un etto di droga. Con questa attività e tipo di pagamento mi ero messo in una situazione di comodo per quanto riguardava l’uso personale, infatti facevo una consegna ogni quindici giorni e consumavo tutta la mia percentuale, oltre a coprire le spese dei viaggi ed i pernottamenti che occorrevano per incontrare gli acquirenti.

La mia prima esperienza di corriere durò solo qualche anno, infatti mi arrestarono nel 1982 con un quantitativo di 250 grammi di cocaina. Fui condannato a 15 anni di carcere in primo grado di giudizio, in appello mi scalarono 9 anni (mi andò bene), però dovevo fare sempre 6 anni di detenzione, e non erano pochi.

Avevo sì avuto già una breve esperienza come detenuto, però confusa sia perché breve, sia perché io ero frastornato dalla notizia dell’abbandono di mia moglie. Comunque iniziai la mia storia di detenuto.

Con troppa ingenuità pensavo che, seguendo i regolamenti e gli ordinamenti penitenziari, che garantiscono molti diritti dei detenuti, non doveva essere una condizione di vita stravolgente e così lontana dalla realtà. Ma, a mano a mano che scontavo la mia condanna, mi rendevo conto che non era esattamente così. (…)

 

Un atteggiamento omertoso è molto difficile da eliminare

 

Durante le mie esperienze in Istituti diversi, ho conosciuto delle persone che aderivano a un programma da oltre due anni, ma la loro mentalità rispetto alla sostanza, il loro modo di agire e di pensare, non si era allontanato molto da quello che era al momento dell’ingresso. Purtroppo, anche in questi ambienti carcerari meno oppressivi, vige una mentalità omertosa molto forte e nonostante tutti gli sforzi di azzerare questo atteggiamento, la cosa non riesce quasi mai.

Io credo che il discorso dell’omertà è la chiave d’ingresso, che determina la riuscita o la non riuscita dei programmi dell’I.C.A.T.T. Bisogna premettere che un atteggiamento omertoso è molto difficile da eliminare, infatti, per i soggetti che hanno vissuto molti anni nella tossicodipendenza e di conseguenza negli ambienti malavitosi, la parola omertà è come un legame famigliare del quale è molto difficile dimenticarsi, è un codice d’onore che appartiene a quelle persone che non condividono quello Penale o anche lo stesso Ordinamento Penitenziario, che molto spesso applica metodi punitivi e non trattamentali, come dovrebbe essere in questo tipo di Istituti.

In un ambiente, dove si predica il recupero di persone che hanno sempre vissuto tra violenza, reati, disagi, conflitti famigliari e quant’altro possa esistere, vi possono essere degli incidenti di percorso, che devono sì essere segnalati ed eventualmente puniti, ma non a livello giuridico, bensì a livello trattamentale. Bisogna aiutare le persone a ragionare ed a riflettere sui propri errori, evitando di accrescere la propria frustrazione, e per fare questo c’è bisogno di un forte sostegno di tipo psicologico e non di rigetto dei benefici premiali. Se si entra in questo ordine di idee, possiamo iniziare a pensare che le persone possano partecipare "attivamente" al programma, evitando di applicare il motto "vivi e lascia vivere", che abbandona le persone meno interessate al recupero in una fase di stallo e di indifferenza totale.