Genitori e figli: Un’ora sola

 

di Giulio Oliva, ottobre 2005

 

Una settimana di attesa per un’ora di gioia. Si potrebbe riassumere così il trascorrere del tempo per me dentro il carcere, perché un’ora alla setti­mana è il tempo a mia disposizione con i miei due figli e mia moglie nella sala colloqui del carcere. Vivo aspettando il giorno fatidico, mi preparo come se dovessi andare a un matrimonio, riempio una borsa di dolci e dolcetti, un termos di caffè per mia moglie e coca cola e aranciata per i bam­bini. L’agente mi chiama, percorro i corridoi fino all’altra parte del carcere, dove poi attenderò un’altra lunghissima mezz’ora in una cella angu­sta che qui chiamano d’attesa. Finalmente l’ultimo pezzo di corridoio, la perqui­sizione e via per gli ultimi gradini, il fiato è ormai corto e il cuore mi batte forte.

Finalmente li vedo, la porta della sala si apre e i bambini mi si buttano addosso abbracciandomi, e subito sento il loro profumo, poi mia moglie, che si è tenuta in disparte fino a quel momento mi abbraccia anche lei, e allora il cuore si scioglie. Passano i minuti in un istante, tra un abbraccio, un bacino ai figli e una carezza alla moglie. Poche cose in realtà, ma sono quelle sensazioni che mi danno la forza e il coraggio di attendere un’altra settimana. Il loro profumo, le loro carezze, i loro baci me li porto via con me quando l’ora è finita e la porta ci separa nuovamente, le loro mani che mi salutano adesso dietro al vetro sono l’ultima immagine che porto sempre via. Ogni volta anda­re al colloquio è una gioia ma alla fine è sempre un dolore.