Serve qualcuno che pensi anche ai diritti dei famigliari dei detenuti

La pena è mia: di chi i diritti?

Quando la pena di uno nega i diritti dell’altro

 

di Giovanni Prinari

Casa di reclusione di Carinola, gennaio 2008

 

L’articolo 27 della Costituzione recita: “La responsabilità penale è personale”. Eppure, per ogni soggetto che viene condannato in nome del popolo italiano, c’è parte di quello stesso popolo che, pur non avendo commesso nessun crimine, nessun reato, viene anch’esso condannato. È il popolo dei familiari dei detenuti, del quale mai nessun giornalista parla nei suoi articoli o in televisione, quasi a voler significare che non esiste, che i detenuti sono persone a se stanti, senza una storia familiare o affettiva alle spalle che, invece, è fatta di genitori, di mogli, di figli, di fratelli e sorelle, che senza colpa e senza macchia, si trovano (come tutte le vittime incolpevoli) a dover pagare una pena e una sofferenza mai voluta, mai cercata, mai neppure immaginata.

Però la pagano! La pagano nel momento in cui il loro congiunto viene tratto in arresto perché ha sbagliato, perché ha infranto la legge, perché è giusto che paghi… ma è giusto che paghi lui, perché lui l’ha infranta e non loro, ma loro pagano comunque! Pagano perché le condizioni di una famiglia che si vede privata del proprio capofamiglia sono problematiche e atipiche rispetto alle altre. Ma la loro pena (impersonale) non finisce con l’arresto. C’è, poi, quella aggiuntiva e maggiormente afflittiva che si verifica nel momento in cui il loro congiunto viene trasferito a un istituto lontano dal loro luogo di residenza, creando ulteriori disagi e problemi. Quella dei trasferimenti è una consuetudine che contrasta con la legge penitenziaria che, invece, favorisce il rapporto tra detenuto e famiglia. È una prassi palesemente contrastante con quel principio (dell’articolo 115 del D.P.R. 230/2000 sulla territorialità dell’esecuzione della pena) che vede nella rieducazione una delle finalità della pena, e vede la famiglia quale nucleo fondamentale per il futuro reinserimento del detenuto. Ciò non potrà verificarsi se al detenuto, nel corso della carcerazione, viene fatto rompere ogni contatto con i familiari, il coniuge e i figli a causa dell’allontanamento.

La pena è mia: di chi diritti? Ma se questo dovrebbe riguardare colui che sconta la condanna (che già da sola è pena in quanto tale), la famiglia di origine, di contro, non ha alcuna pena, nè morale nè materiale, da espiare e non sempre gode delle condizioni economiche favorevoli ad affrontare viaggi, per cui si trova a rinunciare ai colloqui perché, non bisogna dimenticarlo, nella maggior parte dei casi si tratta di persone oneste e rispettose della legge, persone che lavorano e pagano le tasse e adempiono a quei doveri come ogni buon cittadino è tenuto a fare nei confronti dello Stato. La Costituzione, nella parte prima, parla di “diritti e doveri dei cittadini”, e all’articolo 13 IV° comma recita: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Non è forse una violenza fisica e morale quella che subisce un cittadino, familiare di un detenuto, nel momento in cui gli viene tolta la libertà di poter vedere il proprio congiunto detenuto quando questi viene trasferito dal carcere della propria città a quello di un’altra città e regione? E poi, non è anche una violenza fisica e morale nei confronti del detenuto stesso non poter vedere i propri cari?

 

Da un anno i miei cari non mi vedono: può la mia pena negare dei diritti alla mia famiglia?

 

La pena è mia: di chi i diritti? Sempre nella parte prima della Costituzione, l’articolo 28 recita: “I funzionari e i dipendenti dello Stato… sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato…”. E cosa fa lo Stato per questi cittadini che subiscono la violazione dei loro diritti a non poter vedere il loro congiunto detenuto? Da loro non può pretendere solo i doveri con il pagamento delle tasse. È un diritto oppure no per questi familiari poter vedere il loro congiunto detenuto? C’è scritto all’articolo 29 della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. I diritti di quale famiglia? È compresa anche quella del detenuto? Vi è, poi, la legge 26 luglio 1975, nr. 354, meglio conosciuta come Ordinamento penitenziario, che all’articolo 10 3° comma, afferma: “Particolare favore viene accordato ai colloqui coi familiari…”, mentre all’articolo 42 dice che “i trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenza dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiare. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie…”.

Tutto ciò, va considerato nell’ottica dell’articolo 28: “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie” e, nell’articolo 15, “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto… agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e di rapporti con la famiglia”. C’è, poi, nelle Regole penitenziarie europee, l’articolo 65 primo comma che dice: “Ogni sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e gestiti in maniera da: lett. C) mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie”.

La pena è mia: di chi i diritti? I nostri parlamentari dicono: “Le leggi vanno applicate”. Ma davvero si può dire che quella penitenziaria, con i trasferimenti, venga applicata? La pena è mia in qualsiasi carcere io la sconti, ma dei miei familiari è il diritto di vedermi perché non hanno pena da espiare, ma solo affetto da dare e ricevere, e i sentimenti non si possono elemosinare.

Sono di Lecce, sono detenuto ininterrottamente dal 1993 e mi trovo nel carcere di Carinola (CE). Da un anno i miei cari non mi vedono: può la mia pena negare dei diritti alla mia famiglia?