Quei reati commessi da detenuti che hanno usato male la loro libertà

Storie di “benefici” finiti male. Quando l’orrore della cronaca nera si abbatte come un macigno sul destino di chi sta in carcere

 

a cura della Redazione

 

In questi giorni c’è stato un momento in cui noi che stiamo in carcere non avevamo più neppure voglia di aprire i giornali o guardare la televisione: le notizie di apertura erano infatti macigni, storie tragiche di gente che, uscita dalla galera, è tornata ad ammazzare. Poi abbiamo deciso di non nasconderci ma di affrontare con un po’ di coraggio una questione scottante come questa: dove è in gioco il nostro futuro, e il senso che può avere, per la società, accettare un sistema che permette, a chi commette un reato, di scontare parte della pena con un percorso graduale di uscita dal carcere, attraverso i permessi premio prima e il lavoro in regime di semilibertà poi. Le testimonianze che riportiamo cercano di convincere i cittadini “liberi” che questo sistema è buono e giusto, e che i rischi sono pochi, e sono senz’altro meno che non se le persone condannate si facessero tutta la carcerazione in galera e uscissero, alla fine, incattivite, senza più affetti, senza una rete di protezione ad accoglierle. Ma ci piacerebbe, su questo tema, confrontarci proprio con quelli che stanno “fuori” e con le loro inevitabili paure.

 

 

Salviamo quella legge, pensata proprio per restituire alla società persone cambiate, uomini nuovi

 

di Flavio Zaghi, febbraio 2006

 

Quando assistiamo a certi fatti ci viene spontaneo pensare quanto sia piccola la nostra, seppur dolorosa, esperienza, in confronto a quella di altri. Questa volta in un’assurda sparatoria a perdere la vita, purtroppo, sono stati in due, “un buono e un cattivo”. Il cattivo: Antonio Dorio, 36 anni, già autore di una sanguinosa rapina, evaso da un permesso premio dopo aver scontato gran parte della condanna, è stato fermato dai carabinieri alla guida di un’auto rubata. Forse i due carabinieri non hanno calcolato che quell’uomo, in quel momento, era disposto a buttare via la sua vita già irreparabilmente segnata e anche quella degli altri. Lo hanno fatto salire sulla loro macchina, lui deve aver tirato fuori una pistola, forse non era stato perquisito bene. Un carabiniere viene ferito e muore in ospedale; l’altro, l’evaso, è ormai perso, tenta una fuga tanto disperata quanto impossibile, ma finirà la sua folle corsa e la sua stessa vita in un fossato.

La notizia ha fatto il giro dei telegiornali, la gente si indigna e forse, a ragione, spara a zero: “Bisogna rivedere la legge, gente come questa deve restare in galera per sempre!”. Come si fa a dargli torto? Mi piacerebbe però, in una pacata discussione, far capire che se tutti noi  riteniamo giusto vivere in una società “civile”, fatta di individui responsabili, in una società democratica in cui ci si possa sentire liberi, allora bisogna anche accettare di mettere in conto dei rischi. Il più delle volte infatti, quando succedono fatti gravi come questo, il cittadino è indignato e terrorizzato, e a ragione invoca lo Stato per curare le sue angosce. Tutti si sentono abbandonati e diffidenti, quindi chiedere più controlli sembra l’unica soluzione, ma se lo Stato applica livelli maggiori di repressione, anche sociale, è la libertà stessa per i cittadini in generale a diminuire, mentre il carcere altro non diventa che una fiorente industria di contenimento e null’altro.

Le istituzioni parlano del carcere come luogo atto al reinserimento dei soggetti detenuti: bene, in buona misura questa non è la verità. Il carcere è spesso luogo di educazione al crimine, di inasprimento della cattiveria individuale e generale che porta poi alla reiterazione dei reati. Se non fosse per scelte personali o interventi di elevato spessore culturale che arrivano quasi solo dal volontariato, è pressoché impossibile prendere parte in carcere a iniziative mirate alla reintegrazione e al reinserimento. E invece un percorso finalizzato al reinserimento dovrebbe essere un diritto garantito dalla Costituzione, ma anche una garanzia per la società, che non deve essere truffata nella sua giusta aspettativa di riaccogliere al suo interno individui rieducati e migliorati.

Io vorrei che la gente pensasse che la funzione della detenzione dovrebbe essere quella di far capire a chi ha commesso reati che esiste un modo diverso di vivere, e poi di creare le condizioni perché non arrechi più danni alla società. Nessun intervento “muscolare”, a mio avviso, può dare buoni frutti, l’uso della forza amplifica i problemi e non  li risolve affatto. Chiudere la gente in gabbia e “buttare via la chiave” non serve a niente.

Mi rendo conto che è molto più facile elencare gli esiti negativi di casi in cui la legge Gozzini, quella che permette di scontare parte della pena fuori, in misura alternativa, è stata applicata, però qui a Padova, ad esempio, sono molte le persone che con fatica, anno dopo anno, si stanno reinserendo proprio grazie a questa legge, pensata per restituire alla società persone cambiate, uomini nuovi, che sanno anche prendere le giuste distanze da fatti di ordinaria follia come quelli di Ferrara, e che come tutte le persone “normali” si uniscono al dolore a al cordoglio dei familiari di entrambe le vittime e si chiedono se queste morti si potevano in qualche modo evitare.