Parlavo solo col televisore

 

Ho fallito tutto in poco tempo. La routine è devastante per uno che ha aspettato come me la libertà

 

di Flavio Zaghi, ottobre 2005

 

Si parla di difficoltà del dopo carcere, in redazione, questo sarà infatti poi anche uno dei temi di discussione con i ragazzi che entreranno qui per il progetto scuole. Se ne discute e ci si confronta, ognuno dice la sua e porta la sua esperienza, altri lasciano uscire un po’ come uno sfogo quello che poi è il desiderio di misurarsi al più presto con questa cosa. La mia esperienza è stata negativa, nel senso che ho fallito tutto in poco tempo, ritrovandomi con altri guai da aggiungere alla già corposa lista di cazzate commesse in tutta una vita. Sono uscito da qui in affidamento e ho provato a ricostruirmi un’esistenza in questa città. A Torino, città da dove provengo, non restava più nulla che valesse la pena di essere ritentato. Mi sono cercato quindi un lavoro e un alloggio, il lavoro era presso una cooperativa che aveva diversi appalti in varie aziende del padovano, l’appartamento era un monolocale, con un affitto da rapina, dove comunque non facevo altro che dormire.

Stipendio da fame quindi e orario di lavoro più lungo, con gli straordinari imposti dalla cooperativa che comunque mi erano necessari per non restare senza una lira dopo sole due settimane dal giorno di paga. Lavoravo all’interno di un capannone senza fine, uno di quei posti con le luci sempre accese, dove si entrava al mattino presto col buio e se ne usciva a sera tardi di nuovo col buio. La domenica la dedicavo quasi esclusivamente al lavaggio degli indumenti che mi servivano poi durante la settimana per lavorare. Dopo poco tempo ho deciso che così non potevo andare avanti, non avevo rapporti, non scambiavo quattro chiacchiere con una persona da tempo, non avevo una relazione e vedevo il mio ritorno alla libertà non più come una conquista, ma come un sacrificio continuo.

Decisi allora di cambiare lavoro e trovai in poco tempo occupazione presso un noto mobilificio della zona; l’ambiente di lavoro era decisamente migliore, ma di fatto ero molto più impegnato di prima. Tornavo a casa la sera e mi accorgevo di non avere costruito nulla, distrutto dal lavoro e neanche più la voglia di farmi da mangiare. Così iniziai a servirmi in un ristorante da asporto cinese più che altro per comodità, non certo perché io fossi un cultore di quella cucina, anzi, la odiavo, però non potevo certo andare avanti a pizza. L’ambiente di lavoro era fatto di apparenza e null’altro e le poche donne mie colleghe sopravvissute al business matrimoniale guardavano esclusivamente proprio queste cose: io che andavo a lavorare col motorino ero quindi tagliato fuori dal loro interesse. I pochi discorsi che mi capitava di sentire, così di striscio, vicino alla macchinetta del caffè, comunque non è che mi stimolassero poi molto, anzi, non vedevo l’ora di caricare il camion e di andare a consegnare mobili per restare fuori anche solo dagli sguardi che mi sentivo addosso. Non mi piaceva quello che stavo facendo e iniziavo a stancarmi di quella libertà fatta solo di lavoro e nient’altro: la sera dovevo essere a casa entro le ventidue per i controlli e al mattino in piedi prima delle sei per andare a consegnare e montare mobili.

La routine è devastante per uno che ha aspettato come me la libertà e magari con aspettative diverse da quello che stavo vivendo. Ci mancava poco che parlassi col televisore e mi stavano quasi venendo gli occhi a mandorla a forza di mangiare cinese. Il problema che iniziavo a sentire ma che non ho valutato a dovere era proprio quello delle relazioni: se una persona non si relaziona non vive. Se una persona non vive dei sentimenti si inaridisce e il suo dolore può sfociare in comportamenti sbagliati, la solitudine ha un ruolo devastante e ti chiude gli spazi di vita semplici, in cui si può anche solo parlare con un amico di cui ti puoi fidare. Non potevo certo andare a confidare ciò che stavo provando e vivendo al mio capo, non potevo mettere a conoscenza quelle persone di una verità della quale provavo vergogna, persone nei confronti delle quali vivevo quasi un senso di inferiorità. Il patatrack era vicino e non me ne rendevo conto. Ho iniziato a frequentare qualche locale e conoscere persone alle quali del mio passato non poteva fregare di meno, da qui al fatto di tornare a commettere dei reati il passo è stato breve.

Tornarono quindi a girarmi i soldi in tasca e spesso avevo anche una donna che riempiva le mie serate, e che al mattino dopo spedivo giù dalle scale senza tante storie e spiegazioni. Una domenica mattina la sorpresa, vedo i carabinieri sotto casa mia, cercavano proprio me, ero finito in una vicenda poco piacevole che mi ha portato sotto processo e naturalmente mi ha fatto rientrare in carcere. Ho vissuto tutta questa storia come un totale fallimento e mi sono scontato tutta la condanna, più il resto, in assoluta apatia, fino all’ultimo giorno di galera. Avrei voluto costituirmi parte civile al processo, per tutta questa storia, altro che imputato, e spiegare queste cose, forse, chi lo sa, il giudice avrebbe capito e sarebbe stato un attimo più attento… almeno lui.