Ma davvero i delinquenti si vedono già a tre anni?

 

Lo pensano gli inglesi, o almeno è quanto emerge da un rapporto del ministero dell’Interno dedicato a come ridurre la criminalità. E forse è vero, se si tratta di ragazzini come me, cresciuti in strada, in un quartiere degradato, poco guardati dai genitori troppo occupati dal lavoro

 

di Flavio Zaghi, agosto 2005

 

“I delinquenti si vedono già a tre anni”, questo è il titolo di un servizio apparso sul Corriere della sera e che lascia un attimo sgomenti. In effetti, come si fa a dire se un bambino di tre anni è un potenziale delinquente o se comunque potrà avere in futuro guai con la giustizia? Se lo sono chiesto gli inglesi, in quanto pare che da loro il fenomeno del bullismo abbia raggiunto livelli allarmanti. E qui da noi come siamo messi, meglio o peggio? I bambini di Scampia a Napoli, o dello ZEN di Palermo, del CEP di Bari, o delle varie periferie dei grossi centri industrializzati del nostro nord, sono la risposta italiana agli Hooligans in erba?

Di certo non è piacevole nascere e crescere in quartieri ghetto dove la violenza non è solo fuori dalla porta di casa, ma a volte è proprio tra le mura della propria abitazione. Credo che per molti di noi sia sufficiente fare un salto indietro nel passato e tornare con la memoria all’età scolare, quella che per alcuni è stata l’età più bella, per altri la più brutta forse e per altri ancora molto dolorosa, al punto che più che ricordarla vorrebbero cancellarla. Il mio parere è che comunque la possibilità che si formino più facilmente potenziali futuri delinquenti, sia dettata soprattutto dall’ambiente in cui il bambino vive, quello che lo circonda; il quartiere degradato-popolare ha un ruolo molto importante e trasmette al bambino valori sballati che si porterà dentro per sempre, se non si interviene in maniera drastica.

 

Col passare del tempo ho iniziato a mostrare i primi segnali di irrequietezza e eccessiva vivacità

 

Un ruolo importantissimo e difficile è quello dei genitori dei bimbi che vivono in questi quartieri, la loro presenza, la loro capacità di educare il proprio figlio, capirlo, conoscerlo. Io sono nato in una frazione di un paese della provincia veneta e ci sono rimasto fino all’età di tre anni-tre anni e mezzo, affidato ai nonni paterni in quanto i miei genitori sono stati costretti a emigrare in cerca di lavoro, in una città che appunto offrisse opportunità di crescere due figli in modo dignitoso.

Sono poi venuti a prelevarmi per portarmi con loro quando si sono sistemati e così mi sono ritrovato in un quartiere dell’estrema periferia di Torino, case altissime e grigie non ancora finite e già sovrappopolate. Stavo benissimo e mi piaceva questa nuova sistemazione, perché giù in strada, dove trascorrevo praticamente tutto il mio tempo, c’era una miriade di bambini e ragazzini di tutte le età. Col passare del tempo ho iniziato a mostrare i primi segni di irrequietezza e troppa vivacità, ho fatto giusto in tempo a fare solo la prima elementare nella locale scuola statale e poi i miei genitori, che purtroppo erano troppo assenti a causa del lavoro, hanno deciso che per il mio bene e la loro tranquillità, era meglio chiudermi in collegio. Ci sono rimasto fino alla quinta elementare, era un collegio diretto dalle suore che erano molto rigide e severe. Ad ogni fine anno scolastico poi, per le vacanze estive, venivo spedito in colonia. Al termine della quinta elementare appunto, ho avuto una crisi di rigetto, ero saturo, non ne potevo più di disciplina.

 

Il quartiere dove sono cresciuto è a Torino, ma là non si parla piemontese, là si parla siculo-calabrese-pugliese e anche un po’ di veneto

 

Le scuole medie le ho fatte alle statali con tutti i miei amici, e lì… ho dato sfogo a gran parte della rabbia che avevo accumulato in pochi anni di vita: dove vedevo, percepivo, individuavo autorità, mi buttavo e facevo danni. I miei amici, il gruppo o branco, anzi, forse è meglio dire lo sciame perché eravamo davvero tanti, erano tutti ragazzini come me, cresciuti in strada, poco guardati dai genitori troppo occupati dal lavoro, ma comunque tutti esclusivamente dello stesso quartiere. Il quartiere ti prende, è ghetto, è chiusura. Molti di quello sciame, anni dopo, sono stati decimati dalle overdose, altri se ne sono andati a causa di incidenti, qualcuno è morto ammazzato, il colpo di grazia è arrivato qualche anno dopo con l’AIDS, e dello sciame è rimasto in piedi (per usare un termine all’inglese…) solo qualche highlander.

Così te ne vai dal quartiere. Andarsene in piedi è molto difficile, è come dover passare attraverso uno stretto imbuto, ci passi solo se sei “ben incanalato” e hai la “giusta spinta”, altrimenti sbatti solo di qua e di là e il più delle volte ti fai male. Viceversa, entrare nel quartiere, è praticamente impossibile. Il quartiere dove sono cresciuto è a Torino, ma là non si parla piemontese, là si parla siciliano-calabrese-pugliese e anche un po’ di veneto; non c’è neanche uno straniero, Torino ne è piena, ma nel mio quartiere neanche uno. Là nel mio quartiere, di bambini di tre anni con l’atteggiamento che preoccuperebbe gli inglesi, ce n’è sempre, ogni anno. Ma non è che per caso poi alla fine ‘sti cazzo di inglesi c’hanno pure ragione?!