Racconto a cuore aperto

 

di Andrea Di Lorenzo, novembre 2004

 

C’è un angolo nel cuore di ognuno di noi dove riponi la cosa più cara. Un angolo nella mente dove collochi i ricordi più belli. Un angolo nell’animo dove posi il pensiero più ricorrente. Uno spazio che non si misura, che non si calcola. Nel mio cuore, nella mia mente e nel mio animo ho da sempre una sola immagine, una sola visione. Parlo di una donna: la cosa più lieta della mia triste esistenza. Parlo di mia figlia: di Michela.

Ho quasi quarant’anni. Molti dei quali trascorsi in carcere. Apro il mio cuore in queste righe, scrivendo quello che a voce ho difficoltà e paura a dire, a rivelare. Ho una figlia fuori da queste mura. Un pensiero stupendo che mi spinge a non mollare. Ho già mollato la mia esistenza quando sposai la causa della droga. Cercavo un rifugio, la libertà, la gioia. Ho trovato solo lacrime, vergogna e dolore. Non solo dolore fisico ma, soprattutto, quello interiore. Il pensiero di Michela è come uno stimolo: il mio stimolo.

Ho paura di uscire da qui. Ho paura di quello che troverò fuori. Ho paura della gente, degli occhi della gente. Ho paura dei pregiudizi. Ho paura di quello che mia figlia pensa e penserà di me. Sono il padre sì, ma finora gli sono stato lontano. Certo, non per mia scelta, ma a chi posso imputare questa colpa se non a me stesso? Questa è la punizione per ciò che ho fatto. Non mi compiango, guardo la realtà con gli occhi aperti. Cerco di vivere non di sopravvivere, non mi compatisco.

Vi sembrerà strano, ma “è più facile delinquere che confessare ad una persona che vuoi bene quello che realmente fai”. Questo è il mio vero timore. Gli anni ed i mesi, per fortuna,passeranno. Il giorno del mio ritorno a casa si avvicinerà. Spero di avere ancora una casa. Non le mura, ma la casa con la C maiuscola. Il luogo dove tornare. Il luogo dove c’è qualcuno che ti aspetta. Ho paura di essere un estraneo tra le persone a me care. I miei auspici sono quelli più nobili. Non mi illudo. Non mi nascondo come fanno tanti detenuti dietro la fatidica frase “siamo vittime del sistema”. Se la mia attuale condizione è questa, la colpa é soltanto mia, delle mie debolezze, dei miei ideali irraggiungibili. Sto apprezzando le cose più semplici, le cose più vere. Ho rivalutato le cose di tutti i giorni, quelle più banali.

Il tempo per pensare in carcere è smisurato. Rivedi il film della tua vita. Le scene del tuo passato. Vorresti avere un telecomando per riportare tutto com’era una volta. Eliminare le cose brutte. Rivedere all’infinito i momenti belli. Magari si potesse. Sei meno bugiardo del solito. Ti vedi dentro e ti punti da solo il dito contro ricordando quello che hai fatto. Eppure la droga un tempo era una cosa bella per me. Una cosa che mi faceva stare bene. Dalla mia triste esperienza consiglio a tutti di starne alla larga. Ti spegne pian piano, fino ad ucciderti. Se non lo fa fisicamente, ci riesce di sicuro nell’animo. Ti senti ospite del tuo stesso corpo. Ti senti solo anche tra la gente.

Chissà se mia figlia un giorno capirà. Chissà se darà una possibilità ad un ex galeotto come me. Oggi, mi sento pronto ad abbracciare la mia croce. Oggi mi sento pronto a riabbracciare mia figlia. Di sicuro mi chiederà dove sono stato. Io le dirò a rinascere: stavolta per non morire più.