Riflessioni notturne in cella

 

 

Testo pervenuto da un detenuto di Cuneo, maggio 1998

 

Mi appoggio sui bordi metallici della finestra della cella ed osservo l’acqua piovana fluire con cadenza che pare inarrestabile. È mezzanotte e luci pallide filtrano dai cespugli che si stagliano all’orizzonte restituendomi un po’ di quel mistero, forse falso, di vitalità che pare venire da fuori e contrapporsi allo scenario di malinconica quiete che c’è qui dentro.

I pensieri più disparati si alternano nella mente e formano una strana alchimia cerebrale: avvertendo profondo il disagio della solitudine, inizio paradossalmente a dialogare con gli oggetti e a dar loro un nome, quasi volessi animarli, interrogarli, usarli.

In prigione, spesso, scattano strani meccanismi e senza accorgertene ti trovi a tu per tu con una realtà lontana dal tuo mondo. Due microcosmi, il tuo e quello del carcere, separati l’uno dall’altro, per una pluralità di motivi che tendono a sfilacciarsi anziché a congiungersi. Nei frangenti in cui più acuta è la separazione ci si sente come brandelli dai quali si riflettono sensazioni sconosciute, estranee, ambivalenti. In tali occasioni una sola, pesante sensazione modella lo spirito: la vuota, passiva inconcludenza.

Si ridiventa bambini senza tuttavia avere la loro spontaneità e ci si immerge in un senso di fallimento di uomini smarriti in un’ansia esistenziale che fa più male di qualunque dolore fisico. Superando la morsa dell’angoscia, decido allora di immettermi nella voglia inconscia di… percepire la voce del silenzio.

Che silenzio! Non lo ricordavo così intenso, così vivo, drammatico, eppure così personale, affascinante, liberatorio: intraducibili brividi mi entrano dentro le ossa fin quando una voce muta mi chiama dolcemente, ammaliandomi. È il silenzio che m’irretisce, che si rivolge a me, che si dona unicamente a me. È lui, il silenzio, che mi dice: "Dai alla fantasia le sembianze del sogno e ti accorgerai che, anche fra le scansioni monotone del tuo anonimo quotidiano, potrai trovare la molecola della serenità. Nessuno è davvero all’altezza dei propri grandi progetti e dunque il segreto di tutto è racchiuso e riconoscibile nelle "minimità" e spetta soltanto a te trasformare anche le cose piccole, insignificanti, in nutrimento per l’anima".

"Eh no" - lo interrompo io Come posso convivere senza rabbiosa amarezza con una condizione ingiusta, quando i presupposti che l’hanno determinata sono scaturiti da una menzogna insopportabile?"

"Purtroppo, se per te la giustizia si è dileguata per strade che il caso ha sbarrato, non c’ è altro da fare che accettare il verdetto di un destino poco generoso".

"Ma come?" lo incalzo io.

"Come un artista, cioè come colui che sa anche giocare con la propria esistenza, senza tuttavia necessariamente rinunciare a se stesso. Quanto oggi ti manca verrà ricompensato domani, e poi forse è vero che soltanto chi conosce la grande sofferenza può apprezzare anche la gioia più piccola".

"Balle, balle, sono solo balle e non è per nulla vero che la sofferenza rafforzi e abbellisca l’anima, al contrario, quando, soprattutto, la sofferenza è immeritata risulta fine a se stessa e va contro le più elementari regole umane, e dunque offende chi la subisce e lo rende misero e miserabile.

E poi, troppo spesso il domani non è così equo come dovrebbe, né si può cambiare la "fisicità" del tempo presente, e il mio, sciaguratamente, è un presente impresentabile".

" Ma no! Di fronte a quello che appare irrimediabile, che sembra privo di speranza, non rimane, per assurdo, che attaccarsi alla possibilità di sperare, con la certezza che bagliori improvvisi possono essere dietro l’angolo, noi non li scorgiamo solo perché non li sappiamo più vedere.

Per non diventare il capro espiatorio di noi stessi, non dobbiamo soffrire di malattie che non abbiamo, altrimenti finiamo per non accettare le nostre, quelle vere che ci ritroviamo addosso".

"Forse sono un po’ confuso, ma tu, tu signor silenzio che la sai lunga, insegnami ad accogliere il niente, scusa volevo dire il poco, come fosse un simbolo forte di vera comunicazione".

"Vedi, vedi, il solo fatto che tu mi chiedi quello che in te già esiste significa che la scintilla del divenire è in movimento. Perché tu sai che il carcere, da solo, non fa morire, si muore se si perde il desiderio di conoscenza, il senso di fluidità delle cose, la capacità di meravigliarsi e l’emozione del vivere".

"L’emozione? In realtà ogni uomo attinge le proprie pulsioni emotive da quello che nell’immediatezza sente, e tutto ciò che è staccato da lui, che non tocca i suoi sensi, lo percepisce a fatica, solo per approssimazione".

"Ma proprio tra le infinite capacità del pensiero c’è quella di raggiungere la perfezione concettuale, ricorrendo al messaggio dell’immaginazione, usando la libertà che solo il pensiero ha. Spetta pertanto a noi, a te, dare legittimità e prova di tutto questo, perché se il pensiero viene sostenuto almeno da un sussurro, da un soffio di voglia di vita, saprà ampliarsi nella creatività e nei sentimenti. Diversamente il carcere diventa quel limbo angoscioso dove vittime e aguzzini si contendono gli spazi nel più crudele dei giochi, dove tutti si scoprono innaturalmente prigionieri l’uno dell’altro, in una assurda contesa tra poveri".

"Ho capito, ho capito! Non devo far assopire quanto di buono e di bello ci può essere in me, perché ogni giorno che manco di vivere al meglio del mio potenziale io mortifico tutti gli eroi e i poeti che abitano dentro di me. Ciao signor silenzio, perché te ne vai proprio adesso?".

Eppure non mi sento più solo, solo come prima, adesso mi sento leggero, arricchito da qualcosa di piccolo, di appena percettibile. In questo luogo, dove ogni cosa si riduce all’essenziale, non si può fingere, qui il cuore viene messo a nudo perché le idee, le parole e i comportamenti si spogliano dalle maschere del formalismo. Il senso della solidarietà per i più deboli si sublima in un sentimento che non si manifesta alla superficie delle cose, ma invisibilmente avvolge quella superficie nella sua interezza. Forse tutto ciò può rappresentare un modo per sopravvivere, forse anche un’egoistica gratificazione per non sentirsi completamente inutili, forse ancora il tentativo di non isolarsi più di quanto non si è. Però l’amicizia solidale che aleggia da queste parti è una forma, forse ibrida, ma certo profonda di amore, che trasforma la nostra permanenza qui rivelandoci quello che siamo davvero.

Così reinventando, dissacrando un nostro pezzo di esistenza e qualche volta rendendoci migliori. Più di altrove, qui l’amicizia può apparire come un’arte non classificabile, con tutto il suo articolato equilibrio di confessioni, di riserbo, di ritegno e di responsabilità, e al riparo dal caos e dal rumore del mondo esterno la mettiamo continuamente alla prova ascoltando i problemi degli altri, nella ricerca consolatoria di aiuto reciproco, nell’offerta di attenzione. È vero allora che in carcere fra le vocalità, le gestualità, nelle mediocrità apparenti del mondo quotidiano possono scintillare le cose e con loro i sentimenti. Ma anche per chi sta fuori, la stessa ricchezza materiale che valore potrebbe avere, quale senso hanno una bella casa, un vestito nuovo, una ragazza al fianco, la stessa fisica libertà, se l’anima non si commuove?

Un’ultima considerazione: siccome il dolore ha memoria e intelligenza più marcata rispetto all’allegria, non sapendosi facilmente sottrarre al risucchio degli anni, ogni detenuto dovrebbe sforzarsi di considerare il periodo di reclusione come un tempo di allenamento dello spirito, perché altrimenti il domani lo potrebbe trovare con un cuore, più che inaridito, del tutto inanimato.