Restando dentro un carcere si viene allontanati dalle vere conseguenze del reato

 

di Corrado Ferioli

Casa circondariale di Rebibbia, giugno 2008

 

Partendo dalla concezione che uno Stato è formato da tutti i suoi cittadini e che si dota di leggi per tutelare la loro sicurezza, si arriva al reato e alla relativa pena. È naturale che lo stato monetizzi la pena, tra l’altro vi sono anche pene accessorie in moneta e risarcimenti civili, difficilissimi da pagare; se non ci fosse la monetizzazione della pena e del reato, il carcere sarebbe interamente occupato da ergastolani. Questa premessa può aver irritato chi legge o averlo sviato dal mio personale pensiero, che coincide molto con quanto scrive quella donna che ha perso il padre per mano criminale (Silvia Giralucci: “Si può diventare un ex-terrorista ma mai un ex-assassino”) e noterete che non ho volutamente usato il termine ‘terrorista’, perché un omicidio è sempre un omicidio e l’etichettarlo non ne riduce la gravità, né gli effetti terribili in chi subisce una perdita.

Personalmente sono carnefice e vittima al contempo; per molti anni mi hanno definito “mostro”, perché ho ucciso la mia famiglia e anche se sono consapevole che un giorno la mia pena finirà, anzi meglio, finirò di scontare la pena detentiva, rimarrò per tutta la vita un assassino e non potrò mai fare nulla per sostituire o modificare questa realtà.

Non sono d’accordo con chi dice che, avendo scontato la sua pena, tutto ha termine, perché restando dentro un carcere si viene allontanati dalle vere conseguenze del reato, si vive in una sorta di limbo dove se uno vuole cambia la propria mentalità, però può anche non cambiare nulla e spesso uscire peggiorato. Avrei preferito aver avuto meno anni di carcere ma più tempo da trascorrere con i familiari dei miei genitori, rendermi utile per loro, per le altre persone bisognose. Insomma meno carcere e più utilità sociale e accettare anche le parole dure, gli sguardi ostili, le sottili ferite silenziose, perché solo accettando tutto questo si espia veramente. In una cella, a centinaia di chilometri di distanza, è facile e comodo.

Una volta, in un documentario vidi che presso una tribù amazzonica gli omicidi non venivano né uccisi né incarcerati, dovevano farsi carico del mantenimento della famiglia della vittima per tutta la vita. Questo esempio serve per introdurre un altro argomento: quale ruolo può e deve svolgere la vittima nel percorso educativo di un reo? Se dev’essere solo vendetta allora è meglio lasciar perdere; se invece le si vuole riconoscere una parte educativa seria, importante, allora si avanzino proposte al Parlamento e al Governo. In questo però si deve anche sensibilizzare la Magistratura di Sorveglianza, spesso trincerata dietro mille cavilli e paure. Le leggi ci sono e si potrebbero già applicare in una prospettiva in un certo senso più riabilitante, ma provate a chiedere a un magistrato di firmare venti articoli 21 per andare a pulire un paio di strade in un quartiere: di venti persone ne rimangono sì e no 3, per le altre, anche se volenterose, c’è solo una cella, e allora dove va a finire la parte riabilitante ed educativa della pena?

Personalmente mi sono fatto veramente carico delle responsabilità morali e penali per i reati commessi, vorrei però dire che non sempre nel sistema penitenziario questa assunzione di responsabilità viene presa in considerazione, i criteri che si seguono per la “relazione” e la “valutazione” sono altri…