Il lavoro e la disciplina

 

di Vittorio Caserta, novembre 2004

 

Dopo tre anni e mezzo trascorsi all’Istituto a Custodia Attenuata di Eboli, con un residuo pena un paio d’anni, seguendo il programma riabilitativo che l’Istituto di Eboli porta avanti, finalmente approdavo all’articolo 21 (ammissione al lavoro esterno). Era vero anche il contratto di lavoro e me ne resi subito conto, non tanto per la busta paga che pure era molto magra, ma a causa della pesantezza del lavoro: asfaltista. Lavoravo cioè con una ditta che si occupava di riparazione delle strade e per giunta a notevole distanza dal carcere, il che significava che dovevo uscire dal carcere alle ore 06,00 del mattino per farvi rientro alle ore 21,30.

Il pranzo sul ciglio della strada, un panino e via. Si riprendeva a lavorare rapidamente. Si trattava di un lavoro pesantissimo che non avevo mai fatto e ogni mattina era una fatica infernale doversi tirare su dal letto, le ossa rotte, ma ne valeva la pena. La paga migliore consisteva in dosi massicce di fotoni di libertà… aria aperta, spazi liberi. E se c’era da sgobbare come un ciuccio, poco male, valeva la pena. La sera consumavo in carcere un pasto vero che i miei compagni di pena mi tenevano da parte. Mi addormentavo quasi col boccone in bocca, distrutto dal lavoro. In breve avevo recuperato unalinea” da fare invidia a tutte le diete!

Devo dire che fui tentato più volte di abbandonare… era troppa la fatica. Ma c’erano almeno un paio di ragioni che mi inducevano a resistere: intanto l’esecuzione della pena fuori dal carcere era per me una bella conquista da difendere: valicare il muro ogni mattina era ogni giorno unesperienza nuova ed entusiasmante. Anche l’esercizio con un lavoro, sia pure faticoso, alludeva ad una vita diversa rispetto al passato. Riuscire a reggere la fatica, pertanto, era per me una scommessa che al tempo stesso mi introduceva alle strade che volevo percorrere a fine pena.

Ma cera un ulteriore motivo, forse il più forte, che mi faceva stringere i denti e andare avanti anche quando, specialmente i primi giorni, non ce la facevo proprio a tirarmi su dal letto alle cinque del mattino. Questo motivo si chiamava Giusy, la ragazza che da un pezzo mi seguiva con sentimenti che si erano incrociati con i miei. Potevo vederla, sia pure di sfuggita al rientro la sera, quasi tutti i giorni. Lei conosceva i miei orari, sapeva quando arrivava l’autobus… mi attendeva paziente e poi mi accompagnava per un breve tratto di strada durante il quale mi dimenticavo anche tutta la stanchezza della giornata lavorata.

Erano tutti motivi che ritenevo validi, né avevo il tempo e la possibilità di pensare ad altro. La prigione, il lavoro, gli affetti e negli occhi il fine pena che prima o poi sarebbe arrivato restituendomi insieme la libertà e l’autonomia con qualche progettino di vita che pure andava facendosi strada nel mio pensiero. Insomma, sia pure al prezzo di una grande fatica, tutto sembrava andare per il meglio. Di trasgressioni non avevo la più pallida idea. Anche tutti i discorsi, i gruppi, i colloqui praticati nell’Istituto per tre anni mi ritornavano di fronte ad ogni sforzo che questo particolare lavoro mi richiedeva ogni giorno.

Ma tant’è… l’incidente si è prodotto allimprovviso, a seguito di una giornata di pioggia che ci ha impedito di lavorare. O meglio, abbiamo lavorato sulla strada per mezza giornata, poi la pioggia incalzante ha fermato le macchine e le persone. Gli altri operai sono tornati a casa, io avrei dovuto fare rientro in carcere nel primissimo pomeriggio come disposto dal mio programma trattamentale.

E invece no, mi parve un’occasione buona per starmene qualche ora in compagnia della mia ragazza presso la sua abitazione, unitamente alla sua famiglia. Mi sembrò che non ci fosse nulla di male in un simile comportamento. Non mi accompagnavo a gente di malaffare, non andavo a fare nulla di male a nessuno, neppure restavo per strada e, anzi, coltivavo un legame sano che mi era stato e mi è, spero mi sarà, di grande aiuto, anche in termini di una progettualità futura. Ma la mia ingenuità (o dabbenagine?) è stata grande giacché era scritto grosso come una casa sul programma che nel caso di interruzione del lavoro avrei dovuto fare immediato rientro in carcere.

A “tradirmi” ci pensò il mio datore di lavoro che comunicò tempestivamente al carcere l’interruzione della giornata lavorativa. Non si trattò di un tradimento vero e proprio giacché sapevo benissimo che lui era tenuto a farla tale comunicazione. In breve, ho fatto la mia “frittata” e non so ancora spiegarmi in base a quale ragionamento mi sono trattenuto fuori dal carcere per tutto il pomeriggio, facendo rientro alla solita ora. Non pensavo di ingannare nessuno e neppure me stesso.

Forse ha giocato la sua parte il fatto che mi intrattenevo con gente perbene per coltivare un rapporto affettivo autentico e sano. Un’ingenuità sciocca che nessuno mi avrebbe perdonato. E neppure io riesco a perdonarmela. Adesso è di nuovo carcere, il vecchio, pietroso carcere, senza più spazio per riprogettare la mia vita futura, anche perché con un precedente simile è difficile pensare che tutto possa riprendere.

Tuttavia, in questi giorni di richiusura, penso e ripenso se non poteva esserci un altro modo di punirmi. Mi sento con le gambe tagliate e forse sarebbe stato più utile un calcio negli stinchi, chissà, magari l’abolizione per un periodo di tutte le cose “premiali”, ma senza togliermi anche il lavoro. Forse cera lo spazio per una punizione del genere che sarebbe servita a me ed al carcere stesso molto di più che una chiusura netta e definitiva. Anche perché il lavoro, per i detenuti, è un… diritto che bisognerebbe forse salvaguardare. Specialmente in considerazione che è così difficile trovarne uno vero, almeno dalle nostre parti!

E mi chiedo anche se la persona che esce dal carcere per lavorare non deve essere null’altro che forza lavoro, quasi un automa senz’anima, senza sentimenti e senza cose umane alla pari con tutte le persone del mondo. Credo che forse queste cose andrebbero considerate, anche perché se è vero che tutte le persone devono avere una buona ragione per mettersi in piedi ogni mattina, ciò non può non valere anche per le persone in esecuzione penale.

Naturalmente non mi arrampico sugli specchi, cerco solo di capire se non vale la pena considerare anche gli altri aspetti umani quando una persona esce per il lavoro allesterno. Mi risulta che in alcuni carceri (Rebibbia) questo aspetto viene considerato, addirittura le persone in articolo 21 hanno un tempo quotidiano e addirittura escono sul fine settimana per coltivare gli affetti familiari.

Al di là del mio errore che resta tale, anche se forse poteva trovare altre forme di sanzione senza troncare tutto in modo così inesorabile, mi viene da pensare che il lavoro è una cosa importante, specialmente per chi come me deve sperimentarlo, ma non può essere la sola cosa importante nella vita di una persona. E non c’è dubbio che chi esce in articolo 21 per lavorare non è un somaro bensì una persona come tutte le altre persone. Per reggersi in piedi anche questa persona ha bisogno anche di altre cose che devono perciò trovare lo spazio per potersi esplicare, sia pure nella misura minima indispensabile date le condizioni particolari che accompagnano la persona in esecuzione penale.

Lo dico non per lamentarmi, ma perché sulla base del mio errore possa io e non solo io ricavarne qualche insegnamento utile, giacché è verosimile immaginare che… altri verranno a trovarsi in situazioni simili ed è molto brutto, quello sì, accordarsi col datore di lavoro per ritagliarsi una frazione di tempo umanamente indispensabile a coltivare i rapporti affettivi e familiari faticosamente ricuciti e alla base di ogni emancipazione possibile. Non c’è dubbio che io abbia fatto una sciocchezza, ma quante sciocchezze una persona nelle mie condizioni può fare?

Ci sarà pure qualche differenza tra chi facendo una sciocchezza non reca danno ad alcuno e neppure a se stesso e chi invece fa sciocchezze d’altra natura danneggiando sicuramente se stesso ed anche altri (basterebbe pensare alle ricadute, le droghe, i soldi… tutte cose che non mi sono passate neanche per lanticamera del cervello durante il periodo che mi ha visto fuori dal carcere). Mi resta lamarezza di avere commesso un errore per il quale è stata usata la medicina più radicale. Forse dietro le cose esemplari cè sempre il monito della deterrenza, ma io non credo in questo giacché se fosse vero allora la pena capitale dovrebbe dissuadere tutti i criminali e pare che così non sia.