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Primo premio nella categoria "Articoli giornalistici" ad Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti, per l'articolo: "Ex ladrone fornito di coscienza"
Premio "Emilio Vesce", promosso da Corecom Veneto in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Veneto - Edizione 2006-2007, dedicata al tema "Pluralismo e Qualità dell’informazione". Ornella Favero, direttore responsabile di "Ristretti Orizzonti", ha vinto il primo premio nella categoria "Articoli giornalistici" con l’articolo "Ex ladrone fornito di coscienza", pubblicato sulla rivista "Communitas". Ex ladrone fornito di coscienza Giornali e giornalisti dal carcere
di Ornella Favero
"Ex ladrone fornito di coscienza": ricordo che fu proprio questa definizione, così autoironica ed essenziale, data di sé da un detenuto in una delle prime riunioni della futura redazione di "Ristretti Orizzonti", a farmi capire come avrebbe dovuto essere questo giornale, che stava per nascere dentro al carcere di Padova. Doveva far capire prima di tutto che lì dentro ci stavano persone, e non reati, ladroni sì, ma capaci di ripensare in modo critico a se stessi e alla propria vita; doveva usare uno stile immediato, scarno, privo di fronzoli per raccontare una realtà così complessa; doveva tirar fuori dove possibile l’ironia, perché la galera è fatta anche di voglia di ridere un po’. Eppure, mettere insieme questi ingredienti, apparentemente così semplici, in un carcere non è affatto facile.
Chiedere ai ladroni di "scrivere con onestà"
"Scrivo, dunque esisto": in carcere è un po’ così, la scrittura ti fa sentire vivo, mantiene saldo un piccolo filo sottile che ti collega con il mondo fuori, ti permette di sfogare le tue ansie e le tue rabbie. Ma il rischio è tutto lì, in agguato sempre: usare il giornale come uno "sfogatoio", scrivere per buttar fuori il rancore e la frustrazione che la vita in carcere ti fa accumulare. E invece bisogna essere consapevoli che i "racconti di vita" suscitano interesse ed emozione solo se riescono a trasmettere la sensazione della sincerità senza ricerca di abbellimenti: i "santini" non piacciono a nessuno, e tanto meno l’impressione che il "colpevole" si faccia vittima. E questa è stata davvero una battaglia dura, per spiegare che si può essere vittime davvero, e a volte anche in carcere lo si è, soprattutto per le condizioni in cui ti costringono a vivere, ben al di là della pena che ti è stata inflitta, ma bisogna imparare a comunicare sfrondando le proprie parole da ogni vittimismo, da ogni tentazione di prendersela con il mondo intero, da ogni smania di rivalsa nei confronti della società. Meglio uno stile asciutto e poco urlato, è molto più efficace ed evita la reazione tipica di chi, se ti lamenti, ti risponde automaticamente "potevate pensarci prima". Insomma, la più grande fatica l’ho fatta a insegnare ai ladroni una "scrittura onesta", sobria, pulita. Il primo passo è stato di proibire ogni ringraziamento: sì, perché gli articoli che ricevevo erano pieni di grazie a tutti, dato che il carcere ti insegna un po’ questo, che non hai diritti e, se qualcosa ti viene dato, devi sempre ringraziare la generosità di qualcuno, che sia il direttore, o il magistrato, o l’educatore. Il secondo passo è stato di capire insieme che, se tra le righe del racconto personale si possono riconoscere problemi comuni, condivisi da tanti, è più facile che il lettore sia indotto a riflettere, a porsi domande, a sentirsi chiamato direttamente in causa e a non potersi sottrarre a un confronto vero, profondo, sincero.. Il terzo passo è stato di ripulire, sfrondare, ridurre all’osso i testi. Perché in galera succede una cosa strana: che tanti "assorbono" e fanno proprio il linguaggio dei giudici e degli avvocati, come a dire che "dato che qualcuno mi ha condannato usando quel linguaggio, allora se me ne impadronisco un po’ forse anch’io avrò più potere e più considerazione". La conseguenza? Testi complessi, illeggibili, testi da ripulire come a volte verrebbe voglia di fare anche con quelli che scrivono gli uomini di legge…
Un reato, mille persone diverse
Quando mi guardo intorno nelle riunioni di redazione vedo una umanità che mai, nella mia vita da "regolare", avrei potuto conoscere, e mi dico ogni volta che a voler rinchiudere e basta le persone che hanno commesso reati si perde tanto, si perde la possibilità, prima di tutto, di capire che storie, che vite, che disastri ci sono dietro un reato, e poi ancora di rendersi conto che la divisione tra il bene e il male non è così semplice, come ci piacerebbe. Mi ricordo che la prima volta che venne in redazione il magistrato di sorveglianza, quello che si occupa dell’esecuzione delle pene, e che quindi ha a che fare ogni giorno con i "delinquenti" e i loro fascicoli personali, a volte pesanti come macigni per i continui dentro e fuori dal carcere, una delle prime cose che disse di se stesso è di essere abbastanza certo che mai avrebbe potuto fare il rapinatore, ma di non sentirsi altrettanto sicuro rispetto alla possibilità di commettere un omicidio. Ecco, io in questi anni ho imparato esattamente questo, che tanti di quelli, che hanno ammazzato qualcuno, "prima" conducevano vite normali e si sentivano lontanissimi da qualsiasi rischio. Qualcosa poi nella loro vita è degenerato, qualcosa non ha funzionato, il confine tra il bene e il male è diventato più sottile, la ragione è stata schiacciata, ma sono persone, persone maledettamente simili a noi "normali". E questa è una delle prime cose che abbiamo cercato di raccontare con questo giornale. Ma la fatica è stata tanta. C’è prima di tutto il pudore nello scoprire parti di sé che si vorrebbe piuttosto cancellare, e poi il desiderio di dimenticare, la paura di mettersi a nudo, l’ansia di fare ancora del male, questa volta con le parole. Questo problema in redazione lo abbiamo affrontato fino a scarnificarlo, a vederne le più piccole sfumature, a star male per quanto le persone sono state spietate con se stesse. La discussione è partita da un progetto, che ha portato in tante scuole di Padova "il carcere" e i suoi abitanti, e poi ha fatto entrare in galera tanti studenti. E la prima domanda, inevitabilmente, è sempre quella: "Ma tu, perché sei dentro?". Vale la pena, allora, cercare di spiegare ai ragazzi che forse è bene pazientare, forse è bene prima cercare di capire qualcosa di quella persona, e poi magari sapere il suo reato. Con i detenuti, invece, la discussione è sempre stata per convincerli di quanto pesa in positivo, nel cercare di avvicinare il mondo "fuori" a quello "dentro", la capacità che hanno le persone di raccontarsi, di parlare di sé, di scrivere le proprie storie. È una sofferenza, credo indicibile, scrivere per esempio un pezzo che si intitola "Nella testa di un uomo che ha ucciso", e spiegare che cosa si è scatenato nella propria mente e nel proprio cuore dopo quell’atto, ma un detenuto l’ha fatto, e io credo che con quel gesto ha permesso a tanti di capire che la categoria "mostro" forse è meglio bandirla dal nostro vocabolario.
Ma si può ridere della galera?
In carcere ho pensato spesso che se ognuno di noi ha almeno un ricordo di un momento in cui è stata l’ironia a "salvargli la vita", in galera l’ironia è ancor di più un’ancora di salvezza poderosa, perché tiene viva la capacità di essere uomini a tutti gli effetti, quindi anche con una gamma di sensazioni e di reazioni, che vanno dalla tristezza alla disperazione, alla voglia di sorridere, e anche di ridere. Il diritto di ridere, magari soprattutto di se stessi, quello ho pensato che va difeso ad ogni costo, anche contro i tanti che ritengono che chi ha fatto soffrire gli altri deve a sua volta ricevere solo sofferenza. In fondo, una società "generosa" verso chi ha commesso il male forse disarmerebbe più di tutti i castighi del mondo: io a questo un po’ ci credo, e da quando "frequento" le galere mi esercito, anche fuori, a ridurre il mio bisogno di "fargliela pagare" a chi mi fa star male o mi tratta in un modo che ritengo ingiusto, ed è un po’, questo, l’esercizio a cui sono chiamati tutti i nostri lettori. Non mi piace quindi l’idea del carcere raccontato o fotografato esclusivamente come un concentrato di tutti i disagi e i disastri umani, perché la disperazione certo è una componente della vita ma non l’unica né la più rappresentativa, neppure in galera. Eppure, c’è paura a usare l’ironia e la risata sul carcere perché vale quello che mi ha detto una detenuta una volta, che "se si fa vedere che ridiamo come persone normali, fuori poi pensano che stiamo bene, che non siamo così malridotte, che non ce la passiamo poi così male". E invece bisogna avere il coraggio di dire che non è un buon servizio alla verità far vedere che le persone qui sono solo persone che soffrono, e la ricchezza di vita che c’è "dentro" dovrebbe emergere sempre, qualunque strumento si usi per rappresentare il carcere, foto, film, un libro, un giornale.
Egregio signor ladro
"Egregio signor ladro, permettimi di darti del tu, anche perché dopo quattro visite che tu hai fatto a casa mia sei quasi uno di famiglia". Comincia così lo "strano" carteggio, pubblicato sul nostro giornale, che ha due protagonisti: un cittadino onesto, o meglio, come preferisce definirsi lui, un "cittadino incensurato" la cui casa è stata più volte visitata dai ladri, e un detenuto della nostra redazione che di furti "se ne intende". È una corrispondenza nata per caso, un giorno che il cittadino incensurato è approdato nel nostro sito, e gli è venuta la curiosità di scriverci, ma è stata anche, per la nostra redazione, la dimostrazione che se nascesse davvero un dialogo franco e aperto tra il mondo "fuori" e quello "dentro", tutti ne avrebbero da guadagnare, gli onesti e i ladroni, i cittadini "regolari" e quelli che hanno scelto l’illegalità. Abbiamo allora proseguito su questa strada, di non "parlarci addosso" ma di osare rivolgerci anche a quei cittadini "normali" poco propensi, come invece sono i volontari, ad essere indulgenti con chi è finito in carcere. Sono lettori severi, come quello che ci ha scritto: "Nel vostro sito ho trovato anche articoli di detenuti condannati per avere ucciso delle persone. Da una parte penso che non dovreste permettergli di parlare pubblicamente, però penso anche che scrivono cose importanti, per se stessi e per chi li legge. A me questa cosa mi ha fatto pensare, mettendo in crisi l’opinione che avevo del carcere". Ecco, questo per noi è stato l’esempio più chiaro del senso che volevamo dare a un giornale dal carcere: far venire dei dubbi alle persone, far capire che le semplificazioni, come quella di pensare che ci siano davvero i buoni e i cattivi, e i cattivi siano, appunto, quelli che stanno rinchiusi, forse ci aiutano a vivere più tranquilli, ma senz’altro rendono la nostra vita più povera e più noiosa. La galera, paradossalmente, insegna a vedere la complessità della realtà, proprio la stessa che, invece, la televisione ammazza, semplificando alla grande. Quella di imparare a parlare davvero con tutti è diventata un po’ la nostra grande ambizione, a tal punto che ci sono detenuti che "investono" sul loro futuro fuori spendendo giorni di permessi premio per andare nelle scuole a confrontarsi con i ragazzi.. E i ragazzi spesso, con l’estremismo tipico dell’età, passano da posizioni "feroci" nei confronti di chi ha commesso reati a una simpatia fin troppo indulgente dopo che hanno conosciuto qualche "delinquente" direttamente. A tal punto che, visto che il senso critico resta l’elemento fondamentale del nostro lavoro, abbiamo dovuto correre ai ripari, e un detenuto si è preso così l’incarico di scrivere un articolo dal titolo significativo: "Perché non siamo ladri di marmellata".
Un percorso a ostacoli dalla galera alla libertà
Io mi pongo ancora sempre il problema di come si può trasmettere davvero qualcosa di diverso sul carcere, intendo dire trasmettere l’idea della "normalità" della gran parte delle persone che ci stanno dentro: non del carcere, che non ha nulla di normale, ma la normalità intesa come persone che ci assomigliano, che non sono molto diverse da noi che stiamo fuori. Ma c’è un rischio, che riguarda ugualmente la difficoltà di comunicare cos’è il carcere, ed è quello che corrono tanti articoli e filmati dove, mostrando solo le attività più interessanti, e ce ne sono naturalmente, si finisce per fare un "santino" di tutte le iniziative ben gestite, le esperienze innovative, gli spettacoli teatrali organizzati dentro. Allora se si fa vedere solo questo, poi fuori non ci si rende conto di cosa è davvero la privazione della libertà, e anzi tanti cominciano a pensare: "Però, non stanno mica molto peggio di noi!". Ricordo per esempio che in una scuola, a un incontro con i ragazzi, i detenuti hanno faticato a spiegare che poter guardare la televisione 24 ore su 24 non significa stare bene. Non è facile far capire che la privazione della libertà è fatta di un milione di piccole privazioni: non puoi telefonare al tuo amico, non puoi andare a mangiare una pizza, non puoi farti la doccia se ne hai voglia. Io se dovessi ritrovare il momento in cui, dopo anni che entro in carcere da volontaria, ho capito più pesantemente cos’è il carcere, dico sempre che è quando riaccompagno qualche detenuto che rientra da una uscita in permesso, magari in una sera di estate, e mentre fuori la vita continua, le piazze sono piene, c’è musica, si respira un’aria più libera, vedi invece le persone inghiottite da questo posto grigio e deprimente. Un’altra difficoltà è la naturale "autocensura" dei detenuti quando scrivono per il giornale: nessun rappresentante dell’istituzione, per esempio, ha mai fatto una lettura "preventiva" dei nostri articoli, ma il rischio è che le persone si autocensurino per non dispiacere al direttore, al magistrato di sorveglianza e così via. Ho dovuto lavorare molto su questa questione, per la quale non ci sono ricette semplici: bisogna imparare che, comunque, se si usa sempre una scrittura sobria, "raffreddando" il più possibile i toni, e cercando di riportare su ogni argomento tante voci diverse, senza "innamorarsi" di una sola voce, è difficile prestare il fianco a critiche. Per ultimo, bisogna cercare di trasmettere alle persone detenute l’idea che discutere, leggere, approfondire temi importanti, che hanno a che fare con la vita in carcere, il rapporto con la famiglia, le difficoltà del reinserimento, significa prendersi in mano il proprio destino, e non affidarlo sempre agli altri, che a volte hanno la faccia e la buona volontà del volontariato, a volte invece hanno l’indifferenza e la mancanza di interesse di tanta parte della società. Io credo che una persona informata, abituata a parlare dei propri problemi, capace di discutere e di esercitare un po’ di capacità critica sia una persona che ha qualche opportunità in più di non essere esclusa dalla società. Per questo, le esperienze di giornali realizzati da detenuti stanno crescendo e mettendosi insieme in una "Federazione dell’informazione dal carcere e sul carcere" che ha la voglia e la passione per rispondere colpo su colpo ai luoghi comuni e alle tante banalità sulla galera dell’informazione "grande", quella dei giornali e della televisione che tante volte si esercitano a costruire mostri e a descrivere il mondo "dentro" come se fosse totalmente privo di sfumature.
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