Associazione Arcobaleno

 

Torino, Carcere Le Vallette, Comunità Arcobaleno

Ma è davvero possibile un "non carcere" dentro al carcere?

 

(Realizzata nel mese di settembre 2001)

 

A cura di Ornella Favero e Paola Soligon

 

E’ difficile anche solo immaginare che dentro un carcere possa esistere una specie di isola, non diciamo "felice", sarebbe troppo, ma certo più umana e vivibile di qualsiasi luogo che abbia a che fare con la detenzione. A Torino però succede, succede che dentro l’area delle Vallette c’è la Comunità Arcobaleno, una struttura carceraria a custodia attenuata per tossicodipendenti che cerca di assomigliare sempre meno a un carcere. L’abbiamo visitata, è uno spazio davvero "a misura d’uomo", e abbiamo parlato con chi ci lavora, per capire se un esperimento così particolare può funzionare, se può essere allargato ad altre realtà, se ha un senso investire tante energie in una complessa esperienza di "non carcere", "ristretta" dentro un grande Istituto di pena.

 

Come nasce l’esperienza di "Arcobaleno"?

Don Paolo Fini (Responsabile dell’Associazione "Arcobaleno" e presidente del CEIS di Torino)

È iniziata in un blocco interno al carcere, nel ‘92, quando questa sezione è stata adibita ad accogliere persone che avevano problemi di tossicodipendenza, e già allora si era riusciti a creare un minimo di vita comune, separando chi aveva reati di grosso spaccio da chi aveva usato sostanze per necessità personale. Poi il carcere mi ha contattato ed abbiamo preparato un progetto che avesse una logica, nell’intendere il tempo della pena non come un parcheggio ma come un periodo anche di sviluppo della persona e di evoluzione verso il reinserimento.

Con l’esperienza della Comunità terapeutica Arcobaleno abbiamo creato una serie di sezioni all’interno di questo padiglione, che era autonomo e quindi permetteva di avere degli spazi sempre aperti. La logica era quella di puntare a un certo modo di vivere insieme, di relazionarsi, di dare una struttura stabile al tempo, alle attività, ai gruppi, che però fosse adatta a diversi tipi di pena.

Per alcuni detenuti il carcere rappresentava l’occasione del primo incontro con operatori nel campo delle tossicodipendenze, per altri un momento di grossa crisi nel percorso di tossicodipendenza, o ancora un punto di arrivo di continue recidive, accompagnate spesso anche da più fallimenti nel tentativo di uscire dalla dipendenza in strutture sia pubbliche che del privato sociale. Insomma, la diversità dei soggetti, la diversità delle pene, voleva dire che "Arcobaleno" non poteva pensare in modo univoco, ma doveva essere una struttura che in qualsiasi momento poteva offrire un "aggancio" alla persona, per poter vivere la carcerazione in maniera diversa: un inizio di percorso, con l’idea di collegarsi, eventualmente, con le strutture esterne, ma in modo ragionato, in modo una volta tanto coordinato.

"Arcobaleno" all’interno del carcere è strutturata secondo questo schema: una sezione di orientamento, una preaccoglienza, un’accoglienza e una Comunità terapeutica, che è la parte più avanzata del progetto.

Noi ci siamo subito resi conto però che, comunque, il programma della struttura a custodia attenuata che stava nascendo non poteva essere chiuso in carcere: doveva avere una sua conclusione anche all’esterno, altrimenti si rischiava di non avere una prospettiva organica.

Così abbiamo creato l’Associazione e abbiamo acquisito, grazie al contributo degli Enti Locali, delle banche, di buona parte della società torinese, una struttura all’esterno e l’abbiamo fatta diventare la struttura di reinserimento "Arcobaleno", una struttura specifica per i ragazzi e le ragazze che provengono dalla sezione a custodia attenuata "Arcobaleno".

 

Il detenuto tossicodipendente inizia il suo percorso sempre dalla sezione di orientamento, anche se all’esterno era già seguito da una Comunità?

Don Paolo Fini

In genere all’inizio si cerca di inserire le persone nella sezione di orientamento. Per chi arriva dall’esterno ed era già seguito da operatori c’è un trattamento magari più breve, però che gli permette di "incassare il colpo" della detenzione e di rendersi conto che si trova, sì, in una struttura di trattamento, ma sempre del settore penitenziario. Altrimenti si crea una dinamica falsata, perché la persona passa dalla Comunità esterna a questa Comunità penitenziaria quasi senza la consapevolezza che questo è un carcere. Ma molto dipende anche dal percorso che ha interrotto: c’è infatti qui dentro questa attenzione a non interrompere il ciclo, virtuoso, che magari questa persona ha iniziato fuori e poi ha dovuto abbandonare per l’arrivo di condanne definitive. Ben diversa, invece, è la situazione se la persona ha commesso dei reati, interrompendo in tal modo il programma.

L’orientamento ha una finalità ben precisa, la preaccoglienza ne ha una propria e così l’accoglienza e la Comunità terapeutica. Perché è molto importante, nello sviluppo di questo cammino, avere ben chiari quelli che sono gli obiettivi, sia quelli a breve - medio termine, sia quelli a lungo termine. Tutto questo comporta anche l’allestimento di infrastrutture e di attività che siano adatte a quel tipo di situazione. Ad esempio, in una sezione di orientamento non si possono pensare dei corsi a lungo termine, ma delle iniziative ristrette nell’arco di tre o quattro mesi.

Il problema era che dovevamo interpretare due cose: la formazione della personalità, quindi tutto quello che è l’aspetto relazionale, l’aspetto clinico ed evolutivo e, d’altra parte, anche le attività formative. Queste due cose dovevano essere compenetrate. E questo è stato il progetto che poi abbiamo presentato al Ministero. Noi pensiamo che tutta questa offerta formativa, se non è integrata da un sistema relazionale, sociale, famigliare, fondamentalmente diventa dispersiva e controproducente. Ovviamente, tutto questo ha comportato rivisitazioni continue del programma.

Questa attenzione particolare per la famiglia si traduce in un lavoro di gruppi di auto-aiuto per i famigliari, fatto all’esterno, più tutta una serie di iniziative con i genitori all’interno del carcere. Bisogna pensare quindi alla famiglia d’origine, alle abilità lavorative, allo sviluppo di queste capacità, e al distacco dagli ambienti criminali. Infine, al problema del superamento della dipendenza da sostanze, e quindi allo sviluppo della personalità.

Tutto questo è il nostro lavoro, che viene già preparato in carcere, ma che poi continua all’esterno, in modo metodologicamente organico, ed ecco perché c’è un grande rapporto tra gli operatori esterni e gli operatori interni.

 

Il vostro progetto di sezione a Custodia Attenuata è accessibile per tutti i tossicodipendenti che entrano in carcere?

Pietro Buffa (Direttore delle Vallette)

A Torino si è creato un sistema, che è nato facendo un percorso a ritroso, nel senso che è nato prima quello che dovrebbe essere un secondo livello, per quel che riguarda il trattamento dei tossicodipendenti, cioè una tappa avanzata rispetto ad un percorso, e poi in un momento successivo è partito il primo livello.

Ora abbiamo un percorso modulare, in questo primo livello. Una sezione che si occupa esclusivamente di scalare il metadone, quindi gestita dal Ser.T. in termini clinici terapeutici. A questo, abbiamo aggiunto una serie di apporti nostri, del carcere, che collabora con il Ser.T.. Poi ci sono altre due sezioni, la decima e l’undicesima del padiglione C. Alla decima si va d’ufficio: se tu sei tossicodipendente, vai alla decima. Lì inizi una serie di contatti, per stabilire "cosa vuoi fare della vita". All’undicesima si va volontariamente, ma non c’è necessariamente un rapporto con "Arcobaleno": c’è una scelta minima, anche strumentale, che la persona fa rispetto alla propria tossicodipendenza. Dentro l’undicesima sezione un gruppo di operatori lavora con questi ragazzi e, a un certo punto, propone, o stabilisce con loro e con il Ser.T., un possibile percorso interno ed esterno al carcere.

Se dobbiamo quantificare, ad oggi, la presenza di detenuti in trattamento concreto in "Arcobaleno" vediamo che abbiamo circa 80 detenuti, mentre tra il trattamento a scalare, la decima e l’undicesima sezione, abbiamo un’altra ottantina di persone. Quindi, oggi, noi abbiamo in tutto l’istituto circa 1.200 persone, con una percentuale di tossicodipendenti di circa il 30%, cioè 400, di cui 160 sono in trattamento attivo.

"Arcobaleno" nel suo insieme è importante perché ha dimostrato che si può fare il carcere in un altro modo. Lo ha dimostrato dentro questa sede, lo ha dimostrato anche grazie a del personale che non veniva dalla luna, ma veniva da questa situazione e che, anche culturalmente, ha rotto un certo equilibrio.

 

Ci sono degli stranieri inseriti nel vostro programma di custodia attenuata?

Pietro Buffa

Il discorso degli stranieri è drammatico, perché noi non abbiamo, eccetto che per il metadone a scalare, la possibilità normativa di intervenire, se non per la parte strettamente terapeutica.

Questo complica molto le cose, nella pratica quotidiana: perciò io dicevo che siamo ad un livello drammatico anche perché, oltretutto, io mi sento di sbilanciarmi a dire che, come operatore penitenziario, della tossicodipendenza dello straniero, del suo vissuto, delle sue prospettive all’interno del carcere o fuori dal carcere, io non so quasi nulla. Non so che riflesso ha, sulla sua persona, il fatto di rientrare o meno in patria; non so nulla neppure su tutto il capitolo, annoso e grave, della sieropositività di uno straniero tossicodipendente.

 

Che cosa è cambiato, con gli anni, nella Comunità Arcobaleno?

Pietro Buffa

Di recente abbiamo avuto una fase di notevole ripensamento: noi di "Arcobaleno" almeno, perché le Comunità terapeutiche invece si difendono strenuamente da ogni intervento esterno.

Nell’ultimo anno, anche a costo di sacrifici considerevoli, perché alcuni operatori hanno abbandonato il programma, abbiamo fatto un discorso molto più allargato, siamo passati dall’avere pochi operatori civili a tre volte tanto, e questo ha scatenato all’inizio delle incomprensioni tra gli operatori di polizia e gli operatori civili.

Ora stiamo riflettendo molto sul problema del trattamento al femminile, che noi abbiamo già in Arcobaleno, ma di cui percepiamo la marginalità, rispetto alla dimensione tradizionale del femminile.

La questione degli stranieri, invece, è stata affrontata in modo finora "sporadico": quando andiamo a vedere la casistica scopriamo che sono solo casi isolati, che non è il sistema. Io penso che, come tutte le cose umane, ci debba essere un processo di maturazione, che parta da discussioni come queste, per esempio, da sfide anche, se vogliamo, come questa. Poi, un po’ per volta, per strade spesso contorte, assolutamente non lineari, si riesce a far maturare le proposte.

Sarà un problema che noi ci porremo, ma non bisogna dimenticare un altro fatto: qui stiamo parlando di un grosso carcere metropolitano. Allora, gli stranieri in un Circondariale metropolitano come questo sono considerati un problema, qui ci si rapporta a loro come ad un problema. È un problema che noi abbiamo presente, in questo momento, oggi però, se dovessi portarvi dei risultati, non potrei farlo. Certo che, se noi potessimo, ma ipotizzo, consolidare questa nuova fase di "Arcobaleno" in senso di più disponibilità, di maggiore apertura, etc.; se il primo livello continua a crescere ed a crescere in un certo modo; se il rapporto con il Ser.T. si consolida; se i finanziamenti continuano ad essere di un certo tipo, anche questo è importante; se si riesce a dimostrare sempre di più al personale che un’attività di tipo trattamentale in realtà ha una ricaduta quotidiana sul proprio vissuto professionale; se si riescono a fare tutte queste cose è chiaro che si potrà, un giorno, distaccare una parte di risorse, di pensiero, culturali, fisiche, ma anche finanziarie, per cominciare a mettere in campo un serio dibattito, per esempio con il Ser.T. di zona, sugli stranieri tossicodipendenti.

 

Ci interessava conoscere anche il tipo di formazione della polizia penitenziaria che opera in una struttura come "Arcobaleno"

Giorgio Serre (Responsabile della sicurezza per la Custodia Attenuata)

Sono stati fatti dei seminari, dei corsi di formazione curati direttamente dal Provveditorato e abbiamo in progetto di farne altri. La gente che ha intenzione di lavorare qui deve affrontare un colloquio, condotto da noi e dalla responsabile terapeutica, per vedere le motivazioni che sono alla base di questa scelta. Quindi, in Custodia Attenuata si lavora sulla base di una scelta volontaria.

 

Marisa Brigantini (Responsabile terapeutica della Comunità Arcobaleno)

Facciamo una formazione ragionando sui casi, parlando degli interventi già messi in atto in situazioni particolari e trovando i punti di forza e di debolezza rispetto al singolo caso e sulle dinamiche del gruppo che si sta formando, per cui anche da un punto di vista relazionale. Quello che serve è che ci sia un’omogeneità della filosofia del programma, perché il programma è unico, ma che ci sia una specificità poi nell’intervento rispetto ai vari settori in cui sono inseriti i ragazzi.

 

Come funziona poi l’affidamento all’esterno, può avvenire cioè sia in una Comunità, sia in questa struttura di "Arcobaleno" che si occupa del reinserimento?

Marisa Brigantini

La Casa di rientro, anche con l’affidamento, funziona per le persone che hanno fatto qui all’interno la fase d’orientamento, l’accoglienza e la Comunità, quindi le tre fasi del programma. In questa Casa ci sono degli operatori che lavorano stabilmente e i ragazzi della Comunità Arcobaleno hanno la possibilità di chiedere dei permessi per andare in questa struttura, per conoscere il luogo in cui andranno al termine della pena, a fare il reinserimento.

Per cui, c’è questa integrazione: gli operatori della Casa di rientro vengono a fare conoscenza con i ragazzi, qui alla Custodia Attenuata, ed i ragazzi vanno in permesso alla Casa di rientro. Ma la Casa di rientro è anche il luogo dove le famiglie si ritrovano per i gruppi di auto-aiuto.

 

Quindi i famigliari sono coinvolti nel percorso di reinserimento dei ragazzi: in quale modo avviene questo?

Albino Vicario (Responsabile Comunità terapeutica "Arcobaleno")

I famigliari sono coinvolti prima di tutto con i gruppi di auto-aiuto, e quindi in tutto un lavoro per agevolare l’uscita dal sommerso, anche a livello di vergogna personale.

Ci sono anche persone con un fine pena lontano, nella Custodia Attenuata, e che prospettive hanno?

Albino Vicario: Ne abbiamo una che ha il fine pena nel 2012 e la sua prospettiva, secondo me, è quella di rimanere qui fino a quando non sarà nei termini per avere una misura alternativa alla detenzione. Nel programma terapeutico, impostato come Comunità terapeutica, ad un certo punto c’è una partecipazione attiva del residente. Non è il classico metodo, che vede da una parte il terapeuta e dall’altra il cliente, da una parte il medico e dall’altra il paziente, da una parte l’agente e dall’altra il detenuto, ma esiste una dinamica di auto-aiuto all’interno per cui, man mano che la persona va avanti nel programma, assume delle responsabilità, anche rivolte ai compagni di programma. Come è possibile, ad esempio, prevedere lo stare in Comunità per una persona con il fine pena così lungo? È possibile appunto perché, procedendo nel suo percorso, assume delle responsabilità all’interno della Comunità terapeutica. Per cui esiste la figura del capogruppo, ad esempio, che è una persona che collabora con l’operatore terapeutico.

 

Avendo la possibilità di rimandare i ragazzi nelle sezioni "normali", se qualcosa non funziona nel suo comportamento in comunità, con loro riuscite ugualmente ad avere un rapporto sempre di franchezza e di fiducia?

Albino Vicario

In una Comunità terapeutica esistono degli aspetti, legati alla gestione, al controllo sociale della struttura, e poi esistono altri ambiti, in cui c’è una condivisione: questi ambiti devono essere sempre ben distinti e separati. La figura dell’educatore, dell’operatore, in certi ambiti assume anche un ruolo normativo; in altri assume invece un ruolo di agevolazione, di strumento per permettere l’espressione, il dialogo, la comunicazione nel gruppo.

La Comunità terapeutica deve, in qualche modo, ridurre le separazioni. Il concetto base della Comunità terapeutica è proprio il fatto che la persona può passare, man mano che va avanti nel programma, da una situazione di assistito, di "malato", di disagiato, a una partecipazione attiva nel trattamento dei compagni, di chi gli sta di fianco. Questo è il primo elemento importante, il secondo è che la Comunità va vissuta indipendentemente dai ruoli che uno ha: c’è una partecipazione, un investimento, agli operatori che lavorano in Comunità si chiede molto, si chiede di investire con gli altri, si chiede di condividere. Non gli si chiede di analizzare, di diagnosticare: anche, in parte, ma non solo.

 

La decisione di escludere dalla Comunità una persona che ha trasgredito alle regole, di rimandarla in una sezione normale, è una decisione difficile. Se questa persona è inserita in un programma terapeutico, questo programma dovrebbe "mettere in conto" anche delle possibili ricadute, senza che per questo si annulli tutto quello che è stato costruito in precedenza.

Albino Vicario

Condivido solo in parte, perché la ricaduta, in sé, è un sintomo, non è il problema. All’interno di un processo di cambiamento, che è un processo terapeutico, la ricaduta a volte risulta essere una risorsa importante, perché magari dà adito a delle riflessioni e a delle decisioni ulteriori, anche rivolte al cambiamento. In altri casi invece la ricaduta è, semplicemente, un evento che avviene volutamente. Per questo, poi, dico che ogni persona fa un caso a sé ed è appunto questa la sfida della Comunità terapeutica: da una parte, cercare di creare un progetto di trattamento che può essere, più o meno, indicato per tutti, dall’altra individualizzare questo trattamento.

 

Una Comunità terapeutica, attiva all’interno di una struttura totale come il carcere, può sollevare qualche perplessità, così come la solleva il fatto di tenere i tossicodipendenti tutti assieme, in una sezione riservata a loro.

Pietro Buffa

Certo, una delle critiche che può riguardare il programma è che è molto "comportamentista" perché viene fatto da persone con una formazione psicoanalitica. Siamo tutti d’accordo che esistono diversi metodi per intervenire sulle tossicodipendenze e che ogni tossicodipendente è una storia a sé, quindi non esiste un metodo ideale, ma in questo carcere, su dieci persone che entrano ogni giorno, so che tre sono tossicodipendenti e ho due soluzioni: o perseguire una certa linea, che può essere criticabile o migliorabile, oppure accettare che entrino questi tossicodipendenti e lasciarli dentro fino alla fine, con tutto quello che questo comporta.

Oggi, come direttore di questo carcere, posso dire di avere una rete che interviene sulle tossicodipendenze: con dei limiti, con tutto quello che si vuole, ma si tratta di un intervento reale. Tantissime altre strutture non hanno questa rete.

 

Avete fatto delle ricerche per verificare i risultati del vostro programma terapeutico, per accertarvi di come stanno le persone che l’hanno portato a termine ad un anno dall’uscita dal carcere?

Pietro Buffa

Ci risulta che, ad un anno dalla scarcerazione, il 60% di coloro che hanno terminato il programma non sono recidivi. Certo, non è un dato strettamente scientifico, perché non possiamo attestare con esattezza se una persona ha commesso qualche reato, possiamo solo rilevare la sua situazione di non recidiva penale, quando non esistono denunce a suo carico, e la non ricaduta nell’uso della sostanza, per quello che si può desumere.

 

 

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