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Raccontare il carcere con l’arma del surreale Sergio Staino in un incontro in redazione ci ricorda, commentando le vignette di Graziano Scialpi, che “occorre una grossa maturazione interna per arrivare a fare della satira e dell’ironia, soprattutto quando si toccano cose che ti fanno soffrire, in cui sei dentro, in cui sei partecipe e sei partecipe come vittima”
(Incontro avvenuto nel mese di aprile 2006)
Quando abbiamo per la prima volta incontrato Sergio Staino e gli abbiamo messo in mano una copia di Ristretti, non immaginavamo di trovare la settimana dopo un paginone de “L’Unità” con un nostro articolo sul sesso negato in carcere, “rivisitato” e trasformato in fantastiche vignette. Da lì è iniziata una amicizia con il padre di “Bobo” (il protagonista delle strisce di Staino), che ha deciso di adottare anche “Dado”, il nostro carcerato in vignette. Recentemente Sergio Staino è venuto a trovarci in redazione, e lì lo abbiamo sottoposto a una lunga intervista.
Noi ci chiedevamo, visto che la tua comunicazione critica è fatta attraverso le vignette, cosa consentono di fare di più delle vignette rispetto allo scritto e al parlato? Ci viene in mente, ad esempio, la pagina che hai fatto su “L’Unità”, prendendo spunto da un articolo a più voci sul tema del sesso negato che era uscito su Ristretti Orizzonti: in quelle strisce ci siamo rivisti tutta la discussione che avevamo fatto, che era durata un pomeriggio, e una striscia molto breve comunque rendeva benissimo l’idea. L’ultima vignetta poi, quella in cui rappresentavi un detenuto che rientra dal permesso e dice: “Eh sì, con trenta euro, o mangi o scopi!”, se vai a vedere assomiglia davvero anche un po’ al detenuto che aveva detto quella frase. Questo fa parte di un intuito che sembra che io abbia, intuire le cose mi aiuta molto. Io ho una degenerazione retinica che mi ha quasi accecato: vedo brandelli di cose, quindi l’intuizione poi funziona moltissimo per capire la realtà, perché se dovessi capirla per quello che vedo, capirei molto poco. Sì, mi ricordo solo che questo articolo mi ha colpito tantissimo, come quando leggi certe cose che si sente da come sono scritte che sono zeppe di emozioni vere, emozioni anche difficili da raccontare, perché poi si va su una sfera intima in cui anche il pudore esiste, metterle in piazza non è facile. Siccome io l’ho fatto in passato, riesco a capire quando c’è una sincerità di fondo. Quando sono nato come disegnatore umoristico o satirico, più per un’esigenza di tirar fuori una serie di problemi che avevo dentro, che per una voglia proprio di fare satira, era secondaria l’importanza dello strumento che andavo ad usare, rispetto al desiderio di tirar fuori le cose che avevo dentro. Potevo farlo anche in altra maniera, avrei potuto farlo raccontandole, filmandole, ho scelto di disegnare perché il disegno era quello che mi riusciva meglio, era una cosa che mi è sempre piaciuto fare. Io non a caso comincio a fare il disegnatore di strisce nel ‘79, e il ‘79 per me è l’anno, soprattutto, del crollo delle utopie politiche, per me ha significato molto, il ‘79 è stato proprio l’anno in cui sono uscito dai marxisti-leninisti, ho avuto il coraggio di capire che lì non c’era nessuna prospettiva, che c’era qualcosa di sbagliato in questa formula che doveva portare alla giustizia sociale, e in realtà, per me, ha portato delle grandissime ingiustizie che si sono poi prolungate nel tempo. Io mi sono fermato, sono uscito, però dentro avevo un sacco di magoni, un sacco di cose non risolte, un sacco di frustrazioni da tirar fuori, e ho pensato di farlo attraverso le strisce, quindi non per fare satira politica, ma per un’esigenza mia, come quando uno va dall’analista. Io non sono andato dall’analista, ma mi sono messo a raccontare queste strisce con la stessa sincerità che devi avere quando vai dall’analista, quando queste cose le racconti ad un medico. Io le ho buttate in forma, spero divertente, sulle strisce. Ma c’è stata la terza o quarta striscia che ho fatto il 10 ottobre del ‘79, era un giorno preciso in cui mi sono messo a tavolino a fare queste strisce, e la terza o quarta striscia era una striscia che apparentemente sembra che non dica niente, ma per me diceva moltissimo. Era una striscia in cui Bobo si guardava intorno e alle soglie dei quarant’anni, quindi un po’ in là con gli anni, la maturità è già ben iniziata, vedeva i suoi colleghi, i suoi coetanei, che fine avevano fatto, e iniziava con un breve elenco, diceva: “Quello stronzo di Pierino, dai e dai è finito a Panorama. Quell’altro imbecille di Piero ha aperto la rappresentanza della Renault”, e si segnava 3 o 4 amici che si erano piazzati, dal che si capiva che l’unico che non era riuscito a fare niente era lui. E citava un personaggio del cabarèt, il Gastone di Petrolini, che era uno che negli anni 30 cantava una canzoncina in cui il ritornello diceva: “A me mi hanno rovinato le donne, mi hanno rovinato le donne”, solo che a lui lo hanno rovinato le donne, a me la Cina. Bobo diceva: “A me la Cina”, in primo luogo il partito comunista cinese che per primo si era levato contro le teorie del partito italiano di Togliatti, furono i cinesi, e poi, a ruota, seguirono anche gli albanesi, solo che gli albanesi erano due milioni e seicentomila, i cinesi erano più di un miliardo, allora c’era un peso diverso anche dei valori, quando andavamo nelle Case del popolo a discutere sul marxismo-leninismo e a fare annoiare i poveri compagni comunisti, si arrivava a mezzanotte e questi compagni vecchi dicevano: “Ma ragazzi, non vi rendete conto che siete quattro gatti?”, e noi pronti: “Sì, quattro gatti qui e un miliardo a Pechino”. Ad un certo punto i cinesi dall’oggi al domani hanno incontrato Nixon e sono passati a collaborare con gli Stati Uniti abbandonando tutti i legami di fraterno aiuto che esistevano, e quindi c’è stato questo senso nettissimo di essere stati fregati dai cinesi. Quindi, quello scrivere: “A lui l’han fregato le donne e a me la Cina”, faceva ridere. Io sono stato venti minuti prima di scrivere quest’ultima frase, perché mi vergognavo molto di dirlo, di tirar fuori l’idea di aver subito, di essere stato così coglione da essermi fatto fregare dalla Cina nel fare le mie scelte. Finalmente, e fortunatamente, l’ho scritto, e quando l’ho scritto è stato come togliere un tappo da una bottiglia: tutto quello che era dentro è uscito, ho fatto 50-55 strisce una di seguito all’altra, con dentro tutte le mie frustrazioni, le mie paure, e più ne scrivevo e più me ne veniva. Quindi, la mia idea nasce così, e quando le ho pubblicate, se andate a rivedere le mie strisce, non è che il mio disegno fosse particolarmente attraente. Poi piano, piano, ha imparato, ma all’inizio era un personaggio molto fisso, com’è Dado di Graziano, che cambiava pochissimo espressione, rimaneva fisso da un quadretto all’altro, guardava verso l’osservatore ogni volta che concludeva la battuta. A funzionare, come funziona in Graziano, è quello che c’era dentro: si capiva che quello che scrivevo non era una cosa così, tanto per fare, ma che dietro c’era sangue e sudore. La stessa sensazione l’ho avuta leggendo quell’articolo sul sesso negato in carcere, per cui, quando hai un’emozione forte, sei facilitato poi nel trasferire, con il linguaggio che meglio conosci, che nel mio caso è il disegno, quelle emozioni da un articolo al disegno, questo è il meccanismo.
Che cosa ti ha colpito della comunicazione sul carcere fatta attraverso le vignette di Graziano Scialpi? Ci sono delle cose che mi piacciono a priori, per esempio personalmente il giorno che saprò che l’Osservatore Romano pubblica una vignetta a me piacerà moltissimo quella vignetta, indipendentemente dalla sua qualità, sarà una prova di intelligenza rara per quel giornale, e la stessa cosa vale per quando sono uscite le vignette dal carcere. Mi è subito venuto in mente uno strano ricordo di una canzone di Enzo Jannacci, un fiore di campo che è nato in miniera e questi minatori che cercano di salvarlo: un luogo innaturale per un fiore così come il carcere è uno dei luoghi più innaturali per far nascere un sorriso, una vignetta, un momento di tenerezza, una denuncia all’interno di un involucro che è estremamente tenero e dolce. Io non ho l’esperienza di molti di voi del carcere né come carcerato, né come studioso dall’esterno, sono entrato in contatto con la realtà carceraria da quando lavoravo su Linus perché mi arrivarono delle lettere da Rebibbia, di lì ho cominciato a pubblicare queste lettere, a rispondere tramite il disegno, poi questo mi ha portato in contatto con Mario Almaviva che è il primo carcerato vignettista che ho conosciuto, lui era ancora un politico, uno polemico con la società, che continuava la sua lotta dentro un carcere, e dall’interno della sua celletta commentava gli avvenimenti esterni. Ho conosciuto il carcere più dall’interno dall’arresto di Adriano Sofri, io sono amico stretto di Adriano da molti anni e quindi per andare a trovare lui, per seguire le cose e poi fare quei libri che abbiamo fatto insieme necessariamente ho dovuto spesso andare a trovarlo in carcere, e nel mio immaginario, nel mio lavoro, credo che il carcere è entrato molte volte e si è modificata moltissimo la percezione che io avevo dall’esterno, una percezione errata ma ancora largamente diffusa. Ecco, quando eravamo giovani rivoluzionari e facevamo le manifestazioni per il Vietnam e rischiavamo l’arresto e il carcere, in certi momenti pensavamo quasi con serenità all’idea di finire carcerati, insomma, lo vedevamo come un periodo di riposo, sai tipo: quasi-quasi due mesi magari… quest’idea un po’ serena in cui uno in fondo si stacca un momento dalla società, si ritrova solo-solo in un ambiente tranquillo in cui può leggere, scrivere… entrandoci davvero in carcere ho visto una realtà drammaticamente diversa: se esiste un luogo dove non c’è tempo libero e dove non c’è tempo per raccoglierti e far qualcosa di tuo è proprio il carcere, e nemmeno c’è il silenzio che uno immagina. Ma la percezione del carcere che ha la stragrande maggioranza della popolazione, e non solo quella larga fetta della popolazione che si interessa poco di quello che c’è oltre il suo giardino, ma anche persone civilmente impegnate, persone colte, io l’ho toccata con mano tutte le volte che sono andato a parlare di Adriano Sofri: c’era sempre qualcuno non sprovveduto che arrivava e mi diceva: “Ma si può avere un numero di telefono per parlare con Adriano, si può mandargli una mail?”. Quindi tutto quello che viene fatto per far conoscere quella realtà largamente sconosciuta e incomprensibile, e per portare all’esterno questa fetta di società e questo “specchio”, uno degli specchi fondamentali a mio avviso per giudicare la civiltà di una società, è un lavoro ben fatto. Per quel che riguarda le vignette di Graziano, questa cosa nasce da una sua grande maturazione e intelligenza perché insomma io credo che statisticamente l’arrivo a un racconto ironico, autoironico, richieda un distacco tale dalla realtà che ti circonda, una capacità di vederla con occhi fermi e sereni che solo società molto colte, civili, e persone brave possono fare. Non credo che sia un caso che l’ironia e il sorriso e la satira non solo manchino nell’ambiente delle autorità ecclesiastiche, ma mancano soprattutto in società come l’Iran, come la Cina. Se io mi guardo intorno, le civiltà più oppressive sono le prime a cancellare la satira, l’ironia… perché occorre una grossa maturazione interna per arrivare a fare della satira e dell’ironia, soprattutto quando si toccano cose che ti fanno soffrire, in cui sei dentro, in cui sei partecipe e sei partecipe come vittima. È chiaro che è molto più semplice ribellarsi, è molto più semplice urlare, è molto più semplice stravolgere il volto, ma invece fermarsi, disegnare una figurina piccola, debole, incerta, con questi occhioni grandi che dice alcune cose molto dure, molto crude, però rivestite da quella tenerezza, questa è una grande capacità da parte di chi la fa ed è di grande utilità per chi ha la fortuna di vedere queste vignette, perché certe cose molto forti dette con quella forma lì arrivano più a fondo. Quando tu sai che leggi un drammatico articolo sul carcere, qualcosa dentro ti prepara a riceverlo subito: adesso mi arriva una bella botta, aspetta un attimo che mi accomodo in modo da reggerla bene. Quando ti arriva invece rivestita di questo sorriso la cosa in fondo colpisce molto di più. Sono contento quindi che molte persone riescano a godere di questi sorrisi e soprattutto attraverso il sorriso diventare più vicini a questa realtà che oggi voi state raccontando.
Con il disegno, che cosa si può fare di diverso rispetto allo scritto? Quello che si può fare è di usare l’arma del surreale, cioè con il disegno, la vignetta puoi spaziare anche nel campo del surreale, puoi alludere, puoi raccontare cose che forse non esistono, non hai quella necessità di prova che devi avere quando scrivi. Cioè, se un giornalista fa un articolo, e dice che quel politico è corrotto, o ha le prove, o non lo può scrivere, e se lo scrive, viene condannato ed è giusto che sia così. La satira può non dirlo chiaramente, ma può girarci intorno, alludere, per cui, uno legge e capisce queste cose che gli stanno indicando, “Guarda che quello probabilmente è corrotto”, ma che però gli viene detto in una forma diversa. Io sono stato processato una volta, a Reggio Emilia, dove c’è una sede della Max Mara, le operaie che lavoravano in questo stabilimento erano tutte donne. Allora erano in lotta contro situazioni di lavoro interne molto antiche, molto ottocentesche, con anche il controllo sui tempi quando una andava al bagno. C’erano tantissime cose antisindacali. Il proprietario, che ora è morto, si chiamava Achille Maramotti. All’epoca hanno occupato la fabbrica, queste operaie, e ad un certo punto hanno organizzato una manifestazione in un cinema di Reggio Emilia, e per far conoscere alla cittadinanza le ragioni della loro lotta mi hanno chiamato. Ero sul palco con un banchetto, che facevo vignette sulla lavagna luminosa. Mentre le operaie raccontavano la loro esperienza, io illustravo alcuni passaggi del loro racconto. Ad un certo punto ho fatto anche una vignetta, perché all’epoca era Presidente della Repubblica Sandro Pertini, un grande Presidente, che però aveva nominato cavaliere del lavoro Achille Maramotti. In questa vignetta c’era Ilaria che chiedeva a Bobo: “Ma perché Pertini ha nominato cavaliere del lavoro una carogna come Maramotti?”, e Bobo rispondeva: “Vedi, per questo bisognerebbe ogni tanto avere un Presidente della Repubblica donna!”, e questa è piaciuta molto, hanno fatto anche un sacco di applausi e risate. Qualche mese dopo, finita la lotta delle operaie e rifatto il contratto, la Camera del lavoro di Reggio ha fatto una pubblicazione in cui ha riportato un quaderno bianco su questa lotta, e ad illustrarla ha messo alcune delle mie vignette, senza chiedermi l’autorizzazione, non perché non gliela avrei data, ma perché se me l’avessero detto io avrei riguardato le vignette con l’occhio della legge sulla stampa. Una cosa è fare una vignetta in una manifestazione, e una cosa è se la metti nero su bianco su un giornale, allora lì devi vedere se ci sono gli estremi per essere denunciato. Maramotti ha visto la vignetta e mi ha querelato per diffamazione, per la parola “carogna”, chiedendomi, all’epoca, 100 milioni di danni da devolversi in beneficenza. La cosa mi ha preso parecchio male perché era difficile difendersi da un’accusa del genere. Se me lo avessero detto, bastava mettere: “Perché il Presidente ha fatto cavaliere del lavoro uno come Maramotti, visto che le operaie, dicono che è una carogna?”, cioè metterla in una maniera in cui non figuravo direttamente io. Quindi c’è stato il processo. Lui era, tra l’altro, proprietario del giornale “Il Resto del Carlino”, che è il giornale più diffuso di Bologna, e quindi questo giornale aveva pubblicato molti articoli dicendo: “Bobo questa volta l’ha fatta grossa, Bobo alla sbarra…”, e avanti così. Quando c’è stato il processo, io sono andato là sicurissimo che avrei perso, ho basato la mia linea di difesa su due argomentazioni: una era che, per definizione, fin dalla fine dell’Ottocento, dalle prime lotte operaie, il padrone è una carogna; il secondo punto, poi, specificità tipica toscana, fiorentina, anzi, di casa mia, la parola carogna, da tempo ha perso ogni connotazione offensiva, è quasi affettuosa: mia figlia mi dava del carogna 3-4 volte al giorno, mi diceva: “Babbo, mi dai i soldi per comprare il giornalino?”, io magari rispondevo: “No, non li ho”, e lei mi diceva: “Che carogna che sei!”. Quando ho finito io, hanno chiamato Achille Maramotti a testimoniare. Questo padrone che sembrava uscito veramente da una caricatura dell’800, e i giudici gli chiedono: “È lei il proprietario della Max Mara?”, e lui dice: “Sì”; “Di quante altre fabbriche è proprietario oltre alla Max Mara?”, e lui risponde: “Signor giudice, ora, qui, su due piedi, non saprei dirle bene”. Allora il giudice chiede: “E da quanti anni non paga i contributi assicurativi ai suoi dipendenti? Questo se lo ricorda?”, e lui è sbiancato. I giudici hanno cominciato a fare un processo a lui, un processo su tutte le cose che non funzionavano nella sua fabbrica, e alla fine hanno concluso che forse era una carogna davvero, e mi hanno assolto perché il fatto non costituiva reato.
Che cosa pensa uno come Bobo della nuova legge sulla legittima difesa? Pensa di fare qualcosa su questo tema? E sull’eterna questione della sicurezza? Qualcosa faremo senz’altro, comunque ne penso esattamente quello che pensate voi: che è sempre un’escalation di violenza, perché la cosa più semplice che ti viene in mente, al di là della profonda ingiustizia di rispondere togliendo la vita a chi sta aggredendo la tua proprietà privata, la cosa importante è che comunque ci sarà meno sicurezza per gli stessi proprietari che vengono aggrediti. Ma un’altra cosa che mi viene in mente è la storia del poliziotto inglese: perché il poliziotto inglese è disarmato? È disarmato perché si sa che se un poliziotto può svolgere la sua attività disarmato invita anche i potenziali delinquenti a non andare armati a loro volta, o comunque a stare molto attenti ad usare l’arma, che è in ogni caso un’aggravante in sede di processo. Allora, cosa succede ora? Succede che chiunque deciderà di dire: “Si va lì in quella casa, che hanno delle cose…”, se finora ci andavano disarmati, un’arma non basterà più, quindi andranno con qualche arma più potente, e così instauri una escalation di violenza che è poi una schiavitù totale per le persone che dovrebbero essere difese dalla possibile delinquenza. Il discorso sulla sicurezza dei cittadini è tutta un’altra cosa. È una lotta che riguarda in genere proprio la convivenza nella collettività. Io sono stato per alcuni anni il responsabile delle manifestazioni culturali del Comune di Firenze. Una cosa che mi sono scelto, che ho voluto io, e in questo campo abbiamo fatto delle cose abbastanza interessanti, partendo dall’idea che bisognava che la città offrisse ai suoi cittadini, e soprattutto alla parte più giovane dei suoi cittadini, una serie di possibilità di incontro, di scambio, di convivenza, di capacità di stare insieme, di vivere questa città. L’idea che io ho è che se tu riesci a vivere la tua città, ad amarla, a conoscerla, una serie di situazioni e di tensioni che generano poi quella microcriminalità che tutti temono verrebbe, di fatto, a cadere. È successo anche che per la fine dell’anno sono riuscito ad ottenere la stazione di Firenze per fare una festa aperta per i giovani. Questa stazione ha un grande salone centrale, che abbiamo trasformato in un salone di festa, poi ho messo due palchi per le orchestre, invitando i giovani a venire lì per la fine dell’anno; l’ingresso era completamente gratuito. Ebbene, sono stato sottoposto ad una guerra da parte dei benpensanti, violentissima, perché aprivo la città al “gorillaio”, questa era la parola che usavano sui giornali, cioè quelli che singolarmente erano dei bravi ragazzi, studenti, appena diventavano cento, duecento, diecimila li chiamavano “gorillaio”. E sempre secondo queste persone i giovani avrebbero distrutto la città, avrebbero distrutto la stazione. Pochi giorni prima, mentre resistevamo con il sindaco andando avanti sul progetto, e le ferrovie ci avevano dato tutte le autorizzazioni necessarie, mi rendo conto che il sottopassaggio della stazione, che è attrezzato a parcheggio, quella notte lì sarebbe rimasto chiuso, allora chiamo il responsabile e gli dico: “Scusa, ma perché mi chiudi il parcheggio proprio la notte in cui faccio la festa?”, e lui mi risponde: “È l’unica notte dell’anno in cui si chiude da quando quattro anni fa sono entrati sotto dei ragazzi e sparando dei petardi hanno spaccato una serie di vetrate e abbiamo avuto un sacco di danni”. Io allora gli ho chiesto: “Ma quattro anni fa che cosa c’era per i giovani a Firenze?”, e lui mi risponde: “Nulla. A maggior ragione se quest’anno tu me li porti anche, mi distruggono tutto!”. Questo è l’errore! È quando non fai nulla, è quando non intervieni, non gli offri qualcosa per stare insieme alla città, per farti sentire partecipe alla comunità che scattano questi episodi, frutto dell’isolamento. Una città che è deserta, che tu percepisci come nemica, passi in mezzo a questo deserto e ti viene voglia di accendere un razzo e che si rompa una vetrata… e chi se ne frega! Ma se ti stai divertendo, senti della musica, magari conosci una ragazza, ci sono amici, perché ti devi mettere a distruggere le cose? Insomma, l’ho convinto, mi ha aperto il parcheggio, ho avuto 20.000 giovani là dove se ne prevedevano 6.000, e non è successo niente; fanno più danni un gruppo di ultras del Milan o del Livorno quando vengono a giocare a Firenze che 20.000 giovani a fare la festa di fine anno. Quell’anno lì io e il sindaco abbiamo avuto i complimenti da parte del prefetto che allora era Achille Serra. Lui, dati alla mano, ha dimostrato che la microcriminalità in città durante i mesi in cui abbiamo fatto queste cose, rispetto agli anni precedenti, era caduta a picco. Il problema è che molti giovani sentono di essere odiati dalla città, io lo vedo, da noi d’estate è venuta la moda, per i giovani, di trovarsi sulle scalinate di Santa Croce, stanno lì con chitarre e bonghi… io quando trovo una situazione simile mi infilo sempre, perché poi basta un nulla, basta un sorriso, basta chiedere una cosa e fai subito amicizia con questi ragazzi. C’è, a mio avviso, una disponibilità, una voglia di scambiare esperienze anche con qualcuno molto più vecchio di loro, invece da parte dei miei coetanei io trovo paura, mi trovo con degli amici in piazza che quando vedono questi gruppi di giovani, cominciano: “Oh Dio, oh Dio!”, sembrano vittime predestinate. Occuparsi di sicurezza dovrebbe voler dire: “Guardi, signor poliziotto, stia a casa, ci pensiamo noi al quartiere, troviamo idee per far vivere in modo diverso”: invece alle otto chiudono tutto e la città si trasforma in qualcosa di orrendo, tutta la città concorre ad essere odiosa, e come tale, quindi, a generare comportamenti scorretti. La persona umana è portata alla serenità ed alla convivenza, sono una serie di condizioni che poi ti fanno fare la fatica di essere cattivo, perché è molto più faticoso. Ricordo una poesia che a me piace molto, in cui l’autore confronta le due maschere giapponesi che ha appese nello studio: una che sorride e una incazzatissima e feroce. Lui guarda questa maschera e conta tutti i muscoli che deve muovere per essere feroce e dice: “La guardo sempre per ricordarmi quanta fatica costa essere cattivi”.
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