Gli incontri di "Ristretti"

 

Com’è difficile maneggiare le storie vere come se fossero romanzi!

Ne abbiamo parlato in redazione con Carlo Lucarelli, scrittore,

ma anche ideatore e conduttore della trasmissione "Blu notte"

 

Nicola Sansonna (Ristretti): Che cosa ti ha portato a scegliere di scrivere romanzi noir? E insegnare in carcere ti è stato in qualche modo utile per il tuo lavoro?

Carlo Lucarelli: Ci sono delle storie che appassionano il lettore più di altre per quello che raccontano e per come sono raccontate, e la stessa cosa succede agli scrittori, quando ti accorgi che hai più voglia di raccontare un certo tipo di storia, in un certo modo, che altre. A me è successo da ragazzino, diciamo verso i 15 anni, quando ho cominciato a scrivere mi sono accorto che le storie che volevo raccontare erano molto vicine a quelle che mi piaceva leggere, e che erano storie "noir", storie che avevano a che fare con la metà oscura. A me piacevano le storie misteriose, che quando cominci a raccontarle non sai come vanno a finire, mi piace quando queste storie vengono raccontate con la tecnica della "suspense", del colpo di scena quando sono storie che toccano una realtà strana, che non conosco, che mi fa paura e sto lì pagina per pagina a vedere cosa succede.

Mi chiedete poi se il venire qui dentro in carcere può avermi dato qualcosa dal punto di vista del mio lavoro. Quando sono entrato la prima volta l’ho fatto con la curiosità di chi non sa niente di un mondo che conosce solo attraverso la letteratura o il cinema. Naturalmente pensavo che sono anche uno scrittore di gialli e credevo di imparare delle cose, ma subito non è stato così perché in realtà con i miei "studenti" ci siamo ritrovati a parlare di tutt’altre cose, con uno scambio che non era tra io, scrittore di gialli… voi che i gialli li avete vissuti e allora mi raccontate delle cose, questo non c’entrava niente, anche perché per parlare di certe questioni serve una buona intimità e noi non la potevamo avere. Il contributo che ho avuto nel cercare di raccontare un certo tipo di sensazioni, un certo tipo di mondo è stato di venire io a sentire tutta una serie di cose che erano diversissime da come me le immaginavo. Letterariamente mi sono sempre immaginato, per esempio, un carcere come un posto immobile e silenziosissimo, e non era vero, mi immaginavo un posto in cui il tempo è bloccato, fisso, in cui tutti hanno il tempo di fare quello che vogliono all’infinito, tanto sono qui; e mi stupii la prima volta che venne l’agente a dire: "Tempo scaduto, via tutti!!!"… Ed io: "Come tempo scaduto, c’è tanto tempo!". Le altre cose che ho imparato, sono state riguardo al linguaggio che si usa in galera, e mi ricordo un bellissimo confronto che facemmo su questo argomento, e lì ho imparato proprio dalla rivista, leggendo "Ristretti Orizzonti".

 

Il giornalista informa, lo storico analizza e studia, lo scrittore racconta una storia in modo che uno si emozioni

 

Marino Occhipinti (Ristretti): Quando hai cominciato a fare trasmissioni televisive a partire da casi di cronaca nera realmente avvenuti, ti sei reso conto dell’invasività che possono avere i giornalisti nella vita delle persone? Perché un conto è maneggiare storie di fantasia, un altro è maneggiare come romanzi delle vicende di vita vissuta.

Carlo Lucarelli: Certo, hai ragione, e ci abbiamo pensato parecchio. Io sono arrivato alla televisione perché mi hanno chiamato, era il ‘97/’98 e RAI 2 voleva fare un altro programma del tipo "Telefono Giallo", cercavano qualcuno che lo facesse e volevano usare uno scrittore e non un giornalista. Ho fatto allora la prima trasmissione che era "Mistero in Blu", e ho portato lì esattamente le stesse cose che facevo nella scrittura. Non essendo un giornalista l’ho fatto da scrittore di romanzi gialli: prendo una storia misteriosa e cerco di capire come si può raccontare dal punto di vista della tecnica narrativa, raccolgo tutte le informazioni possibili, costruisco la storia attorno ad un personaggio, che nei vecchi casi di "Mistero in Blu" di solito era la vittima dell’omicidio. E poi comincio a raccontare tutto, utilizzando anche i consulenti, che sono due giornalisti che collaborano con me e mi portano degli elementi nuovi, e un poliziotto della scientifica di Bologna, Silio Bozzi, a cui telefonavo quando scrivevo romanzi per conoscere le parti tecniche, del tipo come si prendono le impronte digitali. Il nostro compito nel programma è sempre stato quello di raccontare delle storie, non di indagare… quando poi abbiamo cominciato a raccontare vicende "quasi storiche", allora il mio compito era di trattare queste vicende sposando insieme due cose che erano difficilissime, da una parte cercare di renderle più accattivanti ed emozionanti possibile, perché il compito dello scrittore è proprio questo, il giornalista informa, lo storico analizza e studia, lo scrittore racconta una storia in modo che uno si emozioni. In genere lo fai con una storia non vera, quindi puoi fare quello che vuoi, basta creare quelle emozioni. Quando però ti capita, come in questo caso, di avere a che fare con delle storie vere, arriva il punto nodale, da una parte devo creare emozioni, dall’altra farlo solo con fatti veri. Ci sono due problemi che ho visto nel fare la trasmissione, uno era proprio la verità, cosa vuol dire fatti veri? Vorrei raccontare una storia il più obiettivamente possibile, ma come si fa? Mi sono accorto, sin dai tempi dei delitti più raccontabili, perché più facili, ma soprattutto con questi ultimi casi che sono pieni di misteri, depistaggi, narrazioni che non sono obiettive, lì mi sono accorto che diventa veramente difficile perché non ti puoi fidare delle cose che ti vengono dette. Il primo problema è che noi ci troviamo di fronte a tante informazioni difficili da verificare, l’altro problema è proprio quello della invasività, e questo l’abbiamo visto ancora di più con questi casi più grossi che appartengono davvero a una nazione: se ti metti a raccontare della strage di Bologna non è che stai raccontando la storia di Mambro e Fioravanti, racconti di un momento della storia d’Italia che non appartiene alle persone che l’hanno vissuta ma appunto alla storia d’Italia. Se c’è un mistero in quella storia lì va raccontato perché è un mistero che riguarda tutti.

Noi poi ci siamo confrontati spesso con giornalisti di altri programmi più biechi dei nostri, e un conto è dire che oggettivamente una storia la racconto perché credo che debba essere raccontata, e un altro è dire: lo faccio senza il rispetto per nessuno. Quando non hai rispetto fai di tutto, butti lì delle cose false e vai ad investigare anche su quegli aspetti della vita delle persone che non c’entrano niente con il caso. E poi c’è anche un "rispetto linguistico": certi termini non li abbiamo mai usati anche se ci avrebbero fatto comodo. Per esempio non abbiamo mai detto la parola "cadavere" in tutta la trasmissione, o "mostro" o simili.

 

Esiste una verità giudiziaria della quale io devo tenere conto e dalla quale non mi posso distaccare più di tanto

 

Francesco Morelli (Ristretti): Le ipotesi investigative su un "caso" di cronaca nera presentano sempre dei rischi, sia quando la ricostruzione viene eseguita prima del processo, sia a sentenza fatta. Prima del processo, perché possono condizionare la "serenità" dei giudici, che dovrebbero decidere in base a quanto si accerta in aula e a niente altro, tanto meno ad un’opinione pubblica orientata dalle idee dei giornalisti e degli scrittori. Dopo il processo, perché le "ricostruzioni", per essere interessanti, devono introdurre elementi di dubbio, in qualche modo devono suggerire che la verità è diversa da quella (o non è tutta quella) accertata dai giudici stessi.

Però, quando c’è una verità processuale, una persona condannata deve accettarla e portarne il peso: anche se sa di essere innocente è tenuta a comportarsi da colpevole, ad espiare, a sottoporsi alla "rieducazione", altrimenti viene etichettata come "irriducibile", "irrecuperabile". Ma almeno, quando una persona viene assolta, o riconosciuta colpevole solo in parte, secondo me avrebbe il diritto di pretendere che la società accetti queste conclusioni, che non siano più fatti tanti "ricami" sulla questione se la sentenza è giusta o sbagliata.

Carlo Lucarelli: Questo è un grosso problema perché io finché scrivevo romanzi gialli avevo a che fare con una verità oggettiva, me la inventavo io, o meglio non è che me la inventassi io, la trovavo dentro la mia storia. Quando mi sono trovato ad avere a che fare, prima come collaboratore di giornali, ma soprattutto con la televisione, con fatti realmente avvenuti, io mi sono occupato di casi misteriosi irrisolti, casi in cui la verità giudiziaria, quando c’è, comunque è dubbia e molte volte non c’è affatto, e lì mi sono trovato spiazzato perché ero abituato a considerare la verità "senza aggettivi" e invece mi sono visto messo di fronte alla verità della realtà, che è una verità con aggettivi, verità giudiziaria, verità storica, verità del buon senso, verità politica, devi metterci un aggettivo, non c’è una verità sicura. E ho cominciato ad avere a che fare con tutte queste verità e a doverle testimoniare tutte. Certo esiste una verità giudiziaria della quale io devo tenere conto e dalla quale non mi posso distaccare più di tanto, però come metodo, essendo io un autore di romanzi gialli, puoi dirmi anche chi è stato ad uccidere ma io devo sapere di più, non mi basta sapere chi è stato, voglio sapere come ha fatto ad entrare da quella finestra, perché conosceva la vittima in quel modo, per quale motivo è successo tutto questo, ho bisogno di tanti perché e molte volte la verità giudiziaria questo non me lo dice. Allora io parto da lì, questa è la verità giudiziaria, però questo mistero qui chi me lo spiega? Noi abbiamo sempre cercato di fare questo, che è però anche un grosso problema perché molte volte ci si ritrova ad avere a che fare, soprattutto per certi grandi misteri italiani, con verità giudiziarie che non ci sono, o sono talmente lontane dalla verità del buon senso che qualche dubbio ti viene, e noi cerchiamo di rendere conto di questi dubbi..

 

Raccontare come se io non avessi nessuna idea particolare e dovessi documentare tutte le ipotesi diverse

 

Francesco Morelli: Tanti problemi noi li vediamo molto direttamente nel rapporto con i media; ci viene in mente proprio il caso recente in cui hanno ritirato fuori il mostro di Firenze e parlavano di Pacciani come il responsabile; ma se non sbaglio Pacciani è stato assolto. Lì è difficile anche capire se c’è una verità, non soltanto di distinguere la verità oggettiva, giudiziaria, storica.

Carlo Lucarelli: Lì dovrebbe essere una responsabilità di chi racconta queste cose, di fare uno sforzo enorme anche contro quella che può essere la sua opinione personale. In realtà se vuoi raccontare quella storia dovresti farlo depurandola intanto di tutte queste sedimentazioni giornalistiche che ci sono state. Il caso del "Mostro di Firenze" è eclatante da questo punto di vista; io mi ricordo che da ragazzino, quando leggevo le sue vicende sui giornali, anch’io ero convinto come tanti che fosse una persona alta più di due metri perché c’era un’impronta molto grande per terra, e poi scopro, occupandomi di questo caso assieme al poliziotto che adesso ha scritto il libro, che l’impronta numero 46 era di un carabiniere che l’ha lasciata sul luogo, ed è chiaro che i carabinieri l’hanno saputo subito ma non è che sono andati a informare i giornali dicendo: "Quella impronta è nostra perché siamo stati poco professionali", e così quella notizia è rimasta, e si è sedimentata. Alla fine, una volta depurata la storia, anche se io ho una teoria che mi piace, nel fare la trasmissione ho cercato il più possibile di raccontare come se io non avessi nessuna idea particolare e dovessi documentare tutte le ipotesi diverse.

 

Non c’è un modo di raccontare le belle notizie e un modo di raccontare quelle brutte, ma c’è un modo di raccontare le storie in maniera appassionante

 

Ornella Favero: Mi ricordo che una volta hai detto che il tuo primo lavoro è stato di "coloritore di cronaca nera". Allora forse puoi insegnarci a rendere più appetibili anche le buone notizie?

Carlo Lucarelli: Io avevo già scritto due romanzi gialli quando mi ha chiamato un giornale locale di Imola che stava ampliando le pagine di cronaca nera, e il ragionamento un po’ scherzoso e un po’ serio era proprio questo: siccome qui non succede niente, vedi di occupartene tu che sei uno scrittore di gialli, prendi la vecchietta che è caduta per le scale e inventati qualcosa!! Si diceva per gioco naturalmente, perché non volevo creare un allarme "anziane signore che cadono per le scale a Imola", ma il ragionamento non era sbagliato. L’idea era: cerco di raccontare una storia che magari può sembrare noiosa usando le tecniche della letteratura, del giallo soprattutto, che rendono comunque avvincente qualunque avvenimento. Certo si pensa che i giornalisti abbiano meno questo problema, perché non dovrebbero raccontare storie creando emozioni ma cercando di informare, però è vero anche che ci sono alcune storie che vanno "aiutate".

Il fatto poi che ci siano tante brutte notizie sui giornali ti porta a inseguire quello che c’è di sempre più eclatante, non basta un omicidio ma deve essere un omicidio efferato per andare in prima pagina, non basta un incidente, deve essere un incidente con un sacco di morti. Allora siamo sempre a cercare cose eccezionali ed è facile capire questo meccanismo; con le notizie buone è più difficile, ne parlavo di recente con un mio amico, Gianpiero Rigosi, che è anche lui uno scrittore, e dicevamo che ci sono dei fatti, delle belle storie che quando te le racconti dici: "Oh, allora non è poi così brutta la vita"!! "Allora non accadono solo cose brutte"! E ognuno di noi si è messo a pensare ad un piccolo esempio, niente di eclatante, che avesse a che fare con le buone notizie. La storia che ho raccontato è questa: io insegno alla scuola "Holden" a Torino, un giorno siamo per strada, stiamo ritornando alla scuola, gli altri studenti sono avanti e io un po’ indietro con una studentessa molto giovane e bella, magrissima come una modella; mentre chiacchieriamo vedo un signore sui 70 anni, molto grosso ed anche molto brutto, che la guarda, la sta letteralmente radiografando, le prende proprio le misure. Un po’ mi scoccia e mi viene da pensare: "Che cazzo di mondo è, che uno si mette a guardare una ragazzina in questo modo, lui così schifoso!!". Ad un certo punto questo qui si stacca e punta su di lei, ed io ero già pronto per dire: "Senta un po’, primo, può essere suo nonno, secondo, lei è con me!!", pronto quasi a litigare con lui. Questo arriva e fa alla ragazza una domanda che io non mi sarei mai aspettato: "Scusi, lei ha la patente?". Lei gli risponde di sì e lui ci fa vedere che ha la macchina incastrata tra due auto e non riesce ad aprire lo sportello: "Sono due ore che sto aspettando una persona magra come lei che ci può entrare!!!". La ragazza è entrata come una sogliola ed ha tirato fuori la macchina, questo significa che io pensavo che il mondo è una schifezza, che c’è una specie di orco pronto a sbranare una ragazzina, ma mi sono sbagliato, in realtà questo qui poteva essere un tranquillissimo nonno che aveva solo bisogno d’aiuto. è una bella notizia. Sono stati tutti ad ascoltare, io l’ho raccontata così, l’ho fatto come avrei raccontato una brutta notizia, cioè un giallo, l’ho basata sul mistero e l’ho raccontata come una cosa eccezionale che non ci aspettiamo che accada così, e ho cercato di costruire nella narrazione di questa cosa dei caratteri che ci interessassero. Allora non è che c’è un modo di raccontare le belle notizie e un modo di raccontare quelle brutte, ma c’è un modo di raccontare le storie in maniera appassionante, creando la tensione e arrivando alla fine con una specie di colpo di scena che ti fa capire tutta l’eccezionalità della vicenda, che poi in quel caso non era granché eccezionale, era semplicemente uno che aveva chiesto aiuto ad una ragazza.

 

In televisione si parla soprattutto di casi eccezionali

 

Stefano Bentivogli (TG 2 Palazzi): è vero che c’è modo e modo di raccontare le cose, sta di fatto che si scelgono sempre i casi comunque eccezionali, perché più sanguinari, meno risolti, i più violenti di solito. Secondo te questa cosa alla fine umanizza il criminale o non fa altro che accentuare l’immagine di mostro? Perché a questo punto se il carcere cerca di aprirsi verso la città, come sta facendo qui, qualcuno può temere che si apra una città di mostri. Allora questo modo di far televisione sul crimine porta a riavvicinare noi all’esterno o ad isolarci ancora di più?

Carlo Lucarelli: Ci sono modi diversi di raccontare il crimine, e ce n’è uno che è abbastanza vicino alla nostra concezione di scrittori: quando scrivi un romanzo "noir" per forza di cose devi andare a cercare le ragioni di ognuno, di quello che faceva il buono e di quello che faceva il cattivo. In questo senso non esiste un mostro, non c’è uno che è fuori della razza umana, ma c’è una persona che ha un mare di problemi. Seguendo questa strada, io credo che anche raccontare i crimini più efferati possa significare comunque umanizzare e avvicinare la gente a qualcosa che è successo, se invece tu hai una vittima e un mostro e basta, questo sicuramente spaventa e allontana. È anche vero che in televisione si parla soprattutto di casi eccezionali, lo spazio dell’informazione è talmente ristretto che passano soltanto quelli, adesso però ci sono programmi televisivi che hanno il coraggio di mettersi lì a raccontare veramente la realtà. Non so se l’avete visto, ma c’è stata una serie televisiva, Residence Bastogi, che ha seguito con le telecamere la storia di un quartiere di Roma dove si vive in condizioni di forte disagio, dove molte persone sopravvivono con i furti, il piccolo spaccio di droga, sono piccole storie di vita però molto intense.

 

Chi ha un punto di vista particolare, come si ha stando qui dentro, riesce a vedere delle cose che da fuori non si vedono

 

Elton Kalica (Ristretti): Quando dobbiamo dare notizie che hanno a che fare col carcere, noi che ci viviamo "dentro" stiamo attenti a non cadere in una specie di piagnucolio, di lamentosità diffusa. Tu che cosa ci consiglieresti per evitare il rischio di far coincidere la sofferenza con il lamento?

Carlo Lucarelli: Chiunque racconta una cosa che lo riguarda ha uno sguardo meno obiettivo, questo è ovvio, e cerca sempre di trovare un punto di vista che sia giustificatorio. Questo vale anche per gli scrittori che scrivono di storie inventate, ma che hanno a che fare in qualche modo con la propria biografia, se scrivi di te stesso dopo un po’ cominci a dipingerti come una persona che comunque è buona e al massimo se si trova in un guaio è stato solo per sfortuna. Credo però che la cosa giusta sia cercare di distaccarsi e di guardare dal di fuori, ma anche di riuscire comunque a rendere le ragioni di tutti, perché chi ha un punto di vista particolare, come si ha stando qui dentro, riesce a vedere delle cose che da fuori non si vedono, a trovare tutte le giustificazioni, tutti i veri problemi, però credo che l’unica cosa da fare per farsi leggere davvero da tutti sia mettersi lì a vedere veramente le cose sotto più punti di vista, e se una cosa "regge" anche se vista da due punti di vista diversi è senz’altro più oggettiva, più credibile. Un altro fatto poi che conta nel raccontare è la sobrietà, meno si calcano i toni, meno si usano parole retoriche, meno si usano aggettivi, e più la storia che si racconta sembra pulita, efficace, di quelle che, quando uno le legge, ci crede.

 

 

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