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Nel mondo del lavoro c’è davvero chi è meno tutelato dei detenuti? Un confronto serrato fra chi lavora "fuori" e chi spera di farlo al più presto
(Marzo 2004)
Le due lettere, dedicate al tema del lavoro, che abbiamo ricevuto in redazione sono state uno choc: per la brutalità e la sincerità che le caratterizzano, e perché da una parte mettono in crisi il concetto di "lavoratore svantaggiato", e dall’altra presentano un quadro fin troppo realistico di quello che è oggi il mondo del lavoro che attende le persone detenute a fine pena. Ne abbiamo animatamente discusso, cercando di affrontare i problemi con un po’ di coraggio e di capacità di rivedere le vecchie certezze.
Nicola: Le lettere che abbiamo ricevuto sono di persone diverse, la prima di un operaio specializzato, la seconda di un dirigente, e nell’insieme ci danno un quadro tragico di quello che è diventato oggi il mondo del lavoro. Ciò che fa il nostro primo "lettore" è di affrontare un problema serio con ironia. Ci parla delle reali difficoltà di chi entra oggi in questo mondo, e io che ne sono lontano perché sono da anni in carcere ho l’impressione che la tutela sindacale non esista più e che non esista più la certezza su niente. Sembra che nel "mondo normale" se hai voglia di lavorare devi essere a totale disposizione del tuo lavoro, tu diventi il lavoro stesso, e questo mi spaventa parecchio. Ornella: È proprio spaventoso il quadro che fa lui della competizione per la sopravvivenza nel mondo del lavoro. Nicola: Se una persona come me dopo un certo numero di anni di galera esce fuori e vuole andare a lavorare, non è che il quadro che ci hanno fatto del mondo del lavoro faccia venire questa gran voglia di entrare a farne parte. Ti fa vedere la realtà com’è fuori, cioè che il lavoro è una cosa che devi saperti tenere con le unghie e coi denti, e ti fa vedere tutto quello che devi fare per cercare di mantenerlo, e qualsiasi cosa tu faccia sarà ugualmente poco perché ci sarà sempre qualcuno disposto ad andarlo a fare per meno di te. È uno spaccato desolante della realtà del lavoro, però la mia domanda è questa: è così in quel tipo di cooperativa, con più di settecento dipendenti, dove lavora Alberto, o è così un po’ dappertutto? Ornella: È così per molti lavoratori, e ho la sensazione che queste nuove categorie dai sindacati abbiano pochissima tutela, perché non sono in grado di mettersi insieme e di difendere i loro diritti. Elton: In realtà, appena apri un giornale o guardi la televisione capisci subito questa evoluzione, questo cambiamento non solo qui in Italia, ma in tutta Europa. Vediamo ogni giorno interi settori produttivi mandare a casa sempre più lavoratori. Pensando alla nostra situazione, credo che il discorso di Alberto sia interessante per far capire ai detenuti che fuori non è tutto rose e fiori; che quella che ci attende è una situazione molto difficile. Per dirla in parole rozze, fuori c’è da farsi un culo così. Ricordo quando arrivarono i primi albanesi qui in Italia. C’era un mio amico che già conoscevo in Albania, dove aveva lavorato in fabbrica. Dato che nelle nostre fabbriche, in epoca comunista, i tempi di lavoro erano molto rilassati, non esisteva un vero e proprio sfruttamento dell’operaio. Si era abituati a lavorare in un certo modo, non c’erano controlli strettissimi e gli standard produttivi richiesti erano molto bassi. Ebbene, questo amico arrivato in Italia è rimasto allibito di fronte ai ritmi italiani di lavoro: gli sembrava impossibile che ci fosse qualcuno che controllava il tempo delle pause in bagno, o della pausa caffè, e ascoltandolo ho proprio visto il cambiamento che lui aveva provato sulla sua pelle. Tutto questo è più o meno simile a quello che accade ai detenuti che, dopo essere stati per parecchio tempo a vegetare nelle celle, si trovano di punto in bianco a dover sostenere ritmi troppo forsennati. E anche se hai avuto la fortuna di avere un’attività durante il periodo di detenzione, i ritmi non sono certo gli stessi di chi lavora all’esterno. Questo comunque trovo che sia un argomento molto importante e che dovremmo approfondirlo ulteriormente, proprio per informare i detenuti delle difficoltà che incontreranno per riuscire a mantenere un posto di lavoro fuori. Nicola: Qui se fai un lavoro per l’amministrazione, cioè scopino, spesino e simili, non è che hai dei gran ritmi da seguire. Se lavori, invece, come me ai capannoni, i problemi sono altri: io sono alle dipendenze della cooperativa Punto d’Incontro, che fa i guard rail per una acciaieria, ed ora il lavoro sta diminuendo di giorno in giorno. Quando nacque la Punto di Incontro era vantaggioso per questa grossa acciaieria farci lavorare, ora però è successo che gli stessi operai della ditta hanno dato vita a una cooperativa che si trova già sul posto e hanno così eliminato i costi di trasporto che gravavano per portare a noi il lavoro, e quindi risultano più convenienti. Per essere ancora competitivi dovremmo rinunciare a quasi metà della nostra paga, che è già al di sotto di quella sindacale. In sostanza, il lavoro dell’amministrazione penitenziaria probabilmente non ti insegna a confrontarti con il mondo reale, quello dei capannoni invece, con tutte le sue difficoltà, è più simile e competitivo anche tra gli stessi detenuti, ma forse un briciolo di sana competizione non è male. Se io so che il mio lavoro, per tanto o poco che faccia, è sempre pagato uguale, non sono stimolato a fare meglio. Se invece fossi pagato per il reale lavoro che svolgo con la giusta professionalità… Ornella: Un briciolo di sana competizione è una cosa, ma non è esattamente quello che c’è oggi nel mondo del lavoro. Elton: Nella lettera non si parla di sana competizione, si parla di un gioco al massacro. Marino: In una delle due lettere si dice anche che i soggetti svantaggiati praticamente hanno delle associazioni che si occupano di loro, un "normale" cittadino che resti disoccupato non ha invece nessuno che lo aiuta. Ma non è che anche i detenuti abbiano associazioni che fanno la fila per aiutarli, o cooperative che li cercano, le realtà positive se andiamo a vedere bene sono poche. Ornella: Però è anche vero che, magari in modo disordinato, c’è una rete di volontariato e di cooperative in giro per l’Italia che un minimo di sostegno, almeno in alcune zone, te lo dà. Daniele: Secondo me è semplicemente scandaloso definire le persone che sono all’interno del carcere più garantite per la ricerca del lavoro. Ornella: Ma non è questo il punto. Quando è stata qui Monica Vitali, giudice del lavoro che conosce bene il carcere e ha anche scritto un libro sul lavoro penitenziario, lei ha fatto praticamente questo stesso ragionamento, cioè ha detto: voi pensate come detenuti di essere nelle peggiori condizioni, ma guardate che io, seguendo le cause del lavoro, trovo davvero che c’è gente, fra cui spesso molti immigrati, che è ancora meno tutelata di voi. Nella seconda lettera che abbiamo ricevuto il nostro lettore manda un messaggio che fa riflettere: "Io ho fatto il disoccupato iscritto alle liste di collocamento e nessuna associazione di volontariato di nessun genere si è occupata di me e del mio problema, nessuna cooperativa mi ha proposto una collaborazione, nulla di nulla". Daniele: Ma quando mai! Se lui si iscrive alle liste di collocamento e poi aspetta che il lavoro gli piova dal cielo, allora certo ha ragione… ma la vita e il mondo del lavoro vanno avanti e devi darti da fare, andare a bussare a tutte le porte. Non si può fare paragoni però con la condizione di un detenuto, che non ha nessuna possibilità di muoversi e andarsi a cercare un’opportunità fuori. Ornella: Fuori ormai c’è una categoria di disagio, di gente che non trova lavoro, che ha difficoltà a sopravvivere, difficoltà a mantenere la famiglia, lavori temporanei che non ti garantiscono il passaggio da un’occupazione all’altra, e questo tipo di lavoratori è per lo più indifeso perché è ricattabile. Secondo me quella di Franco è un’osservazione giusta di cui va tenuto conto, perché è vero che ci sono intere categorie che non hanno nessuna forma di tutela, mentre per il detenuto qualche piccola tutela esiste. Quello che invece lui forse trascura, e su questo concordo, è che la possibilità di fare qualcosa da solo del detenuto è ridottissima. Io trovo molto intelligente la lettera, il che non vuol dire che la prendo come oro colato, ma penso che ci dà uno stimolo a discutere e a cercare di capire il punto di vista di tante persone fuori. Basta pensare che la legge Smuraglia, con gli sgravi fiscali per i detenuti, è stata molto avversata, perché erano in tanti a ritenere ingiusto considerare i detenuti soggetti svantaggiati. Paolo: Le due lettere sono comunque di persone che hanno accettato un dialogo. Gli si può fare delle obiezioni, ma senza dimenticare che parlano con noi e che cercano di ragionare, e a me questo sembra positivo. Nicola: È interessante quello che dice Franco, che è una persona che lavora, inquadrata ad un 7° livello che è una posizione alta, e non posso che complimentarmi con lui per la crudezza e il realismo con cui descrive la situazione del mondo del lavoro, ma mi piacerebbe approfondire il suo discorso sui "superprotetti", quelli che lui descrive così: "Una parte del paese continua a vivere come se nulla fosse accaduto, a lavorare 6/7 ore al giorno, a prendere ogni tanto una settimana di ferie per riposarsi e dedicarsi a ciò che più piace". Ornella: Per superprotetti lui sicuramente intende il lavoratore con un lavoro fisso, magari statale, con la pensione e tutti i diritti. Mentre adesso sta crescendo una nuova categoria di lavoratori, che non hanno le tutele a livello sindacale che c’erano una volta. Questo secondo me è il suo concetto. I detenuti non c’entrano in questo. Però mi fa pensare il fatto che quello che qualche anno fa era un desiderio di tutti, lavorare meno ore, con ritmi più umani, adesso sia visto solo come un privilegio, una vita da parassiti. Nicola: Io mi chiedo come cavolo hanno fatto (quelli che stanno fuori, io sono "dentro" da 24 anni) a lasciare che tutto quello che i nostri genitori avevano ottenuto con vere battaglie, con anni di attivismo sindacale, fosse distrutto, annullato, questo proprio non riesco a capirlo. Ornella: Ma il mondo in questi anni si è trasformato, l’immigrazione, la globalizzazione non sono fenomeni di poco conto. Il problema poi è che il sindacato non ha molte possibilità di tutelare questi nuovi lavoratori, perché la grande novità è la frammentazione, la divisione, l’isolamento, cioè tu non ti iscrivi al sindacato perché sei ricattabile, e se ti iscrivi rischi che ti licenzino e assumano un altro. Ed è talmente numeroso l’esercito di persone che si offrono a costo più basso (immigrati, emarginati in generale), che davvero poi si finisce per accettare qualsiasi condizione pur di mantenere il posto di lavoro. Ahmet: A me sembra che i nostri due lettori non ci hanno scritto per farci sapere che siamo dei fortunati, ma piuttosto per farci sapere che la vita fuori di qui non è rose e fiori. Ornella: Non vorrei che voi credeste che chi ci scrive pensa solo che i detenuti siano dei privilegiati e che chi sta fuori invece lavora senza diritti e altro. Non è così, la posizione è molto più intelligente e articolata. Più che altro dice semplicemente che la vita "fuori" è cambiata, cioè non succede più che i detenuti sono soggetti svantaggiati e quelli fuori hanno tutte le tutele, non è più così. Quindi ci sono delle situazioni dove veramente i detenuti non sono gli ultimi degli ultimi, ci sono delle categorie o delle fasce di popolazione che hanno ancora meno diritti. Elton: Quando abbiamo letto la frase su cui stiamo discutendo, anch’io ho avuto la stessa reazione negativa, perché per principio non sopporto chi fa dei paragoni tra chi è dentro e chi è fuori, e riguardo a quel ragionamento anch’io sono d’accordo con Daniele, che dice che è un’assurdità fare questi confronti. Poi leggendo tutta la lettera l’ho trovata molto stimolante. Presentare ai detenuti una situazione del genere, l’incubo che i lavoratori si trovano a vivere oggi, è molto interessante e produttivo, perché apre loro gli occhi su cosa sta succedendo fuori, e questo è importante soprattutto per chi è prossimo a uscire. Per tornare invece al paragone che anch’io rifiuto, cioè al fatto che noi abbiamo dei volontari o delle associazioni che ci tutelano, su questo non sono d’accordo. In 7 anni di carcere noto sì la presenza di volontari, che mi hanno anche aiutato ad avere qualche beneficio come quello di poter frequentare questa redazione, ma all’infuori di questo non mi hanno particolarmente tutelato e non sono l’unico a vivere questa situazione. In molti la pensano come me. Già il fatto che qui abbiamo dei detenuti che lavorano nei capannoni e fanno bene il loro lavoro e poi qualcuno offre lo stesso servizio ad un costo più basso e loro rischiano di perdere il lavoro, allora dov’è la tutela? Neanche loro sono tutelati, quindi anche i pochi detenuti che hanno un lavoro sono nelle stesse condizioni di quelli fuori. Il nocciolo del discorso è che all’esterno sono avvenuti dei cambiamenti e che questi si riflettono anche su di noi, che lavoriamo all’interno del carcere per le cooperative. Quindi, se fuori le cose stanno peggiorando in questa direzione, anche all’interno del carcere per quei pochi che hanno il lavoro stanno cambiando nella stessa direzione. Ornella: In questa graduatoria fra chi è più o meno tutelato, può sembrare un paradosso ma oggi è più tutelato un detenuto rispetto a un ex detenuto, perché è più conveniente dare a lui un lavoro grazie agli sgravi che si possono ottenere assumendolo, quindi da questo punto di vista quando diventerà cittadino libero avrà qualche vantaggio in meno che non a essere dentro. Marino: Basta vedere quanti detenuti sono assunti dalle cooperative solo per il periodo che arriva al fine pena, e poi con varie motivazioni vengono licenziati. Elton: A mio avviso è ragionevole dire ai detenuti: guardate che fuori vi aspetta una situazione del genere e quindi quando uscite dovete avere bene in testa quello che andate a fare, perché il lavoro non è uno scherzo, al primo sbaglio vi trovate con il culo per terra. Questa è la direzione da seguire, e invece è meglio lasciar perdere il paragone tra chi è più tutelato, chi è dentro o chi è fuori, che non ci porta da nessuna parte.
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