Gianrico Carofiglio

 

Un’intervista a Gianrico Carofiglio nel suo ruolo di magistrato

Vent’anni di carcere possono essere veramente il massimo della pena

La pena dovrebbe essere più coerente a criteri di umanità, più mite per l’appunto, riducendo l’uso del carcere per utilizzare altre forme. Un esempio? La detenzione nei fine settimana, per ragazzi colpevoli di violenze allo stadio

 

(Incontro avvenuto nel marzo 2007)

 

a cura della Redazione

 

Nell’ultimo numero di “Ristretti Orizzonti” abbiamo pubblicato una intervista allo scrittore Gianrico Carofiglio, che è stato ospite nella nostra redazione. In questo numero invece pubblichiamo la seconda parte dell’intervista, o meglio, un’intervista al Magistrato Gianrico Carofiglio, talmente sdoppiato nel suo ruolo che ha scelto come protagonista dei suoi romanzi un avvocato, piuttosto che restare troppo legato, anche nel mondo della fantasia e della creazione letteraria, alla sua professione e alla sua esperienza lavorativa.

 

Alì Abidi (Ristretti Orizzonti): Nel suo ultimo libro, lei ha scritto che a volte i processi non viaggiano più nei loro binari precostituiti, e di questa circostanza si accorgono tutti. Cosa voleva dire? Che la giustizia cerca il colpevole ma non la verità, come ha scritto un altro Magistrato in un suo libro?

Gianrico Carofiglio: Qualche volta succede che i processi deraglino, ed è una sensazione strana, perché si ha l’impressione che da quella dimensione che per qualche aspetto è comunque fuori dalla vita reale, che è il processo, ti avvicini al mondo reale, che è anche la ricerca di una verità più sostanziale di quella, che è una verità approssimativa che si cerca e che si trova nei processi. Io ho un paio di ricordi che possono essere raccontati: uno lo ricordo nitidamente, ed è quello di un testimone che venne chiaramente in aula per fare falsa testimonianza. Fu interrogato a lungo dalla difesa, che lo aveva portato, temo anche consapevole del fatto che dovesse fare una falsa testimonianza, e poi fu interrogato a lungo da me. Si vedeva che all’inizio era molto teso, perché sapeva che io ero il pubblico Ministero e che lui era venuto a dire delle cose non vere, e che per questo era esposto a dei rischi, ed io come mia abitudine lo interrogai in maniera molto tranquilla.

Per inciso, interrogare in modo aggressivo è sempre una cosa stupida, non serve mai, sia che tu abbia davanti qualcuno che ha detto la verità sia che ti trovi davanti qualcuno che ha detto bugie. Perché se ha detto la verità è una cattiveria inutile, mentre se ha detto bugie, il modo migliore per farlo rinforzare nelle sue bugie è quello di aggredirlo. Quindi fu interrogato in modo tranquillo, come faccio di solito, e là qualcosa lo stupì: dopo un lungo percorso di domande, accadde che all’improvviso questa persona cambiò idea, e raccontò i fatti come stavano. Ecco, lì fu una sensazione davvero surreale. É capitato altre volte, ma quella volta fu molto forte, perché chiaramente era stato portato lì sostanzialmente minacciato per dire certe cose, e disse la verità non perché pressato da domande aggressive, o da una situazione che sembrava diventasse drammatica per lui, ma come risultato di un percorso che aveva generato un qualcosa, forse una forma di coscienza diversa della situazione, un recupero della dignità. Quella fu una situazione in cui ebbi l’impressione che dalla formalità della situazione processuale, che peraltro io conosco e conoscevo molto bene, perché ormai sono vent’anni che faccio il Magistrato, si andasse su una dimensione diversa, quel deragliamento di cui si parla nel libro.

Il processo a volte cerca una verità qualsiasi e non la verità, è vero, ma non bisogna credere che sia sempre così e non bisogna credere che tutti i protagonisti del processo si muovano in questo senso. Lo sforzo di molti, che facciano il Pubblico Ministero o altro, è quello, pur consapevoli del fatto che si tratta di un meccanismo imperfetto – e che la verità vera, qualsiasi cosa significhi l’espressione, non verrà trovata mai – di cercare di avvicinarsi il più possibile alla verità. È necessario essere consapevoli del fatto che è un meccanismo imperfetto, e che tutti quelli che vengono coinvolti in un processo quasi sempre sono convinti che il processo abbia fallito nel suo compito, perché tutti quelli che sono coinvolti nel processo sono portatori di una propria personale verità, che è diversa da quella degli altri. Per il solo fatto di essere persone, che vedono il mondo in maniera diversa. Se io e lei dovessimo raccontare, fra tre giorni, quello che è successo qui oggi pomeriggio, lo racconteremmo in modo diverso: non perché vogliamo mentire, ma perché percepiamo le cose in maniera diversa, le rielaboriamo in maniera diversa. Per cultura, per storia personale e tutto il resto. È ovvio che chi dovesse ascoltare queste cose, sarebbe costretto a fare una mediazione di queste verità personali che non sono né vere né false per il fatto di essere diverse, ma appunto sono personali.

Bisogna essere consapevoli, da parte di chi fa il mio lavoro, che laddove non si abbia una approssimazione accettabile di come i fatti sono andati veramente, bisogna assolvere l’imputato che ci si trova di fronte. E poi bisogna avere anche la consapevolezza che il processo è un male necessario che implica a volte delle conseguenze – e non devo dirlo certamente a voi – che certamente possono essere di notevolissimo peso sulla vita delle persone, ma anche quello che è successo prima a volte lo è stato.

 

Alì Abidi: Sempre in uno dei suoi libri ha detto che nei processi e nei tribunali esistono delle regole non scritte, che però vengono rispettate con molta attenzione e cautela. Fra queste c’è una regola che, più o meno, dice che “un avvocato non difende un cliente buttando a mare un altro collega. Non si fa e basta. Chi viola queste regole solitamente la paga”. Da dove deduce queste sue affermazioni e in che modo avviene il “pagamento” del torto fatto?

Gianrico Carofiglio: Le rispondo come rispose un ispettore della squadra mobile quando una volta gli chiesero: “Come ha fatto lei a capire che quel certo comportamento significava questa cosa?”. L’ispettore rispose: “Vent’anni di squadra mobile”. Io invece le rispondo: vent’anni di Procura della Repubblica, o poco meno. Lo capisci perfettamente, se ti trovi in certe situazioni, che alcune cose non si fanno perché sono vietate, perché fanno parte di un codice assolutamente inesistente che però viene applicato da quasi tutti. Quando uno le viola viene messo all’indice, viene isolato. Ho presente alcuni avvocati che conosco, che alcune volte hanno violato queste regole, e gliel’hanno fatta pagare. Non certo sparandogli, ovviamente, ma isolandoli e mettendoli all’indice come degli infami, dei traditori della categoria, traditori di quel sistema di regole che è tanto più forte quanto meno esplicito. Questo capita anche in altre categorie professionali: l’idea che non si butta a mare il collega, che non si denuncia il collega anche se ha fatto una porcheria, è un’idea forte. Anch’io mi sono trovato ad avere una serie di non piccoli problemi, per avere violato, nel mio ambito, la regola che ci si fa i fatti propri. Scopri che il collega fa qualche porcheria, che di solito si tollera, ma io non ci sono stato ed hanno cercato di farmela pagare in tutti i modi; poi non ci sono riusciti, ma capisci che alcuni meccanismi rischiosi, tipici di ambienti dell’illegalità, fanno parte anche di ambienti della cosiddetta legalità.

 

Emilio Coen (TG 2 Palazzi): Nell’ambito del giudizio dei magistrati, o dei giudici, esiste veramente il ragionevole dubbio?

Gianrico Carofiglio: Esiste assolutamente. Le posso assicurare che, salvo casi patologici che ci sono dappertutto, i magistrati che vanno in camera di consiglio – e anche molti dei Pubblici Ministeri, ma più frequentemente è quasi fisiologico che il Pubblico Ministero, non dovendo poi fare la sentenza, a volte abbia un’attenzione minore anche se alcuni ce l’hanno accuratissima – davvero si pongono tutte le questioni possibili quanto all’esistenza del dubbio sulla responsabilità dell’imputato. Quindi da questo punto di vista mi sento tranquillamente di rassicurarla. Questo non significa che siano infallibili e che non sbaglino come di fatto capita in tanti casi, ma la cultura dei magistrati, e soprattutto dei magistrati giudicanti, è una cultura impregnata della consapevolezza che se c’è dubbio si assolve.

 

Daniele Corradini (Polo universitario): Perché è così osteggiata dai magistrati la separazione delle carriere?

Gianrico Carofiglio: Ci sono due motivi, uno buono ed uno cattivo. Quello cattivo è di tipo corporativo, cioè la corporazione dei magistrati, Pubblici Ministeri e giudici, ritiene in qualche modo, inconsapevolmente anche, di perdere potere nella separazione delle carriere. Questo è il motivo sbagliato, negativo, che però riguarda qualcuno e che c’è come sottofondo, che andrebbe però escluso dall’orizzonte concettuale. Il motivo buono, e che io sottoscrivo dicendo che non sono d’accordo sulla separazione delle carriere – anche se sono del tutto favorevole a delle più chiare distinzioni di funzioni per evitare che succedano cose di quel genere o altre – è che con la separazione delle carriere il Pubblico Ministero acquisti sempre più una cultura di tipo poliziesco. Non c’è nessuna espressione di disprezzo in questo senso, ma la cultura di tipo poliziesco è quella che essenzialmente mira a scoprire un colpevole, mentre la cultura di tipo giurisdizionale e giudiziario è quella che tendenzialmente dovrebbe mirare a scoprire la verità, ammesso che questo sia possibile.

Se il Pubblico Ministero viene spostato dal quadro culturale del giudice, ed avvicinato più al quadro giudiziario della polizia – ripeto, con tutto il rispetto per il lavoro delle forze di polizia, sono miei fratelli, ci campo assieme – il rischio è quello che si perda sensibilità per la necessità di provare, per il dubbio ragionevole, quindi per le garanzie dell’imputato. E in questo chi ha da perdere sono in generale i cittadini. Il Pubblico Ministero che ragioni da un lato come un investigatore, ma dall’altro lato come un giudice – naturalmente con un sistema migliore di quello che abbiamo adesso – è una garanzia per tutti quanti. Io credo che chiunque preferirebbe avere davanti un Pubblico Ministero disposto in ogni momento a valutare le ragioni dell’imputato, che è un atteggiamento del giudice, piuttosto che un Pubblico Ministero essenzialmente orientato a incastrare la persona di cui si sta occupando. Questa è la buona ragione per cui molti di noi ritengono sbagliata la separazione delle carriere.

 

Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Ma concettualmente la posizione dei Pubblici Ministeri è questa, cioè di trovare le prove per incastrare l’accusato.

Gianrico Carofiglio: Sì e no. In parte è così, ed è una situazione di fatto, ma tenga conto che un Pubblico Ministero, inserito nella carriera dei giudici, studia con e come i giudici, è costretto a ragionare più o meno come io sto ragionando con voi adesso.

 

Sandro Calderoni: Infatti, secondo me, lei come Pubblico Ministero è un po’ anomalo…

Gianrico Carofiglio: Prendo atto di quello che lei dice. È vero che ci sono molti Pubblici Ministeri che ragionano nel modo in cui dice lei, ma molti altri che ragionano così come sto ragionando adesso io con voi. Allora, la professione del Pubblico Ministero è in bilico tra queste due possibilità: se il Pubblico Ministero viene risucchiato soltanto nell’orbita culturale dell’investigazione poliziesca, allontanato dall’orbita culturale del processo, sempre di più saranno quelli che ragionano come dice lei, che certamente ci sono, e non va bene. Se invece il Pubblico Ministero viene mantenuto nell’orbita culturale del giudice, anche se naturalmente molte cose vanno modificate per migliorare l’attuale situazione, è probabile che ci siano sempre più persone che ragionano come ragiono io adesso.

 

Marino Occhipinti: Per uscire un po’ dal tecnico ma rimanendo sempre nell’ambito della sua professione, come vede lei come Magistrato il modo in cui vengono presentati all’opinione pubblica, da parte degli organi di informazione, i processi, i fatti criminosi che accadono, e le pene? Mi spiego: recentemente in una trasmissione, Porta a porta, hanno detto che tra sette anni e mezzo i due autori della strage di Erba potranno andare in permesso premio. In via teorica potrebbe essere anche possibile, ma credo che con questa affermazione si disinformi e si terrorizzi, che si crei dell’allarmismo inutile...

Gianrico Carofiglio: Qui parliamo del malcostume giornalistico. Vedete, noi ci troviamo in Italia ma in realtà è una tendenza non solo italiana, in cui la notizia brutta fa vendere i giornali, mentre quelle buone – e ce ne sono, e la cosa insopportabile è che ce ne sono di tanti tipi – non sono notizie, ma chi se ne frega. E quindi le brutte notizie fanno scandalo e piacciono, perché uno si può arrabbiare, si può indignare gratis, nel sentire sciocchezze di questo genere. Poi lei in realtà ha citato una trasmissione dove di sciocchezze se ne sentono un bel po’, in cui la pratica di questo giornalismo discutibile è abbastanza intensa. Rispetto a questo, come rispetto ad altre cose, bisogna esercitare il senso critico, che poi non è una cosa complicata, e voi lo sapete meglio di me, e sta nella capacità di farsi delle domande.

 

Marino Occhipinti: Ma io credo che il 90 per cento delle persone che assistono ad una trasmissione credano a ciò che ascoltano…

Gianrico Carofiglio: Proprio per questo è una ragione in più per discuterne, come stiamo facendo noi adesso, per esercitare il senso critico, che significa non accontentarsi delle cose preordinate e belle pronte. Vi ricordate l’aviaria? Uno scandalo di proporzioni colossali, e mentre se ne parlava ricordo che dissi che per me era una bufala gigantesca inventata dalle industrie farmaceutiche per obbligare, come di fatto è accaduto, gli stati, l’Italia per prima, a comprare centinaia e centinaia di milioni di vaccini inutili, pompando e manipolando gli organi di informazione. Era chiaro, era chiarissimo, eppure il paese, la comunità internazionale, è stata appesa a questa idiozia per tre mesi, poi letteralmente, da un giorno all’altro, la questione è finita: quando gli acquisti erano stati effettuati e quindi non c’era più bisogno dell’allarmismo. Su questi e su altri temi bisogna usare l’intelligenza, consapevoli del fatto che il giornalismo deteriore come questo può fare danni anche molto seri, e consapevoli anche del fatto che noi abbiamo comunque – per guardarla da un altro punto di vista – un sistema giudiziario e in generale un sistema di norme che funziona male, che per certi aspetti è spietato e per altri aspetti è eccessivamente lassista e incapace di far percepire la forza delle regole.

 

Altin Demiri (Ristretti Orizzonti): Quando i detenuti entrano in carcere, hanno paura di perdere l’amore, di perdere le relazioni con gli altri, di perdere i propri cari. Leggendo le storie dell’avvocato Guerrieri abbiamo trovato che è una persona trasgressiva, alla quale piace la vita, le belle donne. Lei come uomo, prima che come Magistrato, cosa ne pensa della mancanza di relazioni fra uomo e donna in carcere e delle “stanze dell’affettività”?

Gianrico Carofiglio: Questo è un problema serio che in realtà si inserisce in un quadro più ampio: cos’è la pena? Non è chiaro neanche agli addetti ai lavori, perché si oscilla fra interpretazioni diverse, e cioè se la pena sia uno strumento di rieducazione, se sia uno strumento di punizione, oppure uno strumento di prevenzione di altri reati. Fino a quando non c’è totale chiarezza su questo punto, e in parte sarà impossibile che si arrivi a una totale chiarificazione – perché probabilmente la pena ha tutte queste funzioni insieme – sarà difficile risolvere una serie di questioni tipo quella che solleva lei. Io in generale, senza entrare nel dettaglio della specifica questione delle stanze dell’affettività, o di soluzioni di questo genere, sono del parere che le pene dovrebbero essere più miti e più certe contemporaneamente. Nei paesi in cui c’è la pena di morte, non sono paesi in cui i reati con la pena capitale calino, perché quello che spaventa, quello che inibisce dalla commissione di reati, non è il fatto che ci sia una pena spaventosa, ma invece – e infatti nei paesi in cui questo accade la riduzione dei reati esiste – che ci sia una pena certa. È molto meglio una pena certa a 15 anni, che l’ergastolo probabile o solo possibile. La pena dovrebbe essere più coerente a criteri di umanità, più mite per l’appunto, riducendo l’uso del carcere per utilizzare altre forme. Oggi ero in una scuola e parlavo di temi affini a questo, e facevo l’esempio di una pena che da noi non esiste, che è la detenzione domiciliare del fine settimana: sarebbe uno straordinario strumento di inibizione di una serie di reati commessi soprattutto da giovani, senza nessun effetto criminogeno. Voi sapete meglio di me – non certo in istituti come questo in cui c’è gente che deve stare un po’ di tempo, e che quindi ha un’elaborazione diversa da altri casi – che spesso la detenzione, soprattutto nella forma della custodia cautelare, ha l’effetto che una persona va lì, sta poco e impara cose che non dovrebbe, e in certi ambienti, il fatto di fare la prima detenzione è quasi una sorta di acquisizione di punteggio.

Quindi io penso a pene miti come la detenzione nei fine settimana, che per un ragazzo che ha fatto delle sciocchezze inerenti ad esempio l’uso della violenza allo stadio o cose di questo genere, sarebbe una afflizione, una inibizione dal commettere reati senza quegli effetti criminogeni di produzione di ulteriore crimine, che determinano poi l’inserimento nel circuito carcerario. Pene più miti possono essere previste assieme a un sistema giuridico più efficiente, e quindi è un discorso che si può fare se si parla di una rimodulazione di tutto il sistema della giustizia, in cui noi fossimo in grado di dare risposte più rapide, sia investigative che processuali. E naturalmente, in un quadro di questo genere, certo vedrei con molto favore tutte quelle misure che consentissero un’effettiva e progressiva rieducazione e riadattamento di chi ha sbagliato e si trova a pagare per aver sbagliato.

 

Elton Kalica: Il fatto è che sui temi della Giustizia sembra impossibile fare dei passi avanti perché si trova sempre un muro causato dalle leggi emergenziali. Ad ogni richiesta, riguardante per esempio le telefonate e i colloqui, ci si sente rispondere che non si possono allargare le maglie perché altrimenti i mafiosi ne approfittano per mandare ordini all’esterno. Siccome le leggi emergenziali sono state fatte in momenti di emergenza, quindi per affrontare uno stato eccezionale, dovrebbe esserci anche una fine, una conclusione. Però in Italia pare che le leggi emergenziali vadano avanti per decenni o per sempre. Lei crede che avranno un termine o si continuerà così?

Gianrico Carofiglio: Intanto voglio darvi un’informazione. Le nostre leggi emergenziali sono molto più miti di quelle di altri paesi. Per esempio in Gran Bretagna, quando processarono i terroristi dell’Ira, cancellarono letteralmente tutte le regole del processo anglosassone, e per molto tempo. Questo per dire che le leggi emergenziali esistono pure negli altri paesi, e anche se io non sono d’accordo, i terroristi dell’Ira furono processati senza giuria, con giudice singolo, giudice spesso mascherato, con regole di acquisizione della prova che significavano prova scritta e non in un dibattimento pubblico, con esame e controesame e tutto il resto. Ci sono paesi europei civilissimi, ad esempio l’Olanda, in cui è ammessa la prova anonima. Sembra allucinante ma è così: un testimone di cui non si conosce l’identità, che quindi non vedi, del quale non si conoscono le generalità, un testimone incontrollabile, mentre voi sapete che in Italia il dibattimento pubblico prevede l’esame e controesame, e il controesame serve proprio per controllare se il testimone è attendibile oppure no. È l’arma più forte nelle mani della difesa correttamente praticata: se io voglio sapere se un teste è attendibile o no, devo sapere chi è. Un conto è se il teste si chiama Pinco Pallino, un altro conto è se si chiama Billy the Kid. Un conto è se uno ha cinque pagine di certificato penale, un altro conto è uno che ha fatto sempre il chierichetto. Se io non so chi è il testimone, mi viene tolto l’80 per cento delle possibilità per verificare se un è testimone attendibile, quindi viene tolta all’imputato la possibilità di difendersi in maniera efficace. Perciò attenzione, non è l’Italia il paese della legislazione di emergenza, per lo meno non solo.

Non c’è dubbio che esista un problema di eccessiva durata delle norme emergenziali, in parte però legata al fatto che alcune emergenze non sono affatto finite. Una migliore modulazione dei meccanismi di applicazione dei regimi differenziati certamente è auspicabile. Quindi io sono del tutto d’accordo sulla necessità di modulare meglio sia i meccanismi di regime differenziato, sia ancora – ove possibile – anche la distinzione fisica dei luoghi di collocazioni dei comuni e dei non comuni, tanto per intenderci. È una questione delicata di cui bisognerà occuparsi seriamente: io tra non molto andrò a fare il consulente della Commissione parlamentare antimafia, e questi sono temi di cui sicuramente ci occuperemo. Cercando di migliorare da un lato l’efficienza, e dall’altro le garanzie di chi non è coinvolto in quel circuito, ma ci viene trascinato da quei meccanismi repressivi.

 

Ornella Favero: Noi conosciamo già il suo parere negativo sull’indulto, ma molto ipocritamente volevamo porre la domanda al protagonista dei suoi romanzi, l’avvocato Guerrieri, su cosa pensa dell’indulto.

Gianrico Carofiglio: Ne penserebbe male, perché credo che l’indulto non sia una cosa rieducativa, così com’è stato concepito. Non sopravvaluterei però il fatto che chi è tornato fuori è tornato a delinquere, anche perché la percentuale è relativamente fisiologica, ma penso che sia diseducativo in un sistema processuale poco funzionante come il nostro, in cui si arriva a sentenza definitiva con estrema fatica, con mille ostacoli, con meccanismi farraginosi, e poi senza una vera ragione – che non fosse quella che è il riconoscimento di un’incapacità dello Stato, che è dire che le carceri sono piene – fare un provvedimento di clemenza è qualcosa di poco comprensibile per i cittadini, poco comprensibile anche per gli addetti ai lavori. Io concordo in pieno sul fatto che in presenza di alcuni problemi, nel caso di specie il sovraffollamento penitenziario, forse potesse essere giusto assumere delle determinazioni.

Allora io avrei fatto in modo che chi aveva ancora tre anni da scontare, andasse a farli in detenzione domiciliare, con anche la possibilità di andare a lavorare. Quindi dormiva a casa e andava a lavorare fuori, questo per chiarire come io non sia spietatamente contrario, anzi, perché non è che dico di stare in carcere e basta, ma quella sarebbe stata una misura utile per decongestionare le carceri, educativa perché avrebbe creato un diaframma fra detenzione carceraria e riacquisto completo della libertà, senza però comunicare agli altri cittadini che a chi ha sbagliato e sconta una pena gli si fa un regalo e si fa l’indulto, che ci ha costretto a lavorare a macinare l’acqua. Il mio discorso si inserisce in un’idea mite della pena, e non vedo quali controindicazioni ci sarebbero state, se non quella di lavorare un po’ di più a scrivere una norma più completa. La mia idea è questa; mi rendo conto che non può essere condivisa, ma la sostengo e ne sono assolutamente convinto.

Aggiungo che, dopo aver fatto l’indulto, che è una tipica mezza misura, a quel punto il legislatore doveva almeno avere il coraggio di fare l’amnistia, perché adesso c’è anche la grottesca situazione per cui si fanno i processi per nulla, e cioè per applicare pene che verranno completamente condonate, il che significa buttare i soldi del contribuente e le energie degli organi investigativi e giudiziari, che invece potrebbero essere utilizzate meglio. Quindi, a questo punto, sono a favore di un provvedimento di amnistia, e ditemi cosa ci sarebbe di incoerente nella mia idea sull’indulto, che per certi versi è stato deciso anche per sistemare alcuni conti personali.

 

Marino Occhipinti: Io francamente non sono molto d’accordo. Con l’indulto sono uscite all’inizio circa 15mila persone, che sono poi aumentate a 20-25mila nei mesi successivi. Lei parla di detenzione domiciliare con possibilità di andare a lavorare, ma non crede che se queste persone avessero avuto una casa e un lavoro, sarebbero già state fuori? Il problema era proprio quello, che in carcere erano rimaste moltissime persone con pene sotto ai tre anni, definiamole le più sfigate: stranieri, tossicodipendenti, che nella maggioranza dei casi non avevano né un’abitazione, né un lavoro. Sa cosa succede poi? Che ad esempio a Palermo, alcuni ex detenuti usciti con l’indulto si sono dovuti incatenare in piazza per cercare di avere un lavoro. Io credo che ci siano anche persone che quando escono vorrebbero rimettersi a lavorare, a fare una vita onesta, magari non tutte, però si devono incatenare per cercare di ottenere un lavoro, e lei sa meglio di me che in certe realtà del paese è più facile poi rivolgersi agli amici di prima piuttosto che rimettersi sulla strada giusta, proprio per mancanza di opportunità.

Gianrico Carofiglio: Proprio di fronte a quello che dice lei, che in buona parte corrisponde alla realtà dei fatti – non del tutto ovviamente, perché non erano tutti sfigati o tossicodipendenti o stranieri, e per gli stranieri per esempio si poteva pensare ad ipotesi di provvedimenti di espulsione – dico solo che l’indulto, nel migliore dei casi è stato fatto in modo un po’ troppo semplicistico, è questa la mia opinione gravemente negativa sul provvedimento: che si è buttata improvvisamente gente per strada.

 

Marino Occhipinti: Guardi che anche noi ci lamentiamo molto del fatto che l’indulto poteva esser organizzato meglio, ma era un’occasione storica da sfruttare in quel momento particolare, che altrimenti non ci sarebbe stato più, perché la situazione politica è questa: la maggioranza qualificata dei due terzi dei parlamentari della Camera e del Senato è praticamente irraggiungibile…

Gianrico Carofiglio: Infatti non è in discussione la clemenza in sé, la clemenza andava anche bene, però un conto è la clemenza intelligente calata in un progetto che abbia senso, un altro conto sono le cose che sfiorano la cialtroneria solo per agevolare qualcuno. Sono del tutto d’accordo se mi si dice che c’è un’esigenza e che è necessario affrontare il problema, ma dico che quel modo di affrontare il problema, se non il peggiore, era uno dei peggiori.

 

Alì Abidi: Lei ha detto che a causa dei suoi conflitti interni si è messo a scrivere. Secondo lei può succedere che, a causa di malumori, i giudici possano sbagliare? A lei è mai capitato di avere la giornata sbagliata e quindi di giudicare male?

Gianrico Carofiglio: Sicuramente ho avuto la giornata sbagliata, e sicuramente ho giudicato male. Mi sento però di dire, con molta franchezza, di aver sempre cercato di mantenere la consapevolezza di avere di fronte delle persone, che è la chiave di tutto. Ho sempre cercato di dirlo anche agli uditori giudiziari, e cioè ai magistrati giovani che vengono affiancati ai magistrati più anziani per imparare il lavoro. Tra l’altro in questi anni mi sono successe un sacco di cose strane, e cioè che si creassero rapporti strettissimi, delle simpatie, con persone che ho fatto arrestare e condannare. Ad esempio ricevo i saluti – ma saluti veri, non minacce velate – da persone che ho fatto condannare per reati di mafia; l’ultimo è stato pochi giorni fa, ed era uno che aveva preso 26 anni e mezzo soltanto per associazione, un’associazione abbastanza pericolosa della quale lui era il capo supremo. Mi ha mandato a dire, tramite i suoi avvocati, che ha letto i miei libri, che gli sono piaciuti, e che mi stima perché ho soltanto fatto il mio lavoro. Queste sono cose che fanno piacere, e guardate che non sto parlando di collaboratori di giustizia, che sarebbe più facile, ma di casi di persone davvero pericolose, almeno all’epoca. E con tante persone detenute, nel corso delle pause dei processi, mi sono trovato a scherzare e a chiacchierare in maniera quasi amichevole. Questo non ci può essere – fermo restando il fatto che io faccio la mia parte e tu la tua se non c’è un rapporto di rispetto reciproco.

 

Elton Kalica: Ma lei non crede che 26 anni per un traffico di stupefacenti siano troppi?

Gianrico Carofiglio: Sì, credo che siano troppi, sono d’accordo. Sono delle condanne assurde, non c’è dubbio che in certi casi ci sia il problema di rivedere le pene, e difatti riscriverei le leggi che prevedono pene così esagerate in materia di stupefacenti.

 

Marino Occhipinti: Ad esempio, proprio fra di noi c’è Elton, che ha fatto, quando aveva vent’anni, un sequestro di persona – e non lo faccio per banalizzare né per giustificare – per il quale sarebbe stato più da prendere a schiaffi che da infliggergli 17 anni di carcere, anche perché per i sequestri di persona non è previsto alcun tipo di beneficio e quindi molto probabilmente se li dovrà fare tutti, mentre invece ci sono persone che magari hanno commesso degli omicidi, che non sono certamente meno gravi, e che però possono usufruire della legge Gozzini.

Gianrico Carofiglio: Guardate, su questo argomento trovate una porta spalancata. Vi dico di più: secondo me, ad esempio, dovrebbe essere prevista la possibilità di patteggiare per qualsiasi reato, con limiti amplissimi come esiste nei sistemi angloamericani, dove per un sequestro di persona patteggi otto anni e vengono meno tutte le limitazioni ai benefici penitenziari.

 

Altin Demiri: Cosa ne pensa dell’ergastolo e quale sarebbe per lei la pena massima da infliggere, se si pensa davvero che una persona in carcere possa maturare e cambiare?

Gianrico Carofiglio: Io sono favorevole che l’ergastolo rimanga come sanzione prevista, anche perché, come voi sapete, i casi di ergastolo realmente scontati sono abbastanza rari. Come dicevo prima, la pena ha varie funzioni, tra cui anche la funzione simbolica: comunica con il mondo esterno, comunica con le vittime dei reati, e il fatto stesso che si dica che per un certo reato viene applicato l’ergastolo è un’idea giusta, anche se poi non verrà mai realmente eseguito, e in questo senso vanno rafforzati i meccanismi di semplificazione di esecuzione della pena, per far sì che sia veramente un’ipotesi residuale. Però lei si immagini il caso di una madre che ha visto il proprio figlio torturato e ucciso da qualcuno: qualsiasi pena diversa – prescindiamo dalla pena di morte – dall’ergastolo, è una pena offensiva rispetto ad un’ipotesi di questo genere, fermo restando che anche chi ha commesso queste cose può cambiare, e si spera che cambi, e potrà essergli garantita la possibilità che non trascorra tutta la vita in carcere. Io sono favorevole che la pena dell’ergastolo, anche solo come fatto simbolico, rimanga nell’ordinamento.

La pena massima da infliggere invece, dipende dai singoli casi. Ad esempio in Germania la pena massima prevista è di 15 anni, e pur con tutto il discorso che abbiamo fatto sulla mitezza, se mi immagino la mamma che ha visto il figlio stuprato e ucciso, e vede dare 15 anni all’assassino, insomma mi vengono un po’ i brividi. Comunque credo che anche per le situazioni più gravemente compromesse, vent’anni di carcere possono essere veramente il termine massimo, perché sono davvero il cambiamento di un’esistenza, però in astratto è difficile da stabilire. Tenete comunque presente che vi è una differenza tra civiltà delle pene e l’esigenza di ripristinare in tutti i sensi, nei limiti del possibile ovviamente, il danno che il reato ha prodotto: voglio dire che è necessario che, anche dal punto di vista simbolico, alcuni significati vengano rispettati.

 

Ornella Favero: A me però non piace molto questa idea che abbiamo bisogno di pene simboliche. Recentemente è stata qui in redazione Olga D’Antona, che ha avuto il marito ucciso dalle Brigate rosse, e lei per esempio ha dato una lezione straordinaria, perché ha ammesso di essere una persona fortunata perché non è capace di odiare. Mi sembra più simbolica e anche più importante la capacità di non odiare, e l’ergastolo è difficile non vederlo come un sistema di odio.

Gianrico Carofiglio: Ma estremizzando questo discorso, allora qualsiasi pena detentiva può essere vista come un sistema di odio. La capacità di perdonare è una sana pratica da esercitare con noi stessi, ma non può essere una cosa da pretendersi da chi ha subito magari dei dolori straordinari. A tutti, me compreso, piace una donna come la D’Antona che ha la forza morale, il coraggio e l’integrità psicologica per dire queste cose, ma queste sono cose che uno costruisce dentro di sé, che non possono essere pretese dagli altri. E comunque, quando parlo della pena simbolica dell’ergastolo, non alludo all’esecuzione reale, ma al carattere appunto simbolico dell’applicazione di quella pena, del significato di una parola che in qualche modo può creare un processo di cicatrizzazione di ferite profonde subite dalle vittime. Sono due cose un po’ diverse. Io non sto dicendo che una volta applicato l’ergastolo una persona debba stare in carcere fino all’ultimo dei suoi giorni, dico una cosa ben differente. Si potrebbe ad esempio abolire l’ergastolo e stabilire trent’anni come pena massima, ma sarebbe soltanto un gioco di parole e di prestigio, e allora confermo quello che ho detto prima, e cioè lasciare l’ergastolo mantenendo fermo che una possibilità deve essere data a tutti. Oppure l’alternativa sarebbe quella di adeguarsi al sistema tedesco, che prevede i 15 anni di pena massima, che magari si riducono a 10 con i benefici, e cosa si risponde ad una persona alla quale è stato violentato e ucciso il figlio, che dopo 10 anni si ritrova per strada il violentatore e assassino?

 

 

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