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Un incontro in redazione con Federica Brunelli, mediatrice penale Dobbiamo avere la forza di ascoltare Vittime che parlano all’interno di un carcere, autori di reato che imparano a stare a sentire la loro sofferenza
(Incontro avvenuto nel marzo 2008)
a cura della Redazione
Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione penale minorile di Milano, la conosciamo bene, l’abbiamo già intervistata, conosciamo la sua competenza su un tema delicato come il rapporto tra vittime e autori di reato. L’abbiamo invitata in redazione perché ci aiuti a preparare questa Giornata di studi così complicata, che stiamo organizzando nel carcere di Padova, alla quale abbiamo dato un titolo molto impegnativo, “Sto imparando a non odiare”. Ornella Favero: Vorrei cominciare la discussione da due posizioni, che si sono delineate nella nostra redazione, rispetto alla Giornata di studi sul rapporto tra vittime e autori di reato: alcuni sostengono che si devono invitare proprio tutti, anche rappresentanti di Comitati che sono schierati su posizioni molto dure, altri dicono di no, perché, volendo impostare l’incontro sull’imparare a non odiare, lo scopo non è di fare una iniziativa rappresentativa di tutte le tendenze, ma di misurarci a partire dall’esigenza di un confronto e un dialogo, non di un clima di scontro. Su questo quindi ci piacerebbe sentire il tuo parere. La seconda questione riguarda gli ex terroristi. Il Magistrato di Sorveglianza di Padova ci aveva detto che gli piacerebbe che fosse invitato a intervenire un ex terrorista pentito, però noi abbiamo delle riserve sul come organizzare questo confronto. La prima osservazione è che, se noi abbiamo deciso di ascoltare le vittime, dobbiamo rispettare il fatto che qualcuna di loro non se la senta di confrontarsi con degli ex terroristi, però è altrettanto vero che, se una vittima ritiene che un ex terrorista debba essere escluso, per esempio, dalla possibilità di avere un ruolo importante nelle Istituzioni o di essere candidato alle elezioni, come è successo con D’Elia, allora naturalmente sarebbe interessante che anche gli ex terroristi esprimessero le loro ragioni, quindi anche questa è una situazione problematica che ti sottoponiamo. La terza questione, siccome tu sei proprio una esperta in mediazione, riguarda come gestire una Giornata di confronto fra vittime e autori di reato, perché è davvero molto complicata, intanto qui ci sono e saranno presenti molti autori di reato, non reati di terrorismo, ma reati comuni, e forse servono anche delle regole su come dialogare in una situazione così delicata. Per esempio oltre alla redazione ogni anno partecipano alle nostre Giornate di studi più di cento detenuti del carcere, che però non sono, come noi, abituati a discutere di questi temi. Noi pensiamo che non possano venire impreparati, che dobbiamo prima riunirli e spiegare il senso di questa iniziativa, e il modo con cui vogliamo porci all’ascolto delle vittime, anche delle vittime di reati comuni, come quella insegnante che è stata sequestrata durante una rapina. Questi sono un po’ i problemi che abbiamo e su cui vogliamo ragionare anche con te. Marino Occhipinti: Io credo che se le persone che sono state vittime di reati accettano di entrare in un carcere, sono consapevoli di non trovare solo detenuti responsabili di furto, cioè io non credo che pensino questo, ma certo prima di decidere che possa o debba intervenire un ex terrorista, mi sembra giusto parlarne anche a loro, questo mi sembra un gesto minimo di correttezza e di chiarezza. Federica Brunelli: Io però oggi preferirei ascoltare soprattutto voi, perché poi il convegno è vostro, e mi mette anche un po’ in imbarazzo questa responsabilità di dover dire come penso sia più giusto che le cose avvengano. Quello che comunque mi ha molto colpito, quando ho ricevuto il programma della vostra Giornata di studi, è l’idea di ragionare con le vittime di reati dentro a un carcere, questa credo sia abbastanza una novità ed anche un rischio, perché è una delle prime volte che io vedo messa in opera l’idea di far parlare vittime e autori di reato in un posto “virtuoso”, uno spazio comune, al di là del fatto che siamo dentro un carcere, perché comunque noi di solito vediamo sempre spazi in cui o parlano autori di reato, o parlano le vittime. Quando ho ricevuto la bozza di programma, mi sono detta: accidenti, coraggiosi però! perché non è semplice, ed è anche una cosa poco sperimentata un confronto del genere. Qui voi, rispetto a quella puntata di Ballarò dedicata al libro di Mario Calabresi, fate un pezzettino in più: in quella trasmissione è stata data voce alle vittime, sono state ascoltate le loro storie, è stata una bella e toccante trasmissione, e probabilmente fino a vent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile pensare di offrire uno spazio e un’attenzione di questo genere alle vittime di reato, offrire luoghi nei quali narrare le propria storie di vittima. Questo ci dice che la sensibilità è cambiata; tuttavia, secondo me, occorre evitare il rischio che a confrontarsi da oggi in poi siano dei monologhi, isolati e separati e quindi a me sembra molto importante la vostra iniziativa, perché è la scommessa di cominciare a creare dei luoghi in cui tutti i protagonisti provano a parlare insieme, quindi questo mi sembra davvero che sia il passo ulteriore che deve essere fatto. Milan Grgic: La legge tutela giustamente più le vittime che gli autori di reato, e mi sembra corretto che parlino di più le vittime. Marino Occhipinti: Le vittime sostengono il contrario però, che è sempre stata data voce agli autori di reato e molto meno a loro. Federica Brunelli: Sì, sappiamo come per lungo tempo, nonostante il processo tuteli le ragioni delle vittime, esse abbiano sempre avuto, soprattutto durante l’esperienza processuale, poca voce e poca considerazione. Marino Occhipinti: Le vittime per esempio dicono che gli scaffali delle librerie sono pieni di libri scritti da ex terroristi, delle vittime non c’è mai niente, così come nelle trasmissioni televisive vedi spesso ex terroristi, mentre le vittime le vedi molto meno. Bolognesi, presidente del Comitato vittime della strage di Bologna, è uno che dice: noi non siamo mai da nessuna parte, siamo sempre esclusi da tutto, perfino dall’avere un ruolo vero nei processi. Io credo comunque che il fatto che un incontro del genere sia organizzato in un carcere sia significativo, perché fuori di queste cose si parla o nell’ambito della mediazione penale, o in qualche trasmissione sul terrorismo. In carcere invece credo che noi pensiamo molto di più a rivendicare il diritto alla salute, agli affetti, al lavoro, però delle vittime si parla un po’ poco, perché credo che sia anche imbarazzante per noi toccare certi argomenti, sicuramente è un disagio e una fatica. Milan Grgic: Io però sono stato in carcere a Novara e ho lavorato con un terrorista, ma loro non si considerano neanche criminali. Io non so se bisogna distinguere fra reati comuni o reati politici, considerato che loro si dichiarano sempre prigionieri politici, magari ci vuole tra noi un detenuto per reati politici per affrontare questi temi. Elton Kalica: Ma parlare dei reati di terrorismo secondo me può diventare molto scivoloso, perché io vedo che qualsiasi persona che adesso parla di rapporto fra vittima e autore di reato va a finire immancabilmente sul terrorismo, perché anche il Magistrato è andato a finire sull’ex terrorista, di fatto ci ha proposto di invitare qualche ex terrorista, ma noi non vogliamo che in questa giornata si parli di vittime del terrorismo e di terroristi, noi vogliamo allargare il campo, perché questa iniziativa viene fuori da una redazione con persone condannate per vari tipi di reati, quindi non dobbiamo perderci in mezzo a questioni che poco ci interessano, anche perché non vorrei che si arrivasse a una specie di “revisione critica” di qualcosa che non ci appartiene, nessuno qui è dentro per reati di terrorismo. Un problema invece che in qualche modo è legato al terrorismo, ma che comunque ci riguarda tutti è quello della visibilità, perché noi ci teniamo anche a prendere una posizione su questa questione, considerato che abbiamo sempre sostenuto che chi è autore di un reato dovrebbe avere il buon senso di non apparire troppo, evitando se possibile di intervenire in televisione, perché così in qualche modo va ad aprire una ferita magari non ancora rimarginata alle proprie vittime, ecco di questi argomenti abbiamo discusso e vorremmo affrontarli al meglio. Federica Brunelli: Una cosa che mi sembra di aver colto è che ci sia in voi un estremo bisogno di creare una occasione che sia giusta per tutti, quindi di non fare torto a nessuno e di avere equilibrio. Non sempre però l’equilibrio nasce dalla simmetria, non è che se ho due vittime del terrorismo devo avere due terroristi e allora ho l’equilibrio. Quindi io mi sento poco preoccupata per il fatto che avremo delle vittime di terrorismo, mentre qui nel carcere di Padova non ci sono persone per reati di terrorismo, perché non si tratta di fare un convegno sul tema “terrorismo”, ma di confrontarsi su un sentimento, quello dell’odio, su cosa è, cosa produce, cosa lascia nelle persone, come e se si possa gestire e superare, un tema che può essere molto più trasversale. Quindi è logico anche esprimersi in modi “asimmetrici”, perché una vittima di terrorismo ne parlerà in un modo, e una vittima di un altro reato ne parlerà in un altro, ma l’aspetto interessante mi sembra che sia che tutti si confronteranno su questo tema. Per esempio per voi sarebbe importante sentire di cosa ha veramente bisogno una vittima? non lo so, o che la vittima ascolti come vive, come si sente una persona che ha commesso un reato e che è stata condannata e sta in carcere? perché questo secondo me è lo scambio significativo che poi può avvenire. Una cosa interessante può essere forse anche riuscire a creare un’occasione per cui le persone parlino della loro storia, più che parlare come categoria di persone, quindi che ci sia lo spazio per delle storie che sono individuali a prescindere dalla categoria dentro cui possa essere messa una persona, vittima di terrorismo, non vittima di terrorismo. Maurizio Bertani: Io ad esempio sono uno di quelli che propende con convinzione per l’invito di tutte le parti in causa, parlando di vittime, e non solo coloro che hanno messo alla base della loro esistenza la rinuncia all’odio per la consapevolezza che comunque l’odio non porta con sé nulla di positivo. Teniamo presente poi che le vittime arrivano all’odio per un torto subito che a volte è devastante, ma non hanno dentro un odio proprio, l’odio è derivato da ciò che gli è accaduto, ecco perché ritengo che debba intervenire anche chi questo odio lo ha ancora dentro e continua in un modo o nell’altro a nutrirlo, perché non posso limitare il mio ascolto solo a coloro che l’odio l’hanno accantonato. Se dobbiamo imparare a smettere di odiare, dobbiamo riuscire anche a parlarne con chi questo odio lo nutre sotto forma di rancore, di desiderio di vendetta, e comunque se si impara a dialogare, il che non è per niente facile, ritengo che possa scemare anche l’odio. Noi siamo persone che stanno scontando una pena per aver commesso un reato e forse siamo arrivati a questo reato proprio perché carichi di odio verso qualcosa o qualcuno, questo significa che imparare a smettere di odiare può solo far bene a tutti, poi naturalmente non è detto che tutti ci riescano, ma è certo che se si riesce a parlarne le cose migliorano. Per questo ritengo che non si possa escludere nessuno da questo convegno, magari invitando alcuni comitati di vittime si può anche ricevere un no, ma io ritengo che perdano una buona occasione per esprimere il proprio pensiero e raccontare la propria storia. Per quanto riguarda la questione del Magistrato di Sorveglianza che vorrebbe che al confronto partecipasse anche un ex terrorista pentito, la questione “pentito” non mi piace molto perché non si sa mai a quali fini uno si pente, ma se si tratta di ascoltare una persona per reati di terrorismo che magari si è dissociata oppure si è fatta la sua galera e adesso lotta nel silenzio per vivere la sua vita, e quella persona mi spiegasse qual è stata la molla che l’ha spinta all’odio fino a mettere in atto comportamenti devastanti, e mi spiegasse qual è stata poi la spinta che l’ha fatta retrocedere da questo odio, anche qui sicuramente ne esce una storia in cui il dialogo o l’ascolto può portarmi a sviluppare una riflessione. E quando si riflette c’è sempre qualcosa di positivo, mentre il silenzio o il non confrontarsi racchiudono in sé una continua incubazione dell’odio, e c’è da scommettere che questo odio non si stempererà, ma si cristallizzerà, diventando sempre più forte fino a rovinare anche l’esistenza di chi questo odio se lo porta dentro, ecco perche rimango da una parte preoccupato, ma dall’altra convinto che ascoltare tutti, e che tutti si rendano disponibili ad ascoltare gli altri, possa essere solo positivo. Daniele Barosco: Io sostengo la posizione opposta a quella di Maurizio, nel senso che io escluderei a priori i due estremi, sia le vittime che si costituiscono nei comitati chiedendo che la punizione, la vendetta e l’odio siano perenni, sia i terroristi o altri che non hanno fatto una ragionevole riflessione che al loro male non c’è nessun rimedio, quindi sarei proprio netto nell’eliminare a priori i due estremi, e mantenere solo quelli che entrano nella logica del tema proposto dall’incontro, “Sto imparando a non odiare”. L’idea è che tu partecipi a questo convegno solo se ti adegui a questo fatto, non c’entra poi che tu sia terrorista o delinquente comune, o famigliare di vittime di terrorismo o vittime di delitti comuni, o comitati vari, conta solo discutere per confrontarsi in maniera leale e sincera in un rapporto fra persone che hanno commesso reati e che hanno subito reati. Marino Occhipinti: Io non credo che sia poi utile riunire intorno ad un tavolo tutte persone che la pensano alla stessa maniera, non credo che ci possa essere una gran discussione o un gran confronto. Daniele Barosco: Sì, ma per sederti ad un tavolo della pace tu devi rinnegare la guerra, tu devi smettere di essere belligerante. Sandro Calderoni: Anch’io penso che, se il convegno ha al centro l’idea di imparare a non odiare, dovrò ascoltare chi questo percorso lo ha già fatto, allora può darsi che mi insegni qualcosa, viceversa se viene chi odia e continua ad odiare sicuramente non mi insegna niente, è come me. Federica Brunelli: Quando facciamo le mediazioni e appunto ci capita di invitare chi ha commesso il fatto e chi lo ha subito, di solito non arrivano alla mediazione persone che sono già “mediate”, nel senso che tutto il lavoro è da fare, quindi magari arrivano che non hanno per niente voglia di fare la pace, anzi magari hanno voglia di dire tutto il male che pensano dell’altro. Da lì si parte, cioè può essere un punto di partenza; allo stesso modo penso sia importante lasciare la libertà a chi interverrà di dire cosa pensa, senza che per forza tutto sia già risolto né in se stessi né rispetto all’altro; presterei attenzione invece al fatto di non spostare il fuoco della discussione su altro, questa non è l’occasione per parlare solo dei reati di terrorismo e di ciò che il terrorismo è stato, perché questo potrebbe far virare l’incontro su dei temi che non sono quelli su cui voi volete lavorare. Ornella Favero: Il mio timore è che il dibattito si sposti su toni anche di violenza verbale di cui io non ho voglia, però detto questo vorrei ragionare con Daniele a partire dal titolo, “Sto imparando a non odiare”. Intanto inizialmente volevamo intitolarlo “Ho smesso di odiare”, ma proprio per l’attenzione maniacale che abbiamo per le parole ci siamo resi conto che in fondo queste due frasi erano radicalmente diverse, perché “Ho smesso di odiare” era come risolutiva rispetto a un sentimento che io credo sia molto resistente e duro dentro ognuno di noi in circostanze diverse. “Sto imparando a non odiare” indica invece, anche rispetto a chi sta in carcere, un percorso difficile fatto di alti e bassi e di ritorni indietro, per cui è impensabile che uno arrivi in una situazione del genere con la patente per dire “Io non odio”. Io vorrei però che chi viene venisse con una idea che forse è diversa dall’odiare o meno, ed è quella di ascoltare, anche perché mi accorgo che sempre di più, per esempio quando andiamo nelle scuole agli incontri con gli studenti, la cosa più difficile è ascoltare, perché mettersi in una condizione di ascolto è già un passo straordinario secondo me, per cui uno che viene qui, dovrebbe arrivare con questa idea di ascoltare, pur sapendo che troverà già delle cose che lo infastidiranno. Quando per esempio ho parlato con Andrea Casalegno, che ha avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse, lui all’inizio mi ha detto: sì, io vengo, però guarda che io non sono uno buono, sono uno che ritiene che chi ha commesso dei reati di sangue non debba parlare in pubblico. Io gli ho risposto che noi non vogliamo quelli buoni, però ho precisato che, se viene in un carcere, ci sono persone che hanno commesso reati di sangue e che parleranno perché io intendo che parlino, e lui questa modalità l’ha accettata. Quanto all’invitare a intervenire ex terroristi, secondo me se noi capiamo davvero l’importanza delle vittime, e se in questo caso abbiamo deciso di partire ascoltando le vittime, io ritengo di dover chiedere alle vittime se accettano questo confronto. E se io voglio avviare un dialogo devo dire che mi metto all’ascolto delle vittime e accetto di definire prima le regole di questo confronto. Se comunque ci saranno o parleranno ex terroristi, come spero, io voglio chiedere a loro di non essere nella scaletta del convegno, perché non mi pare giusto dire: interverrà Olga D’Antona e poi l’ex terrorista… La cosa di cui discutiamo da tempo, e so che può risultare fastidiosa, ma è importante, è quella del protagonismo: io credo che chi ha ucciso abbia avuto nelle sue azioni un protagonismo assoluto, quello di decidere sulla vita e la morte di una persona, allora a me piacerebbe che una persona che ha commesso un reato del genere capisse che deve per una volta nella vita accettare di non essere protagonista. Per esempio, se fai un lavoro sociale, perché chiedi che questo lavoro sociale significhi candidarti alla Camera? perché non accetti di rinunciare non a un ruolo sociale, ma alla visibilità senza limiti? Daniele Barosco: La mia posizione è che io escluderei anche da questo convegno sia i Magistrati di Sorveglianza che chi si occupa di mediazione penale, perché vorrei, come persona e come detenuto, confrontarmi sul problema del rapporto tra autori e vittime di reato senza nessun tipo di pregiudizio o di condizionamento. Marino Occhipinti: Non ricordo se questo è il sesto o settimo convegno che facciamo qui a Padova, in tutti gli altri convegni i relatori sono sempre stati su posizioni simili, perché finché si parlava di lavoro in carcere o di salute, pur con punti di vista diversi tutti erano in accordo sulle linee di fondo, ma questo non è un convegno cosi, è un convegno particolare. Se si pensava diversamente si poteva anche non farlo perché questo è il convegno in cui ci sono delle vittime e ci sono degli autori di reato, e tu invece non vuoi il discorso della mediazione, che secondo me invece è l’unico possibile per avvicinarli e aiutarli in qualche modo a dialogare. Federica Brunelli: Mi piacerebbe che vedessimo insieme un filmato che ho visto e poi preso durante una conferenza a Città del Capo in Sud Africa per i 10 anni della TRC e che rappresenta un incontro tra i famigliari di una vittima dell’apartheid e un colonnello della polizia (che firmò gli ordini di tortura pur non agendo mai in prima persona) La vittima era un attivista politico, non del partito di Mandela, ma di un altro gruppo combattente, che un giorno viene portato in carcere e in carcere subisce per ordine di questo colonnello delle torture, e soprattutto ad un certo punto viene avvelenato, poi lui viene rilasciato, ma gli effetti del veleno continuano nel tempo, e lui sta sempre peggio, viene ricoverato in ospedale non cammina più perde i capelli, quindi il veleno continua a lavorare, e lui decide allora di fare causa alla polizia. A due settimane dal processo scompare e nessuno saprà più niente di lui, non si troverà mai il corpo. A quindici anni dal fatto, dopo che il colonnello aveva chiesto l’amnistia presso la TRC, il colonnello chiede di incontrare i famigliari del ragazzo, e allora fanno un incontro alla presenza di una telecamera, di un regista che riprende e che testimonia questo incontro, ma senza alcun “terzo mediatore”. Il colonnello ci va perché ha il desiderio di parlare con questa famiglia, questa famiglia ha il desiderio di parlare con lui. Fanno questo incontro, ed è molto interessante perché è assolutamente inerente al tema del vostro incontro, dunque sarebbe bello poterlo vedere insieme per capire anche cosa può accadere quando vittime e autori di reato provano a parlare insieme da soli, senza nessuno che li aiuti quando l’odio è presente, in un incontro dove non c’è nessuno se non i diretti protagonisti, quello non è un incontro di mediazione, è più un incontro come lo immagina Daniele, senza nessun esterno che intervenga. Voi ci avete invitato e noi veniamo volentieri, però non sentiteci come invasori di un vostro spazio, questa non è la nostra intenzione. Daniele Barosco: No, non è questo il problema, ma quando un magistrato dice che ci vorrebbe anche un terrorista, poi da Roma magari dicono che ci vorrebbe anche qualche vittima che ha subito violenza da qualche altra parte, poi arriva un altro che vuole chiamare anche il papà del brigadiere della polizia penitenziaria che hanno ammazzato, allora diciamo che se dobbiamo restare dentro un circuito che è gestito con i fili da un’altra parte, questo convegno per me non ha nessun senso. Se ci deve essere un confronto e un dialogo, bisogna che ci sia quella discriminante del “Sto imparando a non odiare”, perché se le parti rimangono sulle loro ragioni, allora è certo che combatteranno ognuna con le proprie armi e non ci sarà una pacificazione ma una guerra. Federica Brunelli: Io credo comunque che una quota di imprevedibilità sia inevitabile, perché magari uno arriva e pensa di essere pacificato, ma poi si siede al tavolo e invece cambia da così a così, quindi non possiamo essere certi, l’armistizio, il posare le armi non è una pace, non è la stessa cosa, per cui prendiamo atto che ci sarà una quota di imprevedibilità. Allora la presenza di mediatori serve per accompagnarvi e non per comandarvi, ma serve perché magari delle competenze, rispetto alle dinamiche si possono produrre fra autori e vittime che si parlano, noi le possiamo mettere in gioco, se ci sono dei momenti di difficoltà noi vi possiamo aiutare, perché lo facciamo come “professione”. Può essere importante cercare di accompagnare questo parlarsi insieme, che a volte se si fa da soli può essere un po’ un rischio, perché se poi uno tira fuori le cose che ha dentro, non può essere mediatore di se stesso, non siamo dei superman che riusciamo a fare tutto, quindi in questo senso la presenza di Adolfo Ceretti e la mia dovete viverle in questo senso, e certo non come un togliervi lo spazio. Lucia Faggion (volontaria): Io penso che già il titolo “Sto imparando a non odiare” indica un percorso, che ha comunque delle ricadute, per cui non si può essere cosi schematici, cioè per parlare di questo sentimento dell’odio bisognerebbe avere il coraggio di affrontare parecchie sfaccettature, non solo quello che dal punto di vista negativo può arrecare provare odio, ma anche avere il coraggio di saperlo affrontare nel senso opposto, cioè che cosa può dare l’odio, che cosa può rappresentare per una persona provare questo sentimento, come può anche aiutarla provare un sentimento di questo genere magari in un primo momento. Secondo me, come ha detto Ornella, sarebbe importante che ci fossero persone disposte all’ascolto e al confronto, ma se ci fosse anche qualcuno che non avesse nessuna intenzione di allontanarsi da questo sentimento, ma ne parlasse senza nasconderlo, secondo me ci potrebbe in realtà aiutare, e non dobbiamo avere paura di affrontarlo da varie angolature, e anche vedere o sentire una testimonianza dove si dice “Io odio”, non trovo che dobbiamo aver paura di questo. Io invece, come Elton, sono dubbiosa nei confronti di un intervento di ex terroristi perché mi dispiacerebbe che i mezzi di informazione parlassero solo di questo, che poi all’esterno si dica che c’era la D’Antona e poi c’era un ex terrorista, e basta. Elton Kalica: La riflessione che volevo fare io è che quel giorno non possiamo cercare né di essere protagonisti, e nemmeno che sia protagonista soltanto chi dice quello che noi speriamo che dica, allora a me va bene che la discriminante sia quella di “Sto imparando a non odiare”, che è anche il titolo che abbiamo scelto, ma io credo che a questa ne vadano aggiunte anche altre. Noi detenuti innanzitutto siamo qui dentro perché in qualche modo siamo stati vittime del nostro odio, oppure abbiamo coltivato questo odio per un periodo più o meno lungo nell’arco della nostra vita e abbiamo fatto del male a qualcuno e siamo finiti in carcere. Noi abbiamo sempre detto che, per come è il carcere oggi, per quanto è difficile la vita in carcere, vuoi per il sovraffollamento, per la mancanza di lavoro, per le cure sanitarie che non vengono erogate come si deve, per mancanza di regole certe, l’odio che avevamo prima non è che è venuto meno, ma anzi continua a crescere, magari prendendo direzioni diverse ma comunque cresce. Allora siccome qui noi siamo una redazione di un giornale e il lavoro di informazione ci ha sempre spinto a ragionare, questi ragionamenti ci hanno portato a pensare e dire che dobbiamo imparare noi prima di tutti a non odiare. Ma come facciamo ad imparare a non odiare se viviamo in una condizione in cui è difficile non odiare, perché lo sappiamo tutti che a stare in carcere, esser privati della libertà, dover subire delle restrizioni che vanno oltre a quelle che sono previste e tollerate, diventa istintivo che l’odio cresca. Allora abbiamo deciso di farcelo insegnare da persone che sono state vittime di reato, che hanno odiato perché si sono viste danneggiate in vario modo, e poi hanno fatto un loro percorso, e allora noi le stiamo chiamando per farci spiegare e per capire come si arriva all’abbandono dell’odio, sperando poi che questa lezione che loro ci danno sia possibile trasmetterla ad altre vittime che vivono nell’odio, o meglio che a causa dell’odio non vivono. Ecco, speriamo che i loro interventi abbiano questo duplice effetto, il primo che magari qualcuno di noi impari a non coltivare l’odio, cosi quando esce fuori invece di andare a farsi giustizia da sé o invece di risolvere i problemi in modo sbagliato, scelga altre strade, e il secondo effetto, che quelle vittime, che non fanno altro, in un clima di tensione come quello di adesso, che aggiungere benzina al fuoco, aggiungere odio e intolleranza, magari ci ripensino un po’. Ornella Favero: Io voglio tornare sul ruolo dei mediatori, perché secondo me è fondamentale la loro presenza, proprio per la presunzione, che è anche di tanti di voi qui dentro, che si possano affrontare questi problemi da soli. Voi da soli, scusatemi ma credo che non ne sareste stati capaci, se non fossero venuti per esempio gli studenti nessuno avrebbe ragionato sul fatto che anche un furto può cambiare la qualità della vita di una persona, perché noi, compresi noi volontari, diciamo tutti che il furto è un reato minore, e basta. Allora secondo me dobbiamo capire che sia le vittime, che gli autori di reato, che noi cittadini comuni non sempre siamo capaci da soli di imparare a non odiare, il ruolo della mediazione penale è questo secondo me, è il capire che ci sono delle situazioni di conflitto in cui un detenuto non può fare un percorso di vera riflessione sul reato se non si misura con le persone fuori, se non impara ad usare anche le parole giuste per assumersi la sua responsabilità, e qui mi sembra che lo diciamo spesso, quindi secondo me è centrale il discorso della mediazione penale. La formula che voi usate regolarmente, per esempio, “Io ho pagato il mio debito”, è significativa di una difficoltà ad assumersi davvero le proprie responsabilità nei confronti delle vittime. Io ribadisco brutalmente che il debito non è pagato, attenzione però, io sono favorevole al fatto che le pene siano inferiori, preferirei che un detenuto sapesse di dover scontare una pena non troppo pesante, ma avesse la consapevolezza che nessuna pena ripaga chi ha subito un reato, tu quel pezzo di vita della persona non lo ricostruirai più. Per questo quando siamo agli incontri con gli studenti, è importante fare attenzione alle parole. Per esempio un’altra cosa che ripeto sempre con un po’ di cattiveria, ma ci vuole delle volte, trovo insopportabile quando dite “Sì, ho commesso un reato grave, ma poi ho capito che mi sono rovinato la vita”. Se tu dici che hai capito di esserti rovinato la vita non hai capito niente, perché tu devi sforzarti di dimenticarti della tua vita in quel momento, e dire “Ho capito che ho rovinato la vita a delle persone”, poi verrà anche il fatto che te la sei rovinata tu, però se non hai questa consapevolezza che il debito è cosa diversa dalla pena, secondo me non si fanno grandi passi avanti. Daniele Barosco: Sono d’accordo, l’unica cosa che non vorrei è che i giudici condizionassero un tavolo di ragionamento sulle vittime e gli autori di reato e che si parlasse di mediazione penale senza ribadire a sufficienza che deve essere un atto volontario e non subordinato ad un obbligo o a un interesse. Federica Brunelli: È vero quello che dici tu, che spesso i giudici parlano della mediazione penale non come un passo libero e volontario, ma come un percorso obbligato. Come esperto al Tribunale di Sorveglianza, mi capita spesso di confrontarmi sul tema della mediazione, della riparazione e insisto sempre sul fatto che la mediazione deve essere appunto libera e volontaria e se diventa una prescrizione, tanto più la prescrizione di un fare o di un dare per esempio una somma di denaro decisa a priori dal collegio, non ha più senso, non è più riparazione, che – al contrario – dovrebbe nascere da un consenso. Altrimenti ogni azione rischia di essere una pena travestita da riparazione, ma è una pena perché la logica non cambia. Allora io vengo al vostro convegno per dire queste cose, e secondo me è un’occasione, e ci sarà anche la d.ssa Giuffrida che è dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che parla di questi temi in modo corretto, quindi potrà dire anche lei qualcosa rispetto alla sperimentazione che si sta cercando di fare in Italia con tanta fatica, però devono essere delle sperimentazioni che siano di mediazione e di giustizia ripartiva e non altro. Sarebbe già importante che magari si capisca che forse la vittima non li desidera i cento euro, che magari il denaro non corrisponde per niente a quello che le vittime desiderano, per cui secondo me è importante che le vittime che interverranno dicano quello che desiderano e di cosa ha bisogno una vittima, e che tutti, compresi i magistrati, le ascoltino.
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