Incontro con Edoardo Albinati

 

Con Edoardo Albinati, insegnante a Rebibbia e scrittore,
abbiamo parlato di quanto può essere pericoloso
avere dei “valori”

 

(Realizzato nel mese di gennaio 2002)

 

“In carcere c’è gente che per la propria mamma, per i propri figli farebbe qualsiasi cosa, ma poi non ha troppi problemi a causare del male ad altre persone che hanno anche loro dei figli”

 

Edoardo Albinati è insegnante di lettere a Rebibbia e soprattutto è uno scrittore. L’avevamo già incontrato in redazione per parlare di questo suo diario sul carcere che si chiama “Maggio Selvaggio” e ci eravamo ripromessi di approfondire con lui alcuni temi spinosi, come quello delle “regole” e dei “valori”.  Lo abbiamo invitato, è tornato a trovarci.

Ristretti: In una intervista dedicata al significato che ha insegnare in carcere tu a un certo punto dici: “Il mio lavoro consiste principalmente nello sbriciolare il blocco dei luoghi comuni che spesso ingombra la mente dei detenuti”. Vogliamo parlare di questi luoghi comuni?

In generale, questo è valido per qualsiasi processo conoscitivo, non ha a che fare solo con i detenuti: cioè, quando uno prova ad affrontare un argomento di qualsiasi tipo, secondo me la prima cosa che va fatta è quella che si chiama anche nel processo filosofico la “Pars destruens”, cioè la parte distruttiva. Siccome normalmente l’insegnamento nel carcere viene visto invece, nel modo corrente, come un compito “edificante”, dove uno deve andare verso il bene, i valori, le cose positive, io dico che invece, secondo me, la prima mossa da fare è quella di distruggere gli errori, piuttosto che di costruire le cose positive, che sarà comunque forse un momento che verrà dopo.

Si tratta di rompere dei conformismi, che nei detenuti sono a mio avviso spesso molto forti. I detenuti sono persone che hanno a volte dei conformismi ancora più forti di quelli delle persone, come dire?, che non hanno commesso delitti. Cioè uno può pensare che siccome un detenuto è un trasgressore, è riconosciuto come tale, allora come tale è anche una persona che ha delle regole più fluide. Invece non è vero, perché per esempio io mi sono quasi sempre venuto a scontrare con dei detenuti per delle categorie di pensiero molto rigide, molto dure, molto severe, molto assolute.

 

Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Da che cosa pensi che sia determinato tutto questo?

 

Dal fatto che tra i detenuti io vedo che ci sono delle convinzioni molto radicate, ad esempio il mito della famiglia, e quando si è esasperatamente legati solo alla propria famiglia, poi secondo me si stenta a riconoscere il fatto che anche gli altri hanno le famiglie, e che esistono delle regole superiori a quelle dei singoli clan o delle singole famiglie. Qui c’è della gente che per la propria mamma, per i propri figli farebbe qualsiasi cosa, ma poi non ha troppi problemi a causare del male ad altre persone che hanno anche loro dei figli. Per esempio, io racconto anche qui nel mio libro un episodio abbastanza interessante: i primi anni che insegnavo, trovandomi di fronte a dei “trasgressori riconosciuti” delle regole, pensavo di poter tranquillamente dire che  io ho dei valori molto elastici, e certe volte ho la sensazione di non averli proprio. Ma i detenuti si sono scandalizzati: non è possibile, come fai a non avere valori? Allora ho detto: scusate, voi forse ce li avete, i valori, però ne avete spezzati parecchi di questi valori. E tutti quanti invece, tutti, proclamavano la loro fedeltà assoluta ai valori, che non erano poi la legge, ma erano altre leggi, altri codici, quelli privati, personali, del clan, della famiglia, della banda. Quindi in realtà erano delle persone fedelissime ad un altro sistema di codici.

Dunque si violano le leggi generali dello Stato, però poi ad altre leggi si è fedeli fino all’integralismo… diciamo così. E’ quello che io molto spesso chiamo il sostanzialismo. Il sostanzialismo, di solito contrapposto al formalismo, è quel modo di vedere molto concreto, per cui tu vedi, rispetti ami o odi solo le persone che hai vicino e non esistono entità superiori, come lo Stato. Perché tu di fatto devi essere fedele, o devi essere legato soltanto a un ambito ristretto. Io trovo che in molti detenuti ci sia sempre un ragionamento di tipo sostanziale, mai di tipo formale. Allora secondo me è meglio sgombrare il campo da tutte le leggi, tutte le regole e poi vedere quelle che possono permettere convivenze accettabili.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Prima hai detto appunto che spesso nel mondo dei detenuti hai trovato più attenzione alla concretezza che alla formalità delle cose…

 

Scusami, però io lo dico in senso negativo, e mentre di solito l’amore per la concretezza è considerato una cosa positiva, invece io lo considero come un vedere e rispettare solo quello che hai davanti al naso. Per esempio, tutto questo attaccamento alla famiglia, come se la famiglia essa stessa non fosse anche un nido di vipere, questo per lo meno va detto. Nella letteratura lo vedi bene, nella Bibbia, lo vedi quando leggi che tutte le storie cominciano con due fratelli e che uno ammazza l’altro, allora bisogna incominciare a dire che la famiglia non è santa, anzi. I grandi libri iniziano sempre con una tragedia famigliare. Questo vuol dire che  da Romolo e Remo, da Caino e Abele, ad Agamennone e Tieste (quello addirittura prende i figli del fratello e glieli cucina da mangiare), la lettura dei testi letterari serve a farci vedere la distruzione di un luogo comune, come può essere quello della famiglia per esempio: il fatto è che non esistono luoghi assolutamente sicuri, per questo non esistono grandi valori.

In carcere invece molto spesso hai a che fare con delle persone che, insisto, nel nome di alcuni valori, cioè disobbedendo ad una legge, quella dello Stato, ma in realtà obbedendo ad altre leggi, hanno commesso delle cose gravi.

 

Francesco Morelli: Ma anche fuori, in nome dei valori si fanno cose non sempre esaltanti. Qualche giorno fa c’era qui un Convegno di avvocati, e ho sentito appunto persone fare dei discorsi…, diciamo così, moralmente belli, e poi so che alcune di quelle stesse persone nella professione, quando spremono i clienti, sono ben lontane dal comportarsi adeguatamente a quello che dicono.

 

Allora, ti dico un’altra cosa, se tu leggi un solo romanzo di Balzac, ti levi ogni dubbio, ogni illusione; sugli avvocati, sui giornalisti, sui professionisti cioè…

Non c’è bisogno di aver letto Machiavelli insomma, per vedere la radice del potere, del desiderio, per cui le persone fanno le cose. Mi ricordo, per esempio, la lettura in classe di Machiavelli, dove in pratica si dice che l’uomo è una macchina di desideri, e questi desideri vengono ottenuti a qualsiasi prezzo, e quindi l’uomo è pronto a scatenare qualsiasi violenza pur di ottenere le cose che desidera: a quel punto i detenuti stessi erano come impauriti, ma chiunque legge Machiavelli dice: “Ma questo è di una crudeltà e di una franchezza terribile…”, e infatti non è stato accettato per secoli. Un autore che dice che la radice umana è essenzialmente malvagia e che noi siamo pronti a fare qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che vogliamo, e che il principe è colui semplicemente che usa ogni mezzo per ottenere e mantenere il potere: la lettura di Machiavelli è un bagno, come dire, negativo che è molto difficile da accettare, ma una visione così cruda provoca anche in chi legge un po’ di tentennamento rispetto a certe sue convinzioni.

 

Andrea Andriotto (Ristretti Orizzonti): Il fatto di arrivare ad ogni costo ad avere quello che vuoi è una cosa accettata comunque dalla società. Un uomo povero che fa i soldi, non si sa come, pagando alti prezzi, probabilmente sulla pelle di qualcuno, non dico ammazzando ovviamente ma agendo senza grossi scrupoli, è in ogni caso visto bene dall’altro, che pensa: “Cazzo, ci sei riuscito!”.

 

Sì, però questo avviene grazie alla produzione di una serie di passaggi intermedi in cui questa lotta per i propri interessi poi viene trasformata attraverso una serie di “falsificazioni ideologiche” in qualcosa di positivo, e quindi nel mito del successo. In generale il potere, il denaro producono per loro capacità spontanea dei “valori” che poi il critico deve smascherare rilevandoli uno alla volta. La cosa che fa Machiavelli è interessante, perché lui dice: prendiamo il potere come è, cominciamo a levargli tutta la bellezza, perché il potere spesso si ammanta di oggetti, di architetture, di simboli che sono attraenti, scintillanti, belli, insomma voglio dire i Papi hanno poi fatto San Pietro, però se noi incominciamo a levare queste croste e andiamo poi alla nuda radice scopriremo che è soltanto un desiderio di dominio. Secondo Machiavelli non c’è altro che questo. In verità la lezione della storia o della letteratura secondo me è in gran parte una lezione che tende a smuovere le nostre convinzioni, non a irrobustirle. Cioè a mettere in dubbio, a fare vacillare ciò che noi pensavamo, non a farci sentire veramente sicuri di quello che siamo e che vogliamo.

Questo lo dico anche perché invece l’insegnamento o le attività all’interno di un carcere vengono viste sempre come attività edificanti: ci sono persone che non hanno valori, arriviamo là e glieli diamo noi. Invece secondo me ci sono persone che hanno pure troppi valori, e dovrebbe arrivare qualcuno che comincia a smontarli, quei valori.

 

Nicola Sansonna: Per me è una proposta forte quella che fai, tu arrivi in carcere, dove ci sono persone che hanno dei valori forti magari limitati, che abbracciano solo il loro ambito famigliare, la loro piccola cerchia di amici, il loro piccolo universo, clan. Tu arrivi lì e cerchi di smontarglieli, creare una crisi, quello che cerchi tu è di creare la crisi nella persona, di portarla a vedere tutto con occhio critico. Non pensi che sia un processo troppo doloroso? Il carcere è un luogo dove hai bisogno di punti di riferimento forti e noi ce li creiamo, se non li abbiamo, quei punti di riferimento. Quando sei qui dentro l’unica cosa che ti rimane, che ti è veramente vicina è la famiglia, ti è vicino il tuo compagno di cella, ora mi sei vicino tu, mi fa piacere parlare con te, sei entrato nel mio universo, capito? Non pensi che destrutturare questo piccolo universo crei una crisi difficilmente riparabile?

 

Ma se a uno non gli viene una crisi andando in galera, dove gli deve venire la crisi?! Se mai ci fosse un’utilità del carcere, della qual cosa dubito sempre di più dopo otto anni che ci lavoro, se mai ce ne fosse una dovrebbe essere quella di procurare una crisi, se non provoco neanche quella allora proprio veramente...

 

Nicola Sansonna: Io sono convinto che è utile quello che dici tu, però la risposta che dai qual è proprio in concreto? Mi fai leggere Machiavelli, non lo so... io mi tengo mia madre piuttosto.

 

Ma non ti ho detto che devi rinunciare alla mamma o alla figlia, intendo parlare di quelle sicurezze, quelle certezze che prima di tutto dal punto di vista della loro efficacia ti hanno portato in galera, quindi sicuramente non sono state particolarmente funzionali, e anche dal punto di vista pratico comunque andrebbero riviste. E poi in generale quello che conta è la mancanza di certezze assolute e di valori assoluti, perché è nel nome poi dei valori assoluti che si commette il male. La gran parte del male nel mondo è commesso nel nome di qualcosa, non è commesso gratuitamente, cioè apparentemente è commesso gratuitamente, in realtà si sta obbedendo a qualcosa d’altro. Il ragazzo che ammazza il papà e la mamma, il crimine dei crimini, in realtà sta obbedendo ciecamente a un altro valore, il denaro forse, lo fa per prendergli i soldi. Quella è una fedeltà cieca, lui sembrerebbe l’uomo più infedele del mondo, invece è fedele ad un’ altra cosa. La gran parte dei crimini commessi dalle persone giovani che io conosco nel carcere di Rebibbia è commessa per un’ideologia assolutamente rigidissima, che è il culto del denaro.

 

Francesco Morelli: La mia critica principale è che secondo me questa necessità di mettere in crisi le certezze viene sempre tirata fuori quando voi esterni avete a che fare con noi detenuti. Mentre invece nel mondo libero c’è tanta gente che fa come noi, peggio di noi, solo in maniera più raffinata, più pulita, così, e nessuno va a dire... che so, ti ho fatto l’esempio della categoria degli avvocati, nessuno va a dire: guardate che dovete essere più onesti, meno esosi, nessuno si sogna di fare queste cose.

 

Ma io ora lavoro con i detenuti, però ho insegnato per sette anni in un istituto di periferia e anche lì ho lavorato per distruggere i luoghi comuni, in quel caso dei sedicenni italiani...

E poi, non è che noi risolviamo con le nostre scoperte i problemi della società, però dovremmo anche cominciare a cercare di risolvere i nostri, lavorando proprio con se stessi, cioè quello che sono io, che ho fatto io, la mia vita, quello che ho sbagliato. Anche se poi dobbiamo ricordarci che non è che questa operazione critica garantisca che, una volta finita la pars destruens, ci sia la pars costruens, di solito la parte ricostruttiva è piuttosto debole perché comunque in una ricostruzione serviranno altri dogmi, altre certezze, che se vogliamo criticarli anche loro sono criticabili quanto quelli che abbiamo spazzato via.

In realtà sotto questa distruzione di valori poi si arriva a uno zoccolo duro che secondo me è impenetrabile ma è forte, quindi non è che si rimane soli, vuoti, nel nulla. Si rimane soli con la propria vita, col voler essere vivi.

E secondo me nel carcere, devo dire la verità, quello che io ammiro di più è il fatto che ci sono delle persone che sono costrette ad azzerare tutto quanto, e poi sotto quello zero emerge una continuità esistenziale. Emerge il fatto che l’uomo è più importante, anche se viene messo in un campo di concentramento, soggetto a disumanizzazione totale, per quanto umiliato, per quanto tartassato, per quanto finito in tutte le sue possibilità umane, sotto quello rimane, permane qualcosa.

Ma questo non è un valore, i valori sono le costruzioni sopra questo puro essere. Allora, quello là avrà il valore della compassione, quell’altro avrà il valore dell’istruzione, noi abbiamo parlato delle civiltà dove il massimo valore era ammazzare il nemico. Io sono professore di italiano, e ogni anno a dei ragazzini di quindici anni, di tredici anni leggo l’Epica, cioè gli leggo l’Iliade e l’Odissea, quindi gli sto dicendo che il massimo valore della vita è morire uccidendo l’altro, questo è il messaggio dell’Epica, è il messaggio del mondo omerico, dove il massimo valore è sgozzare il nemico, vendicarsi. Quindi tu stai scoprendo che la letteratura, cioè quella che dovrebbe essere il patrimonio edificante, non è altro che una lunga serie di ammazzamenti, tradimenti, adulteri, dove si mostra però una radice umana. Allora tu stai facendo in realtà una scuola di trasgressione, che fa crescere però le persone, le fa crescere mettendole di fronte alla verità, non mettendole di fronte ai valori, del tipo: noi siamo buoni, ci vogliamo bene, dobbiamo rispettarci, c’è il pluralismo, ma il pluralismo nel mondo omerico dove sta? Eppure si tratta di Omero, parliamo del più grande autore dell’antichità, cioè non parliamo di un bandito...

E la storia ti insegna anche che le società ragionano in modo diverso. E’ stupenda secondo me in tal senso la lezione che si può fare sul cambiamento di una sola parola, che è la parola virtù. Se tu fai la storia della parola virtù, che deriva dal latino virtus, ti accorgi che virtù nel mondo greco-latino deriva da forza, da virilità, è virtuoso l’uomo forte. Achille, cioè, un uomo che è in grado di usare la forza. Passando dal latino all’italiano, che è una lingua che si crea in un’epoca cristiana, la virtù non può essere altro che la bontà, la lealtà, la fede, quindi sono due mondi contrapposti, assolutamente contrapposti, e questo ti dimostra che gli uomini considerano buone nel tempo cose che sono molto diverse, assolutamente diverse.

 

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