Intervista Paonessa

 

L’assistente sociale: un “equilibrista” nell’offrire

attenzione, ascolto, rispetto, aiuto, sostegno e controllo

A definirlo così è Domenico Paonessa, direttore dell’Ufficio Locale dell’Esecuzione Penale Esterna di Napoli, per il quale “il trattamento penitenziario non è una nobile bugia se si opera con il reale convincimento che sia possibile realizzare dei cambiamenti”

 

(Realizzata nel mese di gennaio 2007)

 

a cura di Marino Occhipinti

 

“Non si nasce delinquenti, neppure a Napoli”: a dirlo è Domenico Paonessa, direttore dell’Ufficio Locale dell’Esecuzione Penale Esterna di Napoli appunto, con il quale abbiamo parlato del ruolo degli ex CSSA, trasformati da una recente legge in U.L.E.P.E., ma soprattutto di come risponde il territorio campano alle esigenze di reinserimento sociale delle persone che hanno –  o hanno avuto – problemi con la giustizia.

 

Cosa è cambiato concretamente per voi dopo l’approvazione della legge Meduri, oltre all’abolizione del nome “C.S.S.A.”?

Il cambio del nome ha sicuramente, a mio parere, reso più evidente quale sia la mission dell’Ufficio. Ricordo di essere stato, nel passato, contattato telefonicamente da un rappresentante che voleva proporre l’acquisto di protesi acustiche, convinto che gli allora C.S.S.A. seguissero gli anziani. In più si registra che non v’è più il vincolo di istituire gli U.L.E.P.E. soltanto in coincidenza con le sedi degli Uffici di Sorveglianza. L’Amministrazione Penitenziaria si sta orientando per la provincializzazione degli attuali U.L.E.P.E.

Altro aspetto interessante è l’aver previsto che gli Uffici diventino sempre più parte attiva del procedimento tant’è che “propongono all’autorità giudiziaria il programma di trattamento da applicare ai condannati che richiedono di essere ammessi all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare”, “proponendo eventuali interventi di modificazione o di revoca”. Con il vecchio articolo 72 gli allora C.S.S.A. si dovevano limitare a fornire alla magistratura richiedente “i dati occorrenti per (…) il trattamento dei condannati e degli internanti”. Ultimo elemento, anche se allo stato non comporta concreti cambiamenti, è la dipendenza degli Uffici non più dall’Amministrazione penitenziaria ma dal Ministero della Giustizia (il che non esclude che si continuerà a dipendere dal D.A.P.).

 

I numeri dell’Ufficio da lei diretto: di quanti operatori dispone e quante persone avete in “carico”, siano esse detenute sia in misura alternativa?

In Ufficio siamo complessivamente in ottantaquattro. Quarantasei sono assistenti sociali. Le restanti risorse umane garantiscono il funzionamento delle tre aree: quella di servizio sociale, con la propria segreteria tecnica e la gestione dell’archivio; quella contabile e quella della segreteria generale e del personale. Un dato quantitativo sul “carico” di lavoro, non “inquinato” dall’indulto, è quello relativo al 2005: abbiamo seguito 11.166 posizioni delle quali 4.900 in misura alternativa (comprensiva del cosiddetto indultino che ha inciso con 795 casi) o in misura di sicurezza non detentiva. Occorre precisare che il dato 11.166 non corrisponde alle persone seguite in quanto nel corso dell’anno lo stesso cittadino può ritrovarsi in diverse posizioni (ad esempio, prima detenuto ed in seguito in affidamento in prova al servizio sociale…).

 

Parliamo del ruolo degli assistenti sociali, che si divide tra sostegno e controllo…

Ho iniziato a lavorare come assistente sociale presso il Comune di Arona, ho operato anche, sia pure a tempo parziale, presso un servizio psichiatrico territoriale ed  in un consultorio pubblico. Da assistente sociale non mi sono mai sentito “diviso” tra sostegno e controllo. Piuttosto mi sono sentito “impegnato” a gestire correttamente questi due elementi, per rispettare il mandato professionale che mi imponeva (e mi impone) di essere un equilibrista nell’offrire attenzione, ascolto, rispetto, aiuto, sostegno e controllo.

Anche quando ho operato nell’area penale in un Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni ed ancora oggi con gli adulti in esecuzione di pena, sia pur nel ruolo di direttore, ho avuto chiaro di aver scelto una professione che deve contemperare le esigenze del singolo “utente” e della collettività. La pedagogia ed ancor più la stessa educazione degli adulti (andragogia) non considerano scisse o in opposizione le due questioni, se si utilizzano le lenti giuste. Nessun educatore, assistente sociale o “semplicemente” genitore riterrebbe proficuo solo interventi di sostegno. Nel nostro lavoro l’elemento del controllo (sociale, non di polizia), se chiarito fin dall’inizio, è compreso ed accettato nel “contratto” con il cittadino in esecuzione di pena ed è elemento importante (di sostegno) del trattamento penitenziario. Occorre superare la dicotomia tra sostegno e controllo.

Dobbiamo pensare ed agire professionalmente tenendo presente che le azioni per sostenere prevedono – nel senso più nobile del termine – azioni che sono inevitabilmente orientate anche al controllo sociale dei comportamenti, degli stili di vita, dei soggetti con il quale interagiamo. In sintesi: non è possibile sostenere in modo neutro. È sempre un “sostegno orientato”, anche se – e questo è pericoloso – l’assistente sociale non dovesse riconoscerlo o riconoscerselo.

 

Come risponde il territorio campano alle esigenze di reinserimento sociale delle persone che hanno –  o hanno avuto – problemi con la giustizia (casa, lavoro, relazioni sociali…)?

Purtroppo bene. Mi spiego.

Dico purtroppo perché ritengo che non prevalga la cultura, pur partenopea, di accettazione della diversità o di solidarietà verso l’altro. Piuttosto v’è l’abitudine a convivere con la marginalità come elemento di normalità. Certo questo favorisce la reintegrazione di soggetti svantaggiati, ma prevalentemente per accettazione passiva di fenomeni vissuti come inevitabili per questa città (il traffico; i problemi di igiene urbana; il degrado; i piccoli abusi edilizi; i parcheggiatori abusivi; il lavoro nero, anche minorile; il piccolo clientelismo; il dover dire grazie a qualcuno anche per veder soddisfatto un proprio diritto nonché il malcostume, le prepotenze, i piccoli abusi quotidiani, lo scarso senso civico di una fastidiosa minoranza di concittadini…) compreso, quindi, il dover convivere con cittadini che hanno avuto problemi con la giustizia.

Avrei preferito una consapevole ed attiva mancanza di pregiudizio e di stigmatizzazione piuttosto che un’accettazione passiva di un qualcosa che è considerato un “male” con il quale dover convivere quotidianamente. Volendo essere pragmatici, comunque, ben venga anche quest’atteggiamento, considerato che contribuisce ad un più facile reinserimento sociale, in un territorio problematico come quello campano.

 

Quali progetti e attività “trattamentali” promuovete, per il reinserimento dei detenuti e in prospettiva del loro rientro in società?

Alcuni esempi. Si è impegnati in protocolli d’intesa con i Ser.T. (per favorire il trattamento penitenziario con i soggetti in esecuzione di pena con problemi di tossicodipendenza) e con i Comuni (per l’apertura di nostri sportelli sul territorio provinciale e per stabilire proficue collaborazioni ai sensi di quanto previsto dalla legge 328/2000 – Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali).

Si continuano a promuovere, insieme al Comune di Napoli, seminari sull’educazione alla legalità, alla salute ed alla solidarietà rivolti alle persone in misura alternativa alla detenzione ed ai loro familiari. Gli ultimi due, in ordine di tempo, sono stati promossi sui temi “abuso dell’alcool e sicurezza stradale”, in collaborazione con la polizia Stradale, e sui “rischi dei fuochi d’artificio illegali”, in collaborazione con gli artificieri dell’Arma dei Carabinieri ed i medici del pronto soccorso dell’ospedale  Cardarelli. Interessante il livello di attenzione e partecipazione, numerosa ed attiva, dei convenuti, compresi i bambini, che hanno interagito, tutti, anche con le persone in divisa che rappresentano istituzioni deputate alla prevenzione dei crimini ed al controllo del territorio. Due seminari che, pragmaticamente, hanno dimostrato che è possibile consentire, anche a Napoli, la vicinanza, senza diffidenza reciproca, tra soggetti in esecuzione di pena e forze dell’ordine.

In questo periodo, sia per le persone in area penale sia per coloro che hanno beneficiato dell’indulto, sono in cantiere progetti europei, nazionali e locali, dove siamo partner, per favorire l’inserimento lavorativo attraverso l’acquisizione di competenze professionali. Stiamo insistendo con i partner per prevedere che nei progetti stessi ci sia la possibilità di verificare, ad esempio dopo due anni, se e quali benefici i soggetti inseriti nei progetti stessi abbiano avuto dall’esperienza vissuta.

Occorre monitorare quali risultati si raggiungano con i progetti dove si è partner per capire se i fondi destinati a tali iniziative siano da considerarsi solo delle inutili spese o dei proficui investimenti. Ciò anche per non ripetere errori, per apportare correttivi o riproporre i progetti che hanno suscitato interesse ed ottenuto successi.

 

Uno dei punti di forza del reinserimento è rappresentato dalle misure alternative alla detenzione, spesso oggetto di polemiche e strumentalizzazioni: secondo la sua esperienza professionale, tali misure sono realmente efficaci?

Sì lo sono. Soprattutto se si riesce a non essere routinari, ripetitivi. Se si riesce a ricordare, sempre, che non si ha davanti un fascicolo ma una persona. Un cittadino al quale si deve trasmettere il proprio personale (e dell’Ufficio) convincimento che si debbano rispettare “gli altri”. In fondo, il delinquere si qualifica come una significativa mancanza di rispetto verso “l’altro”.

Sono misure efficaci se si riesce ad operare senza il pregiudizio del pensare che si ha di fronte “l’ennesimo delinquente” ma una persona. Se si riesce a non pensare “sono tutti uguali” ma, al contrario, sono tutti diversi. Etichettare chicchessia è un grave errore per qualsiasi operatore sociale. È una visione miope che porta all’immobilismo. Non è possibile pensare ad un’ipotesi di reinserimento sociale, con la partecipazione attiva del soggetto in misura alternativa alla detenzione, se si è convinti, a priori, anche solo intimamente, che non v’è possibilità di cambiamento. È una sorta di profezia che si auto-determina che non è detto possa riscontrarsi solo tra gli operatori sociali del settore. È più grave, infatti, quand’è un convincimento della persona in area penale, determinata nell’idea che, per se stesso, nessun cambiamento, nessun reinserimento o mobilità sociale ascendente sia possibile.

Il trattamento penitenziario non è una nobile bugia se si opera con il reale convincimento che sia possibile realizzare dei cambiamenti, pur in assenza o con poche risorse a disposizione. Occorre convincersi che la prima risorsa da mettere in campo è la propria persona, la propria professionalità. La seconda risorsa è la persona che si ha di fronte: il cosiddetto utente.

Occorre personalizzare, individualizzare i programmi per le misure alternative alla detenzione. Occorre allontanarsi dalla centralità del lavoro come elemento trattamentale (spesso, addirittura, unico elemento trattamentale, sostanziale, che si ritrova nelle prescrizioni). Il lavoro, la formazione professionale, dovrebbero essere elementi non immediati ma consequenziali, ultimi di un percorso di rivisitazione del proprio vissuto, del proprio agire, delle motivazioni sostanziali, non formali, che hanno indotto la persona in esecuzione di pena a proporsi per un reinserimento sociale.

 

Quale ricaduta ha avuto l’indulto sul vostro Ufficio?

Un primo dato è che la quasi totalità degli “utenti“ del nostro Ufficio ha beneficiato dell’indulto. Un secondo dato è che, per il prossimo futuro, cambierà la tipologia di condannati con i quali si entrerà in relazione: saranno prevalentemente persone con pene medie e medio-lunghe, già espiate in parte in carcere, che chiederanno di  fruire di misure alternative alla detenzione. Un’ultima considerazione è la quantità significativa di soggetti in esecuzione di pena, con problemi di tossicodipendenza, presso comunità terapeutiche, che hanno deciso di abbandonarle appena beneficiato dell’indulto, pur avendo già intrapreso un percorso trattamentale significativo (almeno per quantità di tempo).

 

Secondo lei, è possibile ridurre la recidiva?

È possibile con l’educazione civica. Un grosso investimento in termini di risorse e di tempo. Un programma decennale che parta dalle scuole e coinvolga la cosiddetta società civile, spesso troppo silenziosa e che, erroneamente, si percepisce come minoranza, come parte debole, pur non essendolo.

Si è parlato di  esercito e telecamere da installare a Napoli. Sono favorevole al presidio dell’esercito e ad installare anche diecimila telecamere ma prevalentemente, mi si scusi per la provocazione, per monitorare ed intervenire per l’educazione civica. È un lavoro di prevenzione primaria che (anche se elettoralmente non paga, anzi penalizzerebbe chi dovesse promuoverla perché i risultati sono visibili solo a lungo termine) occorre iniziare.

Sono bastati pochi punti tolti dalle patenti per vedere i napoletani “per bene” con la cintura di sicurezza allacciata e fermi ai semafori. Si provi a penalizzare chi butta le carte a terra, chi suona il clacson, chi va in motorino senza casco, chi calpesta un’aiuola o chi non rispetta una fila. Si lavori, per i prossimi dieci anni, in modo continuo, per normalizzare la città e la recidiva si abbatterà in modo significativo.

Non si nasce delinquenti. Delinquenti (e recidivi) si diventa. Sarà più difficile, per qualsiasi adolescente, pensare di poter delinquere se non si sarà mai, in alcun modo, potuto sperimentare il circolare “normalmente” sul motorino impennandolo o utilizzando i marciapiedi invece della strada.

Come vede, mi sento ancora proteso verso interventi che contemporaneamente sono di “sostegno e controllo”…

 

I compiti degli Uffici Esecuzione Penale Esterna

 

Gli Uffici Locali dell’Esecuzione Penale Esterna (U.L.E.P.E. - ex C.S.S.A.) sono uffici “giovani”. Nascono con l’Ordinamento penitenziario del 1975. A differenza degli istituti penitenziari, che tra i detenuti annoverano sia i soggetti in custodia cautelate che i definitivi, gli U.L.E.P.E. sono competenti per seguire “soltanto” – tranne eccezioni previste dalla normativa – i soggetti in esecuzione di pena (intra ed extramuraria); coloro che, da liberi, chiedono di scontare la pena in misura alternativa alla detenzione; coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza detentiva e non (liberi vigilati) e persone sottoposte a sanzioni sostitutive.

 

Le attività principali sono:

Partecipare, insieme agli operatori interni al carcere, all’osservazione della personalità per i soggetti detenuti “definitivi” per stabilire quale progetto trattamentale intra o extramurario è possibile attuare con (e non per) la persona che sta scontando la pena;

fornire, insieme ad altri soggetti (a seconda dei casi, operatori degli istituti penitenziari – se si tratta di persone detenute – servizi sociali territoriali, Ser.T., servizi psichiatrici, consultori, volontari, associazioni, forze dell’ordine…), alla magistratura di sorveglianza il proprio contributo di servizio sociale utile per poter valutare se sia concedibile o meno una misura alternativa alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare…). Per le persone internate il lavoro è orientato a costruire i presupposti, insieme agli operatori degli O.P.G. e con i servizi socio-sanitari territoriali competenti, perché sia possibile una revoca della misura di sicurezza detentiva;

seguire, aiutare, orientare, sostenere i soggetti in misura alternativa alla detenzione, riferendo periodicamente al nostro committente principale (la Magistratura di Sorveglianza) sull’andamento stesso della misura;

fornire utili informazioni socio-familiari agli altri U.L.E.P.E. d’Italia, nel caso di detenuti ristretti in istituti penitenziari che sono al di fuori della propria competenza territoriale (che è, a secondo dei casi,  provinciale, pluri provinciale o regionale).

 

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