Lorena Orazi

 

Rieducazione, o forse è meglio risocializzazione?

Un’intervista a Lorena Orazi, professione educatrice

 

(Realizzata nel mese di novembre 1998)

 

A cura di Andrea Andriotto

 

Art. 82 O.P. (attribuzioni degli educatori). Gli educatori partecipano all’attività di gruppo per l’osservazione scientifica dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento individuale o di gruppo coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione. Collaborano inoltre nella tenuta della biblioteca e nella distribuzione dei libri e dei giornale.

 

Al Nuovo Complesso Penale di Padova sono presenti cinque educatori per circa seicento detenuti. Oltre a seguire le situazioni individuali di ogni singolo detenuto, ognuna di loro (sono tutte donne) si occupa di attività intramurarie diverse (scuole, corsi, attività ricreative e sportive, teatro, coordinare il lavoro degli assistenti volontari etc.).

Noi cominciamo ad affrontare il discusso tema della "rieducazione" rivolgendo alcune domande alla dott.sa Lorena Orazi, che attualmente si occupa dell’organizzazione di una parte dei corsi professionali e del coordinamento dei volontari.

Lorena Orazi fa questo lavoro da circa nove anni. Racconta di essersi avvicinata a questa realtà per puro caso, quando, iscritta al corso di laurea in scienze politiche, comincia a cercare lavoro. Vince uno dei tanti concorsi e si ritrova a lavorare all’interno del carcere di Padova, come educatrice.

A qualcuno potrebbe suonare strano il fatto che per un ruolo così complesso non vengano richieste alcune qualifiche in psicologia.... Ma il dubbio è presto soddisfatto, almeno in parte. Infatti ci viene spiegato che per quasi tutto il personale penitenziario è previsto, prima di iniziare il lavoro effettivo, una specie di corso di formazione dove si cerca di far capire i problemi che si dovranno affrontare con i detenuti.

Tra l’altro, oltre a questo "stage" iniziale, ci dovrebbero anche essere dei corsi di "aggiornamento" per tutti, dal personale direttivo agli agenti di Polizia penitenziaria.

 

Lei si occupa dell’organizzazione dei corsi professionali. Ci può spiegare come vengono organizzati e con che criterio si scelgono i partecipanti?

In genere è il Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria a proporre alla regione dei progetti di corsi di formazione, da attuare in carcere. Per quanto riguarda la selezione dei partecipanti...beh, generalmente sugli avvisi affissi nelle sezioni si richiedono alcune caratteristiche: pena residua, titoli di studio etc., perciò una prima selezione è automaticamente fatta.

Poi, noi guardiamo che un richiedente non abbia appena terminato un altro corso, insomma si cerca di lasciar spazio un po’ a tutti. In più, se sappiamo che un detenuto non fa nulla e passa la maggior parte del tempo in branda, andiamo noi a chiedere se è sua intenzione partecipare a qualche attività.

Comunque, ultimamente, da quando è il Fondo Europeo a finanziare i corsi, le selezioni vengono fatte da un gruppo di psicologi incaricati dall’ente che gestisce il corso stesso.

 

Quanti detenuti di questo istituto usufruiscono di permessi?

In quest’ultimo anno è manifesto il fatto che sono più che triplicati i permessi concessi, credo che almeno 1/3 dei detenuti di questo istituto abbia beneficiato di almeno un permesso premio. Dal mio punto di vista questo dipende da più fattori: un aumento considerevole delle sintesi effettuate dall’equipe del carcere, un Ufficio di Sorveglianza che si è mostrato progressivamente più sensibile all’applicazione della legge, alle richieste dei detenuti, alle proposte dell’istituto e ad un maggior senso di responsabilità degli stessi beneficiari, infatti è stata bassissima la percentuale dei mancati rientri se confrontata al numero di concessioni.

 

Avete, voi educatori, un programma strutturato di proposte per migliorare la situazione del Due Palazzi?

Le possibilità di miglioramento sono sempre auspicabili e mi sembra che ci si stia muovendo in questo senso, non solo come ufficio educatori ma anche come Direzione nel complesso. Si sa che se le persone detenute sono più "contente" ciò va a beneficio di tutti, nel senso che si respira un clima più vivibile e di maggior serenità, senza, per altro, perdere di vista il fatto che il contesto di cui si sta parlando è il posto dove si priva della libertà le persone.

È però difficile pensare ad un programma strutturato di proposte per migliorare la situazione di questo istituto, poiché m’accorgo sempre più spesso che è la quotidianità il fronte su cui occorrerebbe maggiormente impegnarsi.

E’ anche vero il fatto che, però, non dipende tutto da noi. Gli educatori possono fungere da stimolo propositivo assieme a chi vive sulla propria pelle ogni giorno l’ansia della domandina da cui dipende la possibilità di telefonare a una certa ora, un certo giorno, acquistare qualcosa che non è al sopravvitto o fare un colloquio in saletta oppure no, con la consapevolezza che forse non tutto si può risolvere nel modo più conveniente per chi chiede. E non basta, credo, sapere cosa si può o non si può fare, è importante che siano chiari i meccanismi che fanno funzionare le cose e soprattutto conta molto avere delle risposte tempestive da chi ha il compito di rispondere.

 

Cosa ci può dire sui rapporti disciplinari?

Quello del rapporto disciplinare è un momento in cui è impossibile intervenire a posteriori poiché si tratta di un campito esclusivo degli Agenti di Polizia Penitenziaria, in quanto pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni. Molto a questo riguardo occorrerebbe fare a priori con gli Agenti da parte sia dei loro superiori sia del Direttore, che può, nel caso il numero dei rapporti sia esageratamente alto, intervenire, perché la produzione di tanti rapporti non credo sia segno di una "cattiveria" da parte degli Agenti, ma piuttosto sintomo di malessere dei detenuti come degli Agenti stessi, per motivi diversi.

 

Voi, in caso di rapporto disciplinare, cosa potete fare?

Il nostro ruolo può avere un senso solo all’interno dei consigli di disciplina, quando si può spingere per una sospensione della sanzione, basandoci sulle relazioni comportamentali che hanno, quando sono buone, la funzione di ridurre il danno.

 

A vostro avviso negli istituti penitenziari esistono episodi di violenza nei confronti dei detenuti da parte degli Agenti della Polizia penitenziaria?

A livello generale penso che grosse violenze fisiche nei confronti dei detenuti non avvengano molto spesso. Con ciò non escludo a priori che possano succedere, ma quello che più mi interessa sono le forme sotterranee quotidiane di prevaricazione che possono accadere negli istituti, che si spiegano, magari, con la necessità di affermare un potere e una superiorità, che come dinamica si dovrebbe cercare di ridurre al minimo, per mortificare il meno possibile la dignità delle persone.

Mi riferisco per lo più al rapporto agente-detenuto e quando parlo di dignità delle persone credo che il suo riconoscimento spetti a tutti in misura uguale, sia a quelli che stanno dietro ai cancelli sia a quelli che hanno le chiavi dei cancelli.

A questo punto si dovrebbe e si potrebbe aprire un discorso sull’immagine che le varie persone che stanno in carcere hanno l’uno dell’altra e quale significato si attribuiscono reciprocamente a livello simbolico.

 

Esistono delle soluzioni "sperimentali" per avvicinare i detenuti al mondo esterno?

Più che soluzioni sperimentali penso che si possano "inventare" percorsi sperimentali di contatto con l’esterno, e l’esperienza di questi anni lo dimostra. Non siamo noi educatori a doverci inventare le soluzioni, perché i percorsi e le soluzioni si possono cercare con le persone, imparando ad ascoltare i desideri e i bisogni di cui sono portatrici, stimolandoli se necessario.

 

Cosa ne pensa del suo lavoro? Le dà delle soddisfazioni?

Lavorare con le persone è per me un’esperienza che, al di là delle soddisfazioni personali, non lascia indifferente. Credo poi che col tempo si acquisisca equilibrio e soprattutto "senso del limite" poi che ci si rende conto che non si diventerà l’elemento "magico" che risolverà i problemi delle persone detenute o ne cambierà le scelte di vita.

L’equilibrio e la professionalità stanno nel fatto di non vivere come personali sconfitte eventuali "fallimenti" e di conseguenza assumere un atteggiamento cinico nei confronti del lavoro. L’autoironia aiuta, penso, a ridimensionarsi e a continuare a vivere e lavorare con senso di umanità.

 

 

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