Lino Monteverde

 

Nell’immaginario collettivo le misure alternative

si intendono ancora come benefici e non

come pene, quali sono realmente

 

(Realizzata nel mese di febbraio 2003)

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova ci parla della necessità di creare un sistema sanzionatorio nuovo, più umano e più civile

 

Qualche tempo fa ci aveva colpito un articolo, pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX" dove il dottor Lino Monteverde, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova, denunciava che le misure alternative sono diventate "una scatola vuota", citando anche dati sconcertanti di una ricerca sui Tribunali di Sorveglianza italiani: se a Genova il tempo medio di risposta alle istanze risultava "buono" (4-6 mesi), in altre realtà i tempi andavano da uno a sei anni. Abbiamo intervistato (per lettera) il dottor Monteverde, che ha avuto la pazienza di rispondere dettagliatamente alle nostre domande.

 

Presidente Monteverde, com’è la situazione delle pene alternative alla detenzione in Italia, in termini numerici ma soprattutto riguardo all’efficienza, all’efficacia e alla loro funzione sociale?

In termini numerici, la situazione relativa alle misure alternative ed al loro rapporto con la misura della detenzione in carcere è la seguente. Alla data del 31-12-01 (non conosco ancora i dati relativi al 31-12-02), le persone condannate in via definitiva a pena detentiva che scontavano la pena stessa in misura alternativa erano 41.496 (di esse, 26.383 si trovavano in affidamento al servizio sociale, 11.511 si trovavano in detenzione domiciliare, 3.602 si trovavano in semilibertà). Alla stessa data, le persone condannate in via definitiva a pena detentiva che scontavano la pena stessa in carcere erano 30.622 (oltre ad esse, a quella stessa data erano detenute in carcere altre 24.653 persone, in stato di custodia cautelare). Appare significativo, per le ragioni che vedremo, evidenziare che delle 41.496 persone che scontavano la pena in misura alternativa, 28.060 non avevano scontato neppure un giorno in carcere in esecuzione pena, perché la detenzione in carcere era stata per loro sostituita con una misura alternativa prima del suo inizio.

In termini di efficienza, efficacia, funzione sociale delle misure alternative e della loro incisività sulla rieducazione (questo è il punto veramente cruciale del problema ed è stato esattamente inquadrato nelle domande), vorrei distinguere la posizione di quei condannati a pena detentiva che ottengono la misura nel corso dell’esecuzione, e cioè dopo avere scontato un periodo più o meno lungo di detenzione in carcere, da quelli che la ottengono dallo stato di libertà, e cioè prima dell’inizio dell’esecuzione. La misura alternativa, come sappiamo, costituisce di fatto una vera e propria pena e infatti, quando la misura viene applicata prima dell’inizio dell’esecuzione, come avviene nella maggior parte dei casi di condanna a pena detentiva, il rapporto punitivo del condannato con lo Stato inizia e si esaurisce, salvo i casi eccezionali di revoca, senza "transitare" per il carcere.

L’asse del sistema sanzionatorio si è così spostato, in questi ultimi anni, dalla pena detentiva alle misure alternative, e questo costituisce indubbiamente un fatto positivo. Si rileva peraltro che in altri Paesi europei lo spostamento è più marcato, nel senso che maggiore è il divario tra i condannati che scontano la pena in misura alternativa da quelli che scontano la stessa pena in carcere. Anche da noi, sussistono i presupposti per una loro più ampia applicazione, e quindi per una riduzione delle carcerazioni, seguendo la linea culturale oggi assolutamente prevalente che tende appunto, in prospettiva, a riservare il carcere ai casi più gravi e ai condannati più pericolosi (si intende comunque sempre, anche secondo questa linea, un carcere meno afflittivo di quello attuale ed in grado di perseguire quella finalità rieducativa che attualmente in carcere non si può perseguire, per l’inadeguatezza complessiva delle strutture, in rapporto al numero troppo elevato dei detenuti).

 

Non ritiene, comunque, che le misure alternative potrebbero essere applicate in maniera ancora più ampia, e per quali motivi ciò non avviene?

La ragione principale di questa applicazione ancora limitata delle misure alternative deriva, a mio parere, dalla loro oggettiva inconsistenza e, conseguentemente, dalla loro scarsa evidenza all’esterno. Quasi nessuno sa, ad esempio, anche tra gli addetti ai lavori, in cosa consista realmente la misura dell’affidamento al servizio sociale e quali siano i suoi contenuti e le sue concrete modalità. Eppure si tratta, come si rileva dai dati esposti, della misura più diffusa. In proposito, è stato più volte sottolineato da più parti, che essa si rivela spesso una scatola vuota, un vero e proprio indulto mascherato (il rilievo riguarda soprattutto l’affidamento ordinario).

Le altre misure (detenzione domiciliare e semilibertà) sono più evidenti all’esterno, ma il loro contenuto è spesso più apparente che reale e, in ogni caso, soprattutto per la detenzione domiciliare, tende progressivamente a sfilacciarsi nella fase di gestione, attraverso le frequenti modifiche delle prescrizioni originarie, non sempre giustificate. Questa generale inconsistenza, pesa sulle decisioni dei giudici, in particolare quando si tratta di sostituire la pena detentiva con una pena di specie diversa, prima che la sua esecuzione abbia avuto inizio. Di fatto, l’inconsistenza delle misure rappresenta l’ostacolo maggiore, oggi, ad una modifica radicale del sistema sanzionatorio, pure inevitabile in prospettiva come si è accennato, che porti a relegare il carcere al livello di pena residuale. In effetti, nell’immaginario collettivo, le misure alternative si intendono ancora come "benefici" e non come pene, quali sono realmente sotto il profilo sostanziale e quali saranno, tra poco, anche sotto il profilo formale (in verità questo ritardo culturale è storicamente comprensibile, in quanto le misure, all’atto della loro istituzione erano effettivamente benefici penitenziari, riguardando solo persone che avevano, per così dire, "pagato" in larga misura il loro debito nei confronti della società con un periodo più o meno lungo di carcerazione).

 

Quali rimedi, giuridici, culturali e sociali, potrebbero essere quindi adottati, secondo lei, per migliorare l’attuale situazione?

Formulo una risposta che forse non sarà condivisa, ma che a me pare l’unica possibile. Per favorire una più ampia diffusione delle pene diverse dal carcere oggi esistenti, le c.d. misure alternative, occorre che esse siano più seriamente disciplinate sotto il profilo normativo (con una maggiore attenzione alle esigenze della vittime del reato ed alla prestazione di lavori socialmente utili a titolo gratuito), più seriamente applicate dai giudici, e cioè con una più attenta valutazione dei singoli casi che oggi essi non sono in grado di compiere per la debolezza organizzativa dei loro Uffici e per l’eccessivo carico di lavoro, più seriamente gestite nella fase esecutiva, al fine di evitare quei perniciosi sfilacciamenti in quella fase che tanto contribuiscono alla loro inconsistenza e, conseguentemente, alla persistente avversione nei loro confronti dell’opinione pubblica, anche qualificata.

La svolta qui auspicata richiede in primo luogo interventi a livello politico (dei quali in verità, non si intravede alcun segnale), in termini di modifiche normative e di potenziamento organizzativo degli Uffici, ma richiede anche la consapevolezza, da parte di tutti, che qui si tratta di contribuire a disegnare un nuovo sistema sanzionatorio. Non un sistema futuribile e astratto, ma un sistema che ha già consistenti agganci nelle norme e nella realtà e che si deve portare avanti, in linea con quanto avviene in altri Paesi. Osservo, in proposito, che una spinta in quella direzione potrebbe venire già oggi, con il concorso degli interessati, degli operatori del CSSA, dei Servizi territoriali locali e delle associazioni di volontariato. Infatti, se le persone condannate, libere o detenute, si presentassero ai giudici per chiedere una misura alternativa, cioè una pena diversa dal carcere, con un progetto elaborato insieme ai Servizi che preveda i contenuti possibili della diversa pena richiesta (ad esempio, impegni concreti in materia di risarcimento o di riparazione del danno, in materia di prestazioni di lavori socialmente utili a titolo gratuito compatibili con il lavoro retribuito del soggetto, in materia di inserimento del soggetto in associazioni dedite ad attività di tipo solidaristico), esse potrebbero contribuire, per ciò solo, ove l’impegno sia concreto e poi (nel caso di accoglimento della domanda) seriamente perseguito, all’ampliamento applicativo delle misure e ad un cambiamento di posizione nei loro confronti da parte dell’opinione pubblica, cambiamento che avrebbe un positivo riflesso sugli orientamenti politici e normativi. Vorrei ricordare che nella direzione qui auspicata si muoveva anche la legge Gozzini, che non a caso aveva modificato la disciplina relativa alla misura dell’affidamento al servizio sociale, quando pure essa riguardava soltanto i condannati detenuti, rendendo non più facoltativa ma obbligatoria la prescrizione riparatoria per essa prevista (il fatto poi che la prescrizione sia rimasta inapplicata per oltre dieci anni rientra in un altro discorso).

 

Qual è il suo pensiero sulle prescrizioni, forse troppo rigide, che vengono imposte in caso di concessione delle misure alternative?

Anche nella vostra rivista, che ho letto volentieri (a proposito, vi ringrazio dell’invio e devo dirvi che è fatta veramente bene), si esprimono opinioni diverse sui punti di cui sopra. Si parla ad esempio, in una nota redazionale, di rigidissime regole per la semilibertà. Osservo, sul punto, rientrando il rilievo sulla asserita rigidità delle regole nell’ambito del presente discorso, che ciò può essere avvenuto in alcuni casi, ma che nella mia esperienza ho invece avvertito spesso la sostanziale mancanza, anche nel corso dello svolgimento di tale misura, di attività (diverse dal lavoro retribuito) rientranti in un progetto rieducativo e risocializzante. In ogni caso, per le prescrizioni, il problema che a me appare essenziale non è quello della loro rigidità, ma quello della loro serietà, che è cosa diversa. Nella stessa rivista si sostiene, in un intervento, che le misure alternative sono, per il detenuto, "fondamentali per ritrovare gli affetti familiari e il proprio ruolo nella famiglia e nella società". Questa a me pare una osservazione puntuale. Le misure alternative non solo tendono a quegli obbiettivi, ma prevedono appunto modalità di attuazione che realizzano, almeno in parte, la ripresa di rapporti familiari, sociali e lavorativi. Il fatto è che ciò deve necessariamente avvenire, perché le misure alternative si estendano, nel quadro dei principi e delle condizioni sopra-indicati, perché affrontando questi problemi non deve sfuggire il dato di fondo: qui si discute in materia di pena, le misura alternative sono pene (come la detenzione in carcere e la pena pecuniaria), devono pertanto avere anche i contenuti tipici ed ineliminabili di ogni tipo di pena, fermo restando per esse, così come per qualsiasi altra pena, come previsto dalla Costituzione, la loro finalità rieducativa. Ancora a mio parere, chi tende a mantenere l’inconsistenza attuale delle misure alternative, e favorisce il loro sfilacciamento nella fase gestionale, accetta sostanzialmente l’impianto sanzionatorio tradizionale e rafforza, oggettivamente, le posizioni di chi vuole risolvere la crisi dell’attuale sistema sanzionatorio, costruendo altri istituti penitenziari invece di creare un sistema sanzionatorio nuovo, più umano e più civile, fondato essenzialmente su misure diverse dal carcere.

 

Per concludere vorremmo che lei approfondisse la questione legata al reinserimento nella società dei detenuti ed ex detenuti…

Non mi sottraggo certamente all’ultima domanda, che a livello di importanza è forse la prima. Sappiamo, anche se spesso sul punto si sorvola, che le persone condannate appartengono, nella maggior parte dei casi, al mondo dell’emarginazione. In questi casi, si tratti di condannati liberi o di condannati detenuti, l’esigenza della risposta dello Stato al reato commesso viene ad intrecciarsi indissolubilmente con l’esigenza assistenziale e di un aiuto reale e consistente, al soggetto lungo la via della rieducazione. Si tratta spesso di rimediare, nei limiti in cui è ancora possibile, all’inadempimento dello Stato, nelle sue diverse espressioni, ai suoi obblighi assistenziali nei confronti delle persone appartenenti a quel mondo, a partire dalla loro nascita. Qualcuno ha scritto che il "delinquente" di oggi è il bambino che ieri non abbiamo aiutato a crescere. Anche qui il problema non si risolve, rinunciando alla risposta penale, tale risposta deve necessariamente esserci, ma è molto più complessa, perché è più difficile il processo di responsalizzazione del soggetto, connesso alla risposta stessa.

In definitiva, in questi casi, per tradurre concretamente i principi, si impone il coinvolgimento più ampio dei Servizi locali territoriali in quel progetto di cui si è parlato, perché soltanto i Servizi radicati sul territorio possono affrontare e risolvere i problemi di carattere assistenziale. L’esigenza assistenziale non contrasta con la prospettiva sopra delineata. In sostanza tale esigenza, comporta per tutti (lo Stato, rappresentato in questa fase dal CSSA, e la comunità locale, nelle sue articolazioni, istituzionali e non) un impegno decisamente maggiore.

 

 

Precedente Home Su Successiva