Franco Corleone

 

Il nuovo regolamento... ancora al palo

 

"Nonostante ci fossero risorse economiche importanti, non si è fatto quasi nulla per ristrutturare le carceri e attuare le riforme"

 

(Realizzata nel mese di giugno 2002)

 

Fino a un anno fa lei era Sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri. Durante il suo mandato sembrava esserci una certa attenzione al cosiddetto "trattamento" per i detenuti, mentre adesso pare che l’attenzione sia rivolta altrove… 

Quello del "trattamento rieducativo" è un concetto che ha un fondo di equivoco, perché dà l’idea che ci siano delle persone che possono davvero rieducare e altre persone davvero disponibili ad essere rieducate. È un concetto non felicissimo, che io tradurrei invece così: il carcere, per rimediare al paradosso che rappresenta, avrebbe bisogno di rapporti umani, di relazioni.

Questa è la sfida, perché se noi non vogliamo alzare la bandiera della "liberazione dal carcere" e prendiamo atto che è una struttura esistente, ma vogliamo che risponda a dei principi, a delle speranze, a delle suggestioni sul reinserimento o, meglio, sull’inserimento sociale, c’è bisogno di relazioni umane.

C’è bisogno di un percorso. Perché non possiamo idealizzare il detenuto come una persona che per sbaglio si trova nella struttura di contenimento. È una persona che ha avuto una vita spesso difficile, per mille motivi, ma dobbiamo anche rispettare la soggettività che l’ha portato a fare certe cose. Quindi io sono contro, sempre, all’irresponsabilità o all’incapacità di intendere e di volere, o all’idea che chi è in carcere è una vittima della società, della famiglia, dei genitori, etc., etc.

Rispettandone la soggettività possiamo contemporaneamente impegnare ogni persona in un percorso diverso, il problema è che dobbiamo darle delle opportunità, e questa è la cosa più difficile. In alcuni casi, poi, bisogna riuscire a dare dei valori diversi. Se i valori dominanti nella nostra società sono il denaro, la forza, il successo, mi pare difficile pensare all’inserimento degli ex detenuti finché diamo loro la prospettiva di vivere con un lavoro poco interessante e, magari, con un milione al mese. È chiaro che così non può funzionare.

Ci vogliono percorsi, relazioni e prospettive vere d’inserimento. Per questo bisogna immaginare una "non discriminazione" e, soprattutto, la possibilità di far emergere dal carcere delle capacità, anche imprenditoriali, per dei lavori che abbiano un margine di autonomia, perché l’idea del lavoro dipendente (a parte la crisi complessiva del lavoro dipendente) non è molto motivante.

 

Per realizzare tutti questi propositi serve personale specializzato e in numero sufficiente: finché avremo un educatore ogni 200 detenuti e un assistente sociale ogni 400 c’è ben poco da sperare… 

Occorre senz’altro personale di altissima capacità, di altissimo valore, e qui tocchiamo il punto dolente, perché l’Amministrazione penitenziaria ha delle carenze numeriche e, in parte, anche qualitative, nella disponibilità di personale. Il carcere non può limitarsi a tener buoni i detenuti, deve avere delle progettualità diverse, deve saper guardare lontano.

Io avevo lanciato l’idea – e spero che qualcuno la riprenda – che il personale del trattamento fosse personale degli Enti locali (Comuni, Province e Regioni) comandato a lavorare in carcere, magari per uno, due, o tre anni, ma avendo conoscenza dei meccanismi del lavoro e del territorio e della rete produttiva, avendo contatti con i sindacati e gli imprenditori. Questo, forse, potrebbe essere – assieme alle più tradizionali figure del trattamento psicologico – il modo giusto per affrontare i problemi legati all’inserimento lavorativo, all’applicazione della legge Smuraglia per il lavoro dei detenuti, e così via.

 

Che cosa pensa, invece, dell’idea di stipulare convenzioni con soggetti privati perché si occupino del trattamento dei detenuti? Ad esempio del progetto iniziato alla Casa di Lavoro di Castelfranco Emilia, che dovrebbe coinvolgere la Comunità di San Patrignano?

In questo momento a Castelfranco Emilia è tutto bloccato, perché ci sono grosse difficoltà giuridiche e politiche per definire il modello che dovrebbe essere alla base dell’accordo tra il Ministero della Giustizia e la Comunità. Quando ho saputo di questo progetto sono stato il primo a denunciarlo: era un blitz, voluto soprattutto dal ministro Moratti – più che dal ministro Castelli – per i suoi legami con San Patrignano.

Il problema è che quella Casa di Lavoro è comunque un carcere, quindi nessuno ha spiegato in cosa sarebbe consistita la responsabilità di San Patrignano. Se la struttura viene regalata (o data in comodato) a San Patrignano, che ci fa un’altra Comunità, allora non c’è nulla da dire. Invece se lì ci sono dei detenuti, con un direttore di carcere, con la polizia penitenziaria, come potrebbe funzionare la coabitazione? Nessuno ha saputo spiegarlo.

 

Si tratta soltanto di una questione burocratica, per la definizione delle rispettive funzioni, oppure secondo lei ci sono rischi concreti, legati al possibile ingresso dei privati nella gestione delle carceri?

Se io sono detenuto, sono un cittadino detenuto con i diritti della Legge penitenziaria e del Regolamento e non posso essere sottoposto a regole fissate da un privato, altrimenti scendiamo davvero in un esperimento di privatizzazione del trattamento e, per fare questo, bisogna prima affrontare un dibattito politico - costituzionale, che non si è fatto: ecco perché, per il momento, il progetto si è fermato… ma credo che vorrebbero andare avanti.

Il "modello San Patrignano" può funzionare, io non dico che non funzioni, ma il modello di Comunità, qualunque essa sia (e a maggior ragione se è una Comunità autoritaria), può funzionare solo partendo dalla libera accettazione, da parte del soggetto, delle regole che dovrà rispettare.

In un carcere anche le regole sono stabilite da leggi e norme, non c’è libera accettazione, non c’è la possibilità di scegliere di andarsene, quindi il carcere e la Comunità terapeutica sono cose molto diverse.

 

La legge di riforma della medicina penitenziaria ha due anni di vita. La sperimentazione sul passaggio di competenze, dal Ministero della Giustizia al Ministero della Sanità, sembra essersi persa nel nulla.

Mi pare che questo Governo, in un anno, abbia lasciato un disastro… non mi viene una parola più tenue. In alcune regioni non si è fatta la sperimentazione sul passaggio al Ministero della Sanità; non si è proseguito nel dare responsabilità ai Ser.T. per le politiche sulle tossicodipendenze; per il passaggio complessivo delle competenze ora si dirà che, siccome la sperimentazione non è stata fatta, bisogna tornare indietro…

Rimane il fatto che c’è una legge per cui le tossicodipendenze sono nella competenza del Servizio Sanitario Nazionale, quindi si può anche scavalcare e annullare il passaggio complessivo della medicina penitenziaria, ma sulle tossicodipendenze mi domando cosa si è fatto e cosa s’intende fare, perché altrimenti qui non c’è solo da affossarla nei fatti, bisogna cambiare la legge altrimenti si è inadempienti.

 

Cosa ci può dire invece, per quanto riguarda l’applicazione del nuovo Regolamento Penitenziario?

È passato un anno e, nonostante ci fossero risorse economiche importanti, non si è fatto quasi nulla per quanto riguarda la ristrutturazione delle carceri prevista dal nuovo Regolamento. Io mi pongo il problema dell’utilità di avere, al vertice del Ministero della Giustizia, un ingegnere, che poi non si è dedicato a fare gli interventi strutturali che servono per dare applicazione al Regolamento Penitenziario. Non si tratta di sognare la riapertura di Pianosa, o vendere San Vittore, ma di ristrutturare le carceri esistenti in funzione del Regolamento, che è già un progetto trattamentale.

 

Recentemente a Padova abbiamo organizzato una giornata di studi per rilanciare il dibattito sul diritto all’affettività per le persone detenute. Anche lei si fece promotore di un’iniziativa in questo senso, inserendola nella bozza del nuovo Regolamento, ma non è andata a buon fine. Dopo quell’esperienza, quali suggerimenti può darci per vincere questa battaglia di civiltà?

Purtroppo il Consiglio di Stato ha bloccato la proposta di sperimentazione che avevamo presentato. Suggerì (e di fatto impose) la via della legge. Mi auguro che, proprio a partire dai risultati del convegno fatto a Padova, ci siano le forze parlamentari, appartenenti a tutti gli schieramenti politici, per far approvare rapidamente questa proposta.

D’altronde gli esempi in Europa sono tanti, in paesi con culture e religioni diverse, e penso che se la proposta riprende la mia idea, cioè di non prevedere colloqui di una o due ore ma un incontro "allargato" con la famiglia, si possano superare quelle obiezioni un po’ moralistiche che vengono talvolta fatte e, forse, anche le resistenze che ci sono tra le stesse persone interessate.

 

 

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