Comunità Betania

 

Betania, una comunità in cui nessuno

pensa di giocare il ruolo del “guaritore”

L’onestà di parlare di successi e anche degli insuccessi. Oggi, sostengono gli operatori di Betania, le droghe sono utilizzate soprattutto come automedicazione. Dietro il loro uso ci sono spesso disagi a livello psicologico e psichiatrico abbastanza accentuati e pesanti

 

(Realizzata nel mese di settembre 2005)

 

a cura di Marino Occhipinti

 

Con la comunità Betania e la nostra redazione c’è da anni uno scambio vivace di informazioni, una collaborazione attiva che ha visto spesso operatori della comunità entrare nel carcere Due Palazzi e partecipare a nostre iniziative. Questa volta abbiamo deciso di andare più a fondo nella conoscenza di questa realtà che si occupa da anni di tossicodipendenti, anche detenuti, con una intervista “multipla” alla quale hanno risposto Andrea Branchini, il direttore della comunità, Susanna Pizarotti, la responsabile della casa di Marore, e Sandro Romani, responsabile di Priorato, la sede dove si fa l’accoglienza notturna e a bassa soglia, e volontario nel carcere di Parma.

 

Betania accoglie ragazzi provenienti dal carcere?

Andrea Branchini: Noi accogliamo persone che arrivano dal carcere fin dai primi anni della nostra esistenza. La grossa battaglia che abbiamo fatto è stata di arrivare però ad accogliere delle persone che potessero vivere il programma comunitario come gli altri che non hanno vincoli penali. Mentre prima i ragazzi arrivavano con la formula degli arresti domiciliari e non potevano spostarsi neppure dal cortile e c’era un continuo controllo delle Forze dell’ordine, oggi hanno, quasi tutti, la possibilità di essere affidati non tanto alla comunità come luogo fisico, quanto al programma terapeutico, e quindi svolgere il programma terapeutico come gli altri, anche se bisogna avere le accortezze che siano presenti gli operatori, che abbiano gli adeguati permessi.

Dal punto di vista numerico, guardando gli ultimi anni, noi accogliamo mediamente ogni anno una quindicina di persone dal carcere, che entrano per la maggior parte con la formula dell’affidamento sociale in prova. Oggi c’è un lavoro educativo reale e la volontà di lavorare sul cambiamento della persona, mentre in passato dovevamo essere più preoccupati di fare uno specifico controllo normativo. Ora anche questi ragazzi possono fare un lavoro all’esterno, naturalmente con il vincolo di comunicare alle strutture preposte i vari spostamenti. Condizioni queste che non incidono sulla tenuta dei ragazzi, a meno che non siano persone con pene molto lunghe, per cui può essere sfiancante, pur avendo una vita esterna più o meno regolare, avere sempre tutti gli orari fissati. Comunque bisogna riconoscere che sono persone che se non fossero da noi con queste condizioni, sarebbero dentro il carcere.

 

Di fronte ai successi/insuccessi dei ragazzi cosa provano gli operatori?

Susanna Pizarotti: Successo è trasmettere a un ragazzo una qualità di vita diversa, in modo che riesca a recuperare quelle autonomie perse nel tempo. L’uso della sostanza ti porta a continuare a ricercare qualche cosa…. Allora il fermarsi, rimettere in ordine alcune idee e da lì ricominciare e dare un senso alla giornata, questo per noi è già un successo. Un successo maggiore avviene quando uno lascia la comunità, finito il percorso in modo tranquillo, sereno, e riesce a riprendere in mano la propria vita. Capita che dopo qualche anno qualcuno ricada, questo purtroppo è successo e succederà ancora. Insuccesso è quando non si riesce a lavorare con un ragazzo, quando non riesci a trasmettergli il senso della vita. Cioè tu gli dici: “Guarda questa per te è un’occasione, questo è lo stile di vita che abbiamo pensato, tu ci hai chiesto un aiuto, questo è ciò che ti offriamo, sta a te cogliere o meno la scelta che ti proponiamo”.

 

Dietro l’uso di una sostanza ci sono disagi a livello psicologico e psichiatrico abbastanza accentuati

 

Quando vediamo che c’è fatica e nella fatica non si riesce ad andare avanti e c’è l’abbandono del ragazzo, ci facciamo molte domande: se abbiamo fatto tutto, se abbiamo mancato in qualcosa. Credo che la crisi più grossa è quando noi pretendiamo di risolvere il problema di tutti, quando crediamo di essere i “guaritori”. Se invece noi ci mettiamo nella logica che siamo degli strumenti per dare delle occasioni a questi ragazzi, credo che anche quando ci sono degli abbandoni, possiamo avere comunque la serenità per continuare con chi nel gioco ci sta.

Andrea Branchini: Bisogna innanzitutto fare chiarezza per quello che si intende per successo. Negli anni ci siamo accorti quanto è cambiata l’utenza. Oggi non si riesce più a lavorare con il tossicodipendente, assuntore di eroina, con problemi legati molto al comportamento e all’abitudine e con il quale, con un percorso svolto seriamente in comunità, si otteneva la cosiddetta guarigione: una persone, cioè, che torna ad avere un lavoro, una famiglia, delle abitudini sane, delle amicizie, delle relazioni importanti. Oggi abbiamo persone con diverse problematiche e non solo quelle di sostanze. Per cui parlare di successo a volte vuole dire riuscire ad equilibrare alcuni aspetti della propria persona, ma non è detto che siano tutti.

Se facciamo un discorso statistico oggi ci sono molti insuccessi: persone che fanno fatica ad avere questo equilibrio. Se intendiamo successo il rapporto tra come una persona arriva in comunità con la sua storia e come ne esce, probabilmente anche oggi abbiamo dei successi importanti. Il fatto poi che siano nate strutture a bassa soglia o di contenimento, cioè che danno ad alcune persone ancora una protezione, anche se queste persone hanno un lavoro esterno, una famiglia, delle relazioni, ci fa capire quanto è difficile trovare un equilibrio pieno. Io sono convinto che i successi a Betania ci sono sempre stati: nel passato in modo più netto, oggi vanno valutati in modo diverso. Come ci sono stati sempre insuccessi, abbandoni o persone che continuano a tornare, il che da un punto di vista può essere positivo, perché vuole dire tornare a prendere in mano queste situazioni, da un altro è comunque vivere l’esperienza della ricaduta di continuo. Se guardiamo il problema in questo modo l’operatore, e anche il familiare, hanno una visione più positiva di alcune problematiche, se facciamo un discorso solo basato su numeri e statistiche è chiaro che oggi ci sono più persone che fanno più fatica di prima.

Da quattro anni abbiamo la casa per malati di Aids, dove, anche se non è aperta solo a persone con problemi di tossicodipendenza, chiaramente la maggior parte, se non la totalità, arriva da questa esperienza. Per queste persone la condizione di malattia può diventare motivo di non voler uscire dal problema perché tanto non ci si può porre obiettivi a lungo termine, in quanto la malattia avrà il sopravvento. Bene, noi ci siamo accorti che questa casa significa credere ancora nella vita e che qui le persone continuano a portare avanti alcuni strumenti, malgrado la loro preoccupazione principale sia la salute. Anche questo penso faccia parte dei successi.

Nell’arco di un anno entrano circa una cinquantina di ragazzi a tentare questo percorso ed ogni anno 10/15 ragazzi lasciano la comunità, dopo aver ultimato il percorso, mantenendo anche fuori una vita regolare. Il fatto che oggi vengano in comunità tante persone dopo aver fatto diversi percorsi, ci chiede di lavorare molto sul reinserimento. Mentre prima la comunità durava 24/30 mesi e veniva sviluppata dall’accoglienza fino al ritorno nella società in modo abbastanza equilibrato nei vari passaggi, oggi abbiamo persone con molte esperienze in comunità e che hanno chiaro dentro di sé il concetto delle regole, e che hanno bisogno di sperimentarsi molto con l’esterno.

Mentre prima una persona restava in comunità 18/20 mesi e poi incominciava ad andare a lavorare fuori, a misurarsi con l’esterno, ad andare più spesso in famiglia, oggi su un percorso di 20/24 mesi le persone vivono l’esperienza lavorativa già dopo 6/8 mesi e trascorrono il resto del percorso a misurarsi sugli aspetti legati alla vita esterna. Sono persone con delle qualità, degli strumenti ma che quando ritornano a confrontarsi con l’esterno sono a rischio di ricaduta. Ricaduta può essere l’uso di alcol, come di altre sostanze, droghe leggere o sintetiche, fino a ritornare alla vita di poliassuntore, e quindi a tornare a chiedere la comunità o impostare terapie a mantenimento elevate. Anche per questo bisogna creare strutture specialistiche per queste persone se non si vogliono abbandonare.

 

Quali sono oggi le sostanze più diffuse? E si può parlare di sostanze più o meno dannose?

Susanna Pizarotti: La mia esperienza è di 6/7 anni, un po’ limitata nel tempo. Quello di cui mi accorgo ultimamente è l’uso diverso che si fa della sostanza. Prima, parlo di quelli che oggi hanno 35/40 anni, ne facevano un uso più di svago, di divertimento. Oggi la sostanza è utilizzata più come automedicazione. Credo che dietro l’uso di una sostanza ci siano disagi a livello psicologico e psichiatrico abbastanza accentuati e pesanti (tipo psicosi, nevrosi). E con la sostanza, anziché con il farmaco o con la volontà, si cerca di alleviare il disagio. Non per nulla sempre più spesso si parla di doppia diagnosi, mentre un tempo se ne parlava in modo molto limitato. Credo che se una persona molto depressa non riconosce i sintomi, o se le persone intorno non riconoscono i sintomi, e ha la sfortuna o la curiosità di provare inizialmente una sostanza… normalmente abbiamo l’uso della cocaina, se uno è giù, la cocaina lo aiuta ad essere brillante, simpatico, mentre se uno è esagitato e non riesce a stare concentrato su una cosa, è iperattivo, è molto facile che usi una sostanza che lo tranquillizzi tipo l’eroina e derivati. Oggi a noi si presentano persone che ricercano la sostanza come autocura, come sostituzione del farmaco, in una situazione di non riconoscimento di una patologia, mentre prima il tossico era il “deviante”, con cui si riusciva a lavorare forse meglio.

Un altro aspetto è che si sono affacciate queste droghe sintetiche, come l’ecstasy, che fanno molti danni a livello neurologico. Sostanze “ricreative”, che generano un po’ meno dipendenza fisica, ma comunque una dipendenza psicologica, che creano il bisogno di “calare” qualche cosa per potersi divertire.

Andrea Branchini: Le sostanze sono tutte dannose e sempre più dobbiamo parlare di droghe e non di droga. È pericoloso limitarsi a parlare dei rischi e dei danni delle sostanze, perché rischiamo di dire che alcune fanno male e altre meno. o quasi bene per alcuni, vedi la marijuana o l’alcol. È dimostrato che tutte le sostanze sono dannose: è chiaro che alcune hanno un effetto immediato nei danni, altre meno. Per esempio nessuno ti dice che il “fumo” è dannoso nel momento che lo stai usando, ma negli anni hanno conseguenze sul cervello, ingenerano delle abitudini che provocano dei cambiamenti strutturali della persona. È chiaro che il danno che fa una sigaretta oggi mentre la sto fumando è diverso da quello che può fare l’eroina che può causarmi un’overdose o un collasso con una sola assunzione.

Noi non vogliamo solo parlare di quanti danni fanno, delle conseguenze sul fisico, ma anche delle conseguenze sui comportamenti. Oggi non esiste più il monoassuntore, ma persone di varie età, dai 12/13 anni fino ai 40/50, che utilizzano varie sostanze. Un tempo si diceva che i tossicodipendenti avevano un po’ tutti lo stesso percorso che iniziava con l’alcol e le droghe leggere per poi passare a quelle pesanti. Oggi ci sono persone che provano di tutto o passano da una droga all’altra. Oggi la sostanza prevalente è la cocaina, e tutte le sostanze eccitanti, che lavorano sui recettori della serotonina. Sostanze legate al mondo della notte e del divertimento, del rischio, ma anche al mondo delle persone “normali”, cioè che hanno un lavoro (anche di successo), una famiglia.

Negli adolescenti non è certo diminuito l’uso del “fumo”, dell’ecstasy, di nuove droghe sintetiche. È probabile che nelle discoteche giri molta cocaina pura e quindi tutta una serie di modalità legate a questo. La cocaina resta la droga più costosa, e invece si sente parlare sempre poco di eroina, anche se le persone ne continuano a fare uso. Certo che di droga si continua a morire, ma forse sono meno evidenti le overdose e ci sono molti suicidi che passano per overdose.

Il pericolo che si sta correndo nei trattamenti ambulatoriali di queste persone è di fare emergere il concetto di sostanza anche per strumenti fino ad ieri considerati farmaci. Mi riferisco in particolare al metadone e alla buprenorfina (Subutex). Sono sostanze che vengono utilizzate spesso nei trattamenti ambulatoriali ed anche nelle comunità per accompagnare le persone soprattutto all’inizio del percorso. Con il fatto che oggi c’è una carenza economica, di disponibilità delle persone, di capacità di elaborare percorsi, diviene molto comodo sottoporre una persona a un trattamento a mantenimento, visto che il metadone costa naturalmente molto meno di una giornata in comunità. Ci sono quindi molte persone sia in comunità che fuori che hanno trattamenti a mantenimento molto lunghi, che prendono dei quantitativi di subutex molto elevati e che stanno portando dentro e fuori la comunità la mentalità che metadone e subutex non debbano più essere considerati strumenti di sostegno anche importante, ma sostanze vere e proprie. Il rischio è che davanti ai Ser.T. ci sia un grosso spaccio più di subutex e metadone che cocaina o altro. Questo è un aspetto molto serio che potrebbe compromettere i percorsi in comunità: lasciando le persone per molto tempo legate a questi trattamenti, c’è il rischio di uscire dalla dipendenza di eroina però col pensiero di essere ancora dipendente da una sostanza che è psicoattiva, un oppiaceo, un sostitutivo.

 

Che formazione hanno gli operatori che lavorano in comunità?

Andrea Branchini: È un discorso molto difficile. Da una parte la comunità, col fatto di aver puntato sull’accoglienza e la condivisione, apre la porta a tante persone, dall’altra non possiamo pensare che un intervento terapeutico così delicato lo si possa fare solo con la buona volontà, con la disponibilità. Credo che saremo sempre più chiamati ad essere preparati e formati oltre che professionali per il fatto che cambia l’utenza, le problematiche divengono più complesse. Oggi troviamo persone che non hanno solo problemi di sostanze, anzi molte volte l’uso di sostanze è una automedicazione, davanti a problemi molto complessi di carattere psicologico o psichiatrico. Per questo stanno nascendo queste forme di accoglienza per la cosiddetta doppia diagnosi, così come accoglienza a bassa soglia, cioè di persone che da anni stanno viaggiando tra una comunità e l’altra, tra strutture pubbliche e private, sovente con esperienze di lunga carcerazione e di reiterati reati, senza riuscire ad uscire dal consumo di sostanze e dalle problematiche conseguenti.

Tutte queste sono “strutture specialistiche”, cioè non più la classica comunità di accoglienza e condivisione e basta, e devono avvalersi di persone che abbiano, oltre una disponibilità, una generosità, anche esperienze professionali di questo genere. Certamente Betania sulla carta può offrire tanto e tante persone sono arrivate qui molti anni fa e terminato il percorso si sono formate e lavorano come operatori, però penso che oggi bisogna creare un filtro maggiore per fare accedere al nostro servizio persone titolate, preparate. Quindi bisogna avere alcune caratteristiche specifiche per poter svolgere un servizio nella nostra struttura.

 

Betania fa prevenzione nelle scuole?

Sandro Romani: Fin dall’inizio alcuni operatori di Betania fanno interventi nelle scuole, cosa che ritengo molto positiva, stimolante, importante per i ragazzi stessi che una volta sollecitati si aprono su una serie di problematiche che vivono e di cui con molta difficoltà forse riuscirebbero a parlare con gli insegnanti.

Andrea Branchini: Betania in 20 anni ha fatto molte cose per la prevenzione nelle scuole. Oggi, con grande disponibilità e gratuità da parte di alcuni operatori, facciamo degli incontri dalle scuole medie inferiori fino all’università. Nelle scuole medie inferiori, a meno che in modo specifico ci richiedano un intervento sul consumo di sostanze, più che andare a parlare di sostanze facciamo, all’interno di gruppi, che possono essere una classe, un gruppo di genitori o insegnanti, degli interventi per affinare le dinamiche di gruppo. Cioè non ci interessa tanto parlare di cos’è l’eroina e cosa provoca, quanto il poter fare in modo che i ragazzi si abituino ad avere delle relazioni sane, a fare dei lavori di gruppo nei quali si sentano coinvolti, a cercare di spostare gli interessi verso alcune tematiche legate alle persone, ai problemi, non solo ai consumi e alle abitudini dei giovani. E tutto questo ricorrendo spesso a dei giochi che li coinvolgano. In genere quando si attiva un intervento in una scuola si fa un primo incontro con gli insegnanti per fare il punto della situazione, poi gli incontri con le classi e si conclude con un confronto anche coi famigliari.

Con le scuole superiori, insegnanti e ragazzi, lavoriamo anche sui comportamenti a rischio, le sostanze, le modalità. E capita di confrontarsi con studenti che portano un’esperienza personale che mette in crisi questo discorso. Il rapporto tra gli operatori della comunità e gli studenti delle superiori, vicini alla maggiore età, è quasi alla pari. Anche qui si cerca prima un incontro con gli insegnanti. Nelle scuole medie inferiori si cerca di lavorare di più sugli adulti di riferimento, genitori, famigliari, insegnanti, nelle superiori lavoriamo più direttamente coi ragazzi e meno con gli insegnanti.

 

Qual è la vostra opinione sul disegno di legge Fini?

Sandro Romani: Penso che oggi la comunità non può e non deve essere l’unica risposta, e deve soprattutto essere un percorso diverso da quelli consolidati negli anni che per molte persone possono andare bene, ma meno forse per le nuove generazioni di consumatori, che non sono più in grado di accettare programmi di comunità o situazioni così strutturate. Occorrono programmi più elastici, valutati sulla persona, poiché è il contesto del territorio e il contesto culturale che è cambiato. Oggi l’uso della sostanza è legato spesso al fine settimana, al divertimento.

Andrea Branchini: Penso che la sostanziale differenza d’impostazione che il disegno di legge Fini vorrebbe introdurre riguardi soprattutto il cosa fare con chi non ce la fa, piuttosto che con chi ce la fa. Per chi ha gli strumenti per vivere in comunità e risolvere i propri problemi, probabilmente non fa grande differenza il tipo di impostazione legislativa. Sono persone che non hanno difficoltà a relazionarsi, che hanno possibilità di lavorare, hanno una famiglia. Ma il discorso si fa problematico quando si tratta di situazioni estremamente gravi, che oggi sono le più numerose. Il fatto che oggi la tossicodipendenza diventi un problema anche di psichiatria e che si stia tornando a rivolgersi principalmente al settore psichiatrico delle varie USL, come si faceva 20 anni fa, ci mette molto in crisi. Come il fatto che si sta tentando di imporre un modello di comunità terapeutica - che non è certamente quella che stiamo sperimentando noi - basata sull’aspetto repressivo, le cosiddette comunità galera: comunità molto strutturate al loro interno, con una chiara divisione, anche fisica, verso l’esterno, strutture dove le persone vengono rinchiuse e dove vengono assistite in modo autorevole, ma che non permettono una reale esperienza comunitaria con un ritorno alla propria vita. Anche da noi ci sono persone che hanno fatto molta fatica ad abbandonare la comunità perché qui hanno trovato il loro significato, persone senza famiglia, magari in età abbastanza avanzata, ma sono pochi casi.

Oggi invece con questa nuova legislazione mi pare si voglia proporre una struttura comunitaria che tenga queste persone per sempre fuori dai contesi sociali, delle case dove rinchiudiamo il problema. Per noi che contestiamo questa impostazione l’esempio classico è San Patrignano, che è diventato un po’ il simbolo ed il riferimento principale di questa nuova legislazione. Noi abbiamo espresso la nostra opinione spesso e nell’ultimo anno è stato creato un cartello voluto dalle comunità del CNCA, il coordinamento di cui facciamo parte, in cui abbiamo chiarito la nostra netta contrapposizione a questa legge, che poi precluderebbe molti percorsi o ci costringerebbe a cambiare radicalmente gli ideali su cui erano nate le nostre strutture.

 

Come è strutturata la comunità Betania?

Andrea Branchini: La nostra struttura è abbastanza complessa. Abbiamo le case di accoglienza: la principale è a Marore di Parma, altre due in località Fidenza, tutte e tre gestite da équipe di operatori. Abbiamo poi la casa per il reinserimento, vicino alla sede di Parma, la cooperativa che si occupa dell’intervento lavorativo all’interno del programma terapeutico, “Casa Francesco” struttura per malati di AIDS e sieropositivi e infine la sede di Priorato, dove facciamo l’accoglienza notturna e a bassa soglia. In totale abbiamo sette grossi centri, coordinati tra di loro. Il responsabile della comunità è don Luigi Valentini, che coordina l’équipe dei responsabili delle diverse sedi. Nelle riunioni di questa équipe vengono definite le linee guida di gestione di tutta la comunità, che poi vengono riportate nelle diverse unità che curano l’intervento. All’interno di questa équipe c’è poi un direttore con il compito di fare in modo che le linee guida vengano recepite e attuate nelle diverse sedi. Poi ci sono figure terapeutiche e che tagliano trasversalmente la comunità, come il medico, lo psicologo, e i ruoli amministrativi e di segreteria.

Il concetto di fondo è che Betania operi in più sedi sparse sul territorio, senza che diventino sedi autonome, anche se ciascuna ha la sua organizzazione indipendente e le sue peculiarità. Per lo stesso motivo – ed anche per garantire la copertura dei turni – gli operatori svolgono il servizio anche alternandosi nelle varie case, in modo da conoscere tutti gli ambienti, gli aspetti diversi. Oggi gli operatori sono 42, di cui 28 con regolare rapporto di assunzione e 14 volontari a tempo pieno o comunque con una presenza significativa nell’attività della comunità. Per lo più i volontari sono persone in pensione o comunque con molta disponibilità di tempo da condividere con i ragazzi.

Per gli operatori sono previsti momenti di formazione allargati a tutti ed altri ristretti ad alcuni gruppi: abbiamo l’assemblea del lunedì a cui partecipano anche tutti i ragazzi accolti, la riunione dell’équipe dei responsabili che traccia le linee guida; poi nell’ambito di ciascuna unità (case, laboratori, ecc.) gli operatori si ritrovano con cadenza settimanale per fare una verifica e programmare l’attività di quel settore.

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