Magistrati di Sorveglianza di Padova

 

I Magistrati di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin e Marcello Bortolato

È difficile trovare un giornalista che faccia

correttamente cronaca nell’ambito dell’esecuzione penale

Con i Magistrati di Sorveglianza di Padova abbiamo parlato di buona

e cattiva informazione sul carcere, sulle pene, sulle misure alternative

 

(Incontro avvenuto nel mese di novembre 2008)

 

a cura della Redazione

 

L’incontro in redazione con i Magistrati di Sorveglianza di Padova questa volta è stato in buona parte dedicato al tema dell’informazione. Perché è un tema cruciale oggi: infatti ogni notizia, data in maniera non corretta, sulle pene e sulle misure alternative, rischia di portare un altro mattone alla costruzione di leggi emergenziali, che poi si abbattono pesantemente sulla vita di chi sta in carcere, ma anche su quella dei cittadini liberi, perché un clima di sospetto, di intransigenza, di chiusura su ogni prospettiva di pene più umane alla lunga diventa pesante per tutti.

 

Ornella Favero: Noi riteniamo che ci sia una informazione così superficiale sull’esecuzione delle pene, che alcuni chiarimenti vorremmo darli ai nostri lettori proprio attraverso di voi, usando soprattutto la nostra News letter, che ha migliaia di utenti.

Una delle questioni fondamentali riguarda proprio i criteri con i quali i magistrati decidono se concedere o meno una misura alternativa al carcere. Basta pensare, ad esempio, alla vicenda di Pietro Maso, addirittura trasmissioni televisive facevano i calcoli del suo fine pena mettendo in conto anche i cinque anni della liberazione condizionale, come se fosse una cosa automatica ottenerla. Il dato è invece che la percentuale di concessioni della liberazione condizionale è bassissima, il 3 per cento.

 

Marino Occhipinti: Uno dei casi che ha fatto più scalpore è stato quello di Michelangelo D’Agostino, che durante una licenza a Pescara ha ucciso il direttore di uno stabilimento balneare. Questa persona era un pentito che aveva commesso 17 omicidi, ma che aveva già finito di scontare la sua pena, molto ridotta appunto in virtù della legge sui pentiti, e stava scontando una misura di sicurezza in una Casa di lavoro.

Noi abbiamo visto molte interviste del Magistrato di Sorveglianza di Modena che aveva dato la licenza al detenuto, e che si è assunto la responsabilità di dire: sì io mando diversa gente in permesso, e questa persona l’avevo valutata con la convinzione che avesse fatto un percorso di cambiamento, però mi assumo la responsabilità di aver fatto un errore. Quel Magistrato ha avuto la gentilezza di venire qui in redazione, e noi abbiamo discusso con lui di questa confusione fra la legge sui pentiti e la legge Gozzini, che è veramente deleteria, perché la gente sente dire “17 omicidi ed è già fuori” e pensa che questo non sia frutto della legge sui pentiti ma effetto della legge che permette le misure alternative, cioè appunto la Gozzini.

 

Giovanni Maria Pavarin: La legge sui pentiti, parliamo della legge del ‘91, riformata nel 2001, dice comunque che serve un ravvedimento prima di avere questi benefici, anche se è vero che si ampliano le maglie della carcerazione e si può dare i domiciliari pure a una persona condannata all’ergastolo.

Ma la cosa non è automatica, ed è rimessa sempre alla valutazione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza che concede questi benefici previsti, che anzi sono di meno del passato, perché nel passato si poteva dare un affidamento a vita anche a una persona che era condannata all’ergastolo, adesso si può dare solo una detenzione domiciliare e i permessi premio.

Anche lì serve una valutazione e il Tribunale è tenuto intanto a valorizzare quella che è la proposta o il parere della Procura Antimafia, e soprattutto è tenuto a verificare che ci sia un mutamento anche morale diciamo, all’interno della persona, quindi è finita l’epoca dello scambio utilitaristico: io ti dico quello che non sai, e tu mi dai quello che non mi merito.

Ecco non demonizzerei la legge sui pentiti perché, appunto, anche questa legge subordina i benefici a una valutazione discrezionale del tribunale.

 

Ornella Favero: Noi non siamo entrati nel merito della legge sui pentiti, abbiamo solo detto che è difficile ipotizzare che un detenuto con 17 omicidi abbia un’autostrada verso la libertà davanti, come l’ha avuta quella persona.

Giovanni Maria Pavarin: Certamente c’è un’autostrada spianata per chi ha manifestato un’opera di collaborazione con la giustizia, questa autostrada che alla fine credo appunto che sia utile e opportuna quando c’è l’emergenza, ma cessata l’emergenza io sarei dell’idea che queste maglie larghe dovrebbero essere chiuse.

Questo vale per il mafioso, per il camorrista, per l’esponente della ndrangheta, ma lo Stato ha deciso di mantenere in piedi questa norma, e non compete a me né modificarla né criticarla, avendo giurato fedeltà alle leggi, comprese quelle che non ci piacciono.

 

Ornella Favero: A noi più che altro interessa far capire fuori che le revoche dei benefici previsti per i detenuti comuni sono dello 0,45 per cento, lo 0,45 torna in carcere per la commissione di nuovi reati, mentre per i pentiti sono molti di più i casi di recidiva.

Ci piacerebbe comunque ribadire quali sono i criteri che voi usate per formare il vostro giudizio, vorremmo spiegare alla gente che non c’è nessun automatismo nella concessione delle misure alternative, ma una valutazione che tiene conto di moltissimi elementi.

 

Marcello Bortolato: Innanzitutto dico subito che ho accolto con molto piacere l’invito di quest’oggi, anche perché ho cominciato da poco a fare il Magistrato di Sorveglianza, e quindi ho cominciato da poco, purtroppo per me, a leggere questa rivista che avrei voluto veramente conoscere prima. E ho capito che il lavoro che state facendo è molto importante, è una rivista molto bella, e faccio i complimenti a tutti, credo dovrebbe essere diffusa alle scuole il più possibile, e anche tra di noi, nei nostri uffici giudiziari.

Detto questo, colgo lo spunto sul tema dell’informazione pubblica in questo Paese.

È evidente che il clima che stiamo vivendo adesso, dal punto di vista politico, è improntato ad una sostanziale disinformazione. È proprio di questi giorni una inchiesta sul senso di insicurezza, che viene trasmesso insistentemente dai mezzi di informazione ma che non corrisponde ad un aumento effettivo dei reati. Si è detto infatti che nel 2007 e nei primi mesi del 2008 si parlava sempre di più di insicurezza dei cittadini, di criminalità in aumento dopo l’indulto, e invece dal punto di vista statistico non si è avuto incremento dei fatti di reato, né si è tenuto conto della circostanza che in ogni caso nel medesimo periodo molti degli indultati sarebbero comunque usciti dal carcere.

Quindi è ovvio che la disinformazione è un aspetto contro cui noi Magistrati ben poco abbiamo da contrastare, se non altro per il fatto che raramente ci è data la possibilità di fornire dati reali, oltre al nostro punto di vista tecnico di cui ben pochi, mi sembra, tengano conto.

Per quanto riguarda la questione dell’errore umano, al quale mi sembra il collega di Modena si riferisse nella vicenda della concessione di quella licenza, è evidente che l’errore è una variabile di tutti gli uomini. Anche il Magistrato, che è un uomo come tutti gli altri, purtroppo può sbagliare e nel caso della Magistratura di Sorveglianza si tratta spesso di un errore di previsione. Del resto, la prognosi favorevole smentita dai fatti è un’evenienza possibile nel nostro lavoro ed anche ineliminabile se si vuole, perché è nella realtà delle cose: la vita ha tante sfaccettature ed il Giudice di Sorveglianza si occupa più del futuro che del passato.

Ciò accade anche in altri settori della giustizia: si pensi al Tribunale dei Minorenni dove ci si confronta quotidianamente con il futuro, la prognosi, la scommessa sul cammino di vita di un bambino da strappare ad una famiglia e da inserire in una nuova. Ma anche al Giudice della condanna, quando concede o nega la sospensione condizionale della pena. Può capitare che le valutazioni di un giudice poi si scontrino con i dati della realtà, i quali possono smentire un giudizio favorevole.

Per quanto riguarda il percorso attraverso il quale noi arriviamo ad una decisione sulla concessione dei benefici, si tratta forse dell’elemento più importante del nostro lavoro, perché noi decidiamo applicando delle leggi, alle quali abbiamo giurato fedeltà, e dobbiamo necessariamente applicarle. Poi c’è ovviamente uno spazio lasciato all’interpretazione, che è necessariamente variabile, e nel compiere la quale il Magistrato deve comunque seguire delle norme, ma in cui tuttavia ed inevitabilmente mette dentro anche quello che è lui personalmente, quindi la sua cultura, la sua cura nell’ascoltare, ed anche le sue convinzioni. Ovviamente noi come Magistrati di Sorveglianza ci basiamo prevalentemente su degli scritti, quindi su dati di fatto riportati, relazioni, elementi che desumiamo anche dalla sentenza, che è il nostro punto di partenza, nel bene e nel male. Partiamo dunque da lì, dopo di che ovviamente nel fascicolo leggiamo quello che scrivono i condannati, gli educatori e le forze dell’ordine, e poi ci mettiamo del nostro, attraverso il colloquio, che da quanto ho capito, perché è poco che sto facendo questo lavoro, è un elemento fondamentale per prendere qualunque decisione.

Il colloquio che si fa all’interno della Casa di reclusione direttamente fra Magistrato e detenuto, e poi anche in udienza, è un momento fondamentale. Quindi per la valutazione del caso è fondamentale come il detenuto viene al colloquio o in udienza, come si presenta, quello che dice, quello che sa dire su quello che ha commesso, perché ad esempio davanti al Tribunale ci sono quattro magistrati, che lo vedono magari per la prima volta, mentre il Magistrato di Sorveglianza generalmente l’ha già conosciuto, l’ha già visto, quantomeno ha già studiato il suo fascicolo, ma gli altri è la prima volta che vengono in contatto con lui.

Mi pare che questi siano gli elementi su cui si può fondare la decisione, che è comunque una decisione oggettiva, perché noi abbiamo fatto studi di diritto e dunque ci basiamo sull’applicazione delle norme. Però il Magistrato porta anche se stesso; qualsiasi uomo quando prende una decisione porta se stesso, e quindi necessariamente fa delle scelte anche in relazione alle sue opzioni ideali, prima fra tutte quella sul valore rieducativo della pena, a quanto creda o non creda in questa funzione. Noi siamo obbligati comunque a crederci, perché la Costituzione dice che la pena ha una funzione rieducativa.

Ovviamente più uno ha una sensibilità in questa direzione e più è portato a prendere delle decisioni in un certo senso, questo è un dato inevitabile, ripeto: il Magistrato è un uomo. Per fortuna il nostro sistema giudiziario è fatto in modo tale, che la decisione di un Magistrato non è poi quella definitiva ed è soggetta ad ulteriori controlli e rivalutazioni.

 

Elton Kalica: Il fatto che ci sia una valutazione individuale così complessa sul soggetto lo sappiamo noi, ma fuori non lo sanno, anzi sempre di più i giornalisti, sui canali televisivi, ma anche sulla carta stampata, fanno dei conti incredibili sull’esecuzione della pena, i più famosi sono i conti che ha fatto Travaglio dicendo che se uno uccide la moglie, fra la riduzione di pena di un terzo per il rito abbreviato, un terzo per l’incensuratezza, tre anni in meno per l’indulto, cinque anni di condizionale, tre anni di liberazione anticipata, dopo tre anni è fuori, quindi ha concluso che oggi in Italia conviene più uccidere la moglie che non divorziare, che ti costa di più.

 

Giovanni Maria Pavarin: Quello che stupisce e forse addolora, ma che soprattutto stupisce, è come anche le persone più acculturate hanno un atteggiamento un po’ cinico, con cui spesso si accostano a questi grandi temi, probabilmente non pensando che anche in carcere si vede la televisione e uno può sentirsi, non dico offeso, ma sconvolto dalle considerazioni che vengono fatte.

E non è la prima volta che dei giornalisti irridono il sistema della pena, quasi non considerando che ci sono delle persone che fanno 10 anni, 20 anni in carcere. Io conosco una persona che ha fatto 44 anni di carcere, quando sentivo questi discorsi mi veniva voglia di dire al giornalista: beh vieni qui che ti presento tizio che è stato 44 anni chiuso.

Queste persone credo che andrebbero invitate anche qui per provare a spiegare un po’ la cosa. E se devo giudicare te, Travaglio, con equilibrio, e se devo giudicare la tua serietà e la tua fondatezza, con l’equilibrio delle cose che dici, e da come parli di me, di quelli come me, della pena e dell’esecuzione penale, mi viene da dubitare che tante altre cose che tu dici siano fondate.

Quindi per misurarti io ti invito e ti spiego, e ti faccio vedere il carcere, che non è proprio come tu pensi, ammesso e non concesso che le cose che tu dici corrispondano a quelle che pensi.

Voi sapete meglio di me, perché ne avete un’esperienza diretta, che cos’è la pena, e cos’è l’esecuzione, e come tante cose che vengono dette non corrispondano al vero.

Esistono certo dei casi in cui veramente la società è sbigottita, perché è vero che ci sono delle applicazioni della legge sui pentiti che riconsegnano quasi subito alla società delle persone, che si sono macchiate di gravissimi delitti, solo per la logica dello scambio, ma ripeto la cosa avviene sempre di meno, perché sempre di più i tribunali valorizzano quella discrezionalità, che la legge affida a loro anche per concedere le misure ai pentiti.

Questa discrezionalità, di cui ha parlato il mio collega, non è un arbitrio, non è un fare quello che voglio a seconda che mi sia simpatico l’uno o l’altro, è una discrezionalità tecnica, che si basa sull’uso di certi parametri che sono logici, che sono giuridici, che sono di esperienza. Non è un arbitrio puro che non risponde a nessuna logica, è una discrezionalità che deve poggiare su degli strumenti di logica. Ma quali sono gli strumenti della logica che usiamo? Primo il buon senso, la considerazione delle cose che la legge non dice, ma che è giusto che il Magistrato valuti, ad esempio, lo diciamo sempre, la posizione delle vittime, esistono ancora, non esistono più, quante sono, qual è il tuo atteggiamento nei confronti delle vittime, questo è un fattore che ha un’importanza sempre maggiore, ma non è una importanza che diamo per ostacolare il cammino della riabilitazione. È un’importanza maggiore che diamo per rendere più credibile il discorso delle misure alternative, che si legittimano in tanto, in quanto facciamo in modo che la società le accetti sempre più, nella misura in cui, sulla bilancia, diamo un posto e un peso specifico anche ai danni che sono stati fatti.

Quindi l’uso della discrezionalità avviene tramite la motivazione del provvedimento che prendiamo, che è soggetto alla censura del giudice che controlla la nostra ipotesi, ed è la Corte di Cassazione. Se la motivazione non è coerente, sufficiente, logica, allora il provvedimento viene annullato.

 

Elton Kalica: Io vorrei cominciare a fare un ragionamento prendendo tutte queste misure una ad una, ad esempio la liberazione anticipata, che l’opinione pubblica e soprattutto i giornalisti pensano sia una cosa che viene data automaticamente. È vero che voi Magistrati di Sorveglianza la concedete a tutti, o no?

Marino Occhipinti: Noi abbiamo già proposto al direttore del Mattino di Padova e al Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto di organizzare un seminario di formazione con i giornalisti per ragionare su certe questioni, riguardanti le pene, che spesso sui mass media sono affrontate con superficialità, a volte anche con errori pesanti. Mi viene in mente un articolo su un quotidiano locale che parla dei due albanesi condannati per la rapina di Gorgo al Monticano, in cui hanno ucciso la coppia di custodi di una villa. La giornalista pone la domanda: “Fra nove anni, uno per altro lo ha già scontato, Naim Stafa, condannato all’ergastolo, potrà usufruire dei permessi?” E lei stessa risponde: “Certo, e la valutazione del giudice sarà in realtà solo una mera presa di conoscenza del fatto che si sia comportato bene, se lo avrà fatto i permessi non si potranno negare”.

Allora con queste affermazioni sì spaventano le persone, non è vero che fra 9 anni sarà “solo una mera presa di conoscenza” quella del giudice nel dire: se ti sei comportato bene, puoi uscire. La realtà è che quello dei termini temporali è il requisito minimo per accedere ai permessi, ma ne potremmo aggiungere un’altra decina. Insomma c’è gente che non arriva mai ad ottenere i permessi.

Quindi il seminario con i giornalisti lo vorremmo fare per spiegare meglio queste questioni proprio con le vostre parole, insomma utilizzando questo incontro, per spiegare che in fondo certe cose non le vogliamo dire noi perché ci fanno comodo, sono cose dette da magistrati ai quali devono credere.

 

Marcello Bortolato: È evidente che non c’è nulla di automatico, perché altrimenti a questo punto basterebbe un computer, o l’amministrazione stessa, è ovvio che se ci sono i magistrati c’è anche una decisione discrezionale.

Come giustamente diceva il mio collega, l’importante è che il Magistrato espliciti il percorso motivazionale, ed è giusto che dica perché ha negato un beneficio o perché lo ha concesso, sia in un caso come nell’altro; è un controllo che non solo deve fare la Corte di Cassazione, ma che devono fare i cittadini, la Giustizia viene amministrata nel nome del popolo, e quindi anche i cittadini devono poter controllare il perché un beneficio è stato negato o concesso, oltre ai diretti interessati.

Quella dell’informazione è una battaglia difficilissima, perché se noi dovessimo ogni volta ribadire che le cose non stanno come dicono i giornali o la televisione, impiegheremmo gran parte del nostro tempo ad indicare a molti giornalisti e commentatori le inesattezze, le superficialità, le approssimazioni in materia di giustizia.

Ecco, l’unica cosa che si può dire in questo caso è che la liberazione anticipata non è assolutamente automatica, certo è un beneficio che viene concesso sulla base di un comportamento buono in carcere, quindi se non ci sono rilievi disciplinari, se il comportamento del detenuto è conforme ad un’opera di risocializzazione, il beneficio è difficile negarlo. Però ciò non toglie che viene negato anche quando da un comportamento complessivo si possa desumere una totale chiusura rispetto all’opera di rieducazione. Forse allora i giornalisti dovrebbero seguire qualche lezione di diritto penitenziario quando si occupano di carcere.

Il discorso di Travaglio poi è grave, perché Travaglio è un giornalista molto intelligente, il suo forse è un paradosso, lo sa lui stesso che non è così, però talvolta prevale l’esigenza di andare incontro ad un certo uditorio, ma è ovvio, e lo ribadiamo noi tecnici del settore, che sono assurdi questi calcoli, che non esistono questi automatismi.

 

Elton Kalica: Per quello che ho visto anche il buon comportamento e la partecipazione alle attività rieducative non determinano sempre la concessione del beneficio.

A volte basta un semplice richiamo per infrazione al regolamento interno del carcere, o anche per aver otturato lo spioncino del bagno quando si va a fare i propri bisogni, e i 45 giorni si perdono. Anche perché dopo aver fatto 5, 10, 15 anni di carcere non è una cosa facile mantenere un comportamento lineare senza incappare mai neppure in un semplice richiamo.

Giovanni Maria Pavarin: Sulla liberazione anticipata dobbiamo ricordare quello che dice la legge, sono concessi 45 giorni per ogni semestre di pena espiata a chi abbia fatto due cose: punto primo, abbia tenuto regolare condotta, punto secondo, abbia dato prova di aver partecipato all’opera di rieducazione, questi sono due pilastri logici sui quali il Magistrato ha l’obbligo di fondare le sue motivazioni di decisione, punto.

Poi c’è una norma che spiega che cosa significa partecipare all’opera di rieducazione e cosa significa regolarità nel comportamento, anche qui c’è la discrezionalità del Magistrato, che deve spiegare il perché la dà o il perché la nega.

Regolare condotta significa non essere incappati in sanzioni disciplinari, o meglio in rapporti, un rapporto può sfociare in una applicazione di una sanzione oppure no, si legge spesso di sanzioni che sembrano eccessive rispetto al fatto addebitato, come per converso si incontrano casi in cui sembra applicata una sanzione minore rispetto al disvalore e alla gravità dell’illecito raccontato nel rapporto disciplinare.

Aderire all’opera di rieducazione significa non solo avere partecipato alle attività che il carcere organizza, quando le organizza, ma avere fatto sì che chi ti incontra possa desumere che tu un po’ alla volta ti sei allontanato dal male che hai fatto e hai intrapreso un cammino verso un momento della tua vita, in cui tu decidi di rompere definitivamente con quello che hai fatto, insomma è la trasformazione della persona che si allinea alla condotta di quelli che non delinquono.

Che cosa è però successo, e qui dobbiamo dare ragione, se pure in parte, ai mezzi di informazione? È vero che noi in genere concediamo la liberazione anticipata basandoci di più sul primo pilastro, che non sul secondo, guardiamo di più la condotta regolare, che non l’adesione all’opera di rieducazione, ma perché capita questo? Perché nella stragrande maggioranza degli istituti si fa poca rieducazione, e non posso negare la liberazione anticipata se uno non ha lavorato, se è il carcere che non gli dà lavoro.

Capita poi che, se andiamo a leggere la storia delle detenzioni, abbiamo dato tre mesi all’anno di sconto di pena a quelle stesse persone che dopo, uscite dal carcere, sono tornate a delinquere, e manco è prevista la revoca della liberazione anticipata che ti ho concesso nella vecchia carcerazione su di un titolo espiato. Quindi io darei ragione in parte alla stampa, anche se il fenomeno va spiegato come vi ho detto, andando a leggere quello che hanno scritto i parlamentari quando hanno approvato questo articolo 54. Sostanzialmente cioè hanno detto che la liberazione anticipata è uno strumento di governo del carcere, purtroppo è così, se tutti i detenuti sanno che non hanno nulla da perdere, il carcere diventa ingestibile, di conseguenza c’è un riconoscimento della funzione sostanziale di questa norma, che è quella di rendere governabile sotto il profilo dell’ordine interno il carcere.

 

Ornella Favero: Sul fatto della liberazione anticipata, forse bisognerebbe spiegare che comunque in tutti i Paesi ci sono dei sistemi analoghi. Rispetto alle persone incensurate, per esempio, ci sono paesi come la Germania, in cui se hai un comportamento corretto in carcere devi scontare solo metà della pena.

Ma voi non provate mai il desiderio di informare di più, vedendo che il vostro ruolo è completamente stravolto sui giornali e in certe trasmissioni televisive?

 

Marcello Bortolato: Il Magistrato dovrebbe parlare solo con i provvedimenti, ogni volta che qualcuno ha cercato di andare un po’ al di là, è stato accusato di uscire dai suoi ambiti, insomma il nostro mestiere è delicato, noi non possiamo sempre cercare di spiegare perché abbiamo preso una tal decisione né possiamo sempre correggere un’informazione sbagliata o tendenziosa, informare sulle nostre decisioni spetta ad altri. Dobbiamo infine coniugare il nostro diritto ad esprimerci liberamente – come qualunque cittadino – al dovere di imparzialità che ci impone la legge.

 

Ornella Favero: Per capire quanto pesa l’informazione basta vedere un “esperimento” che abbiamo fatto con i ragazzi di una scuola, che sul caso di Pietro Maso hanno letto alcuni articoli dei grandi quotidiani, e poi alcuni articoli che hanno scritto i detenuti della nostra redazione per il Mattino di Padova.

Allora una di questi ragazzi, che ha tredici anni, scrive in un suo testo di commento a questa notizia: “Ma poi questa semilibertà, si può definire una vera libertà? secondo me no, secondo me vuol dire solo allargare i confini del carcere, perché uno non è poi così libero se deve stare attento a qualsiasi cosa faccia e in qualunque posto vada”. Quindi questa ragazzina ha capito, leggendo degli articoli con punti di vista diversi, che la questione è più complessa di come la fanno tanti giornali.

 

Marcello Bortolato: Ma i ragazzi sono molto più attenti e più intelligenti, di quanto a volte li si voglia dipingere e sicuramente hanno degli insegnanti altrettanto intelligenti che li possono guidare ad allargare le loro conoscenze.

 

Silvia Giralucci (giornalista, volontaria in redazione): Nelle critiche che vengono spesso rivolte alla stampa, è insita l’idea che i giornali debbano educare. A mio avviso i giornali sono lo specchio, non il lume della società. Hanno il dovere di informare correttamente, ma anche di interessare i loro lettori. Quando lavoravo in un quotidiano mi sono spesso trovata in difficoltà perchè l’esiguità dello spazio a disposizione rendeva impossibile dare conto dei diversi punti di vista, dei grigi, e in questi casi nel fare delle scelte si tende a privilegiare la storia che “fa notizia”, quella che si ritiene piacerà al lettore e farà vendere il giornale. Sulla questione dei permessi premio dei detenuti, quando anche un giornalista si renda conto di questa complessità, può, per esempio farci una scheda, se lavora in un giornale dove questo tema è sentito, ma un quotidiano non riesce assolutamente a entrare nel merito. Non c’è il tempo, non c’è lo spazio, perché si parte dal presupposto che probabilmente i lettori non sarebbero interessati.

Travaglio con quella uscita ha centrato un problema, era sicuramente un paradosso e ha fatto notizia, ha dimostrato di essere un bravo giornalista perché è riuscito a catturare l’attenzione. Certo, da una parte c’è un po’ di malafede, e dall’altra c’è la necessita di costruire una notizia.

Il problema della rappresentazione infedele della realtà non riguarda solo la realtà carceraria. Voglio dire, se guardiamo la sanità, anche i medici hanno la stessa difficoltà: basta un paziente che si lamenti, e la notizia è che in quell’ospedale si muore e la sanità fa schifo.

Quello che mi veniva in mente per cercare di far si che almeno i giornalisti abbiano coscienza di quello che scrivono, è cercare di avere un rapporto con l’Ordine nazionale dei giornalisti, per inserire questi tipi di studi nel programma per l’esame di stato di giornalista professionista. O di organizzare dei piccoli corsi di aggiornamento con gli Ordini regionali, da proporre ai giornalisti che fanno cronaca nera e giudiziaria.

 

Ornella Favero: Sì è quello che vorremmo proporre, un seminario qui dentro sui temi della giustizia, per i giornalisti di giudiziaria e di cronaca nera.

Anch’io non credo che i giornali debbano educare, però informare, e non disinformare, questo sì. Perché poi secondo me la disinformazione passa non tanto sulla notizia falsa, quanto sulla mezza notizia, che diventa di fatto peggio della notizia falsa, nel senso che non è smentibile immediatamente.

Il discorso di Travaglio, io lo trovo discutibile, perché ha fatto una ricostruzione del sistema giocata proprio sulle mezze verità, sul paradosso del caso limite che non è mai successo e che mai succederà. Del resto, qualsiasi telefilm americano sulla giustizia spiega il loro sistema senza scandali meglio di quello che fanno tanti nostri giornalisti: lì c’è la persona che esce su cauzione, qui direbbero “è già libero”. Senza spiegare che se quello però verrà condannato, poi entrerà in carcere.

Silvia Giralucci: Questo dipende anche dalla preparazione e dalle fonti del giornalista. In casi come quelli della scarcerazione di pluriomicidi magari il cronista interpella l’avvocato delle parti civili, che gli mette una pulce nell’orecchio, e il giornalista che non ha né il tempo né gli strumenti per valutare la riporta, senza – e questo sì colpevolmente – citare la fonte.

 

Marcello Bortolato: Oppure cita solo le fonti di polizia, perché spesso invece di chiedere al giudice o all’ufficio giudiziario, chiedono alla questura, o ai carabinieri.

Però, secondo me, il dato della preparazione professionale di un certo giornalismo che si occupa di giudiziaria è un dato oggettivo, purtroppo anche noi leggiamo delle notizie, che spesso sono delle mistificazioni, ecco è vero che il giornalista fa il suo lavoro, vende un prodotto, il prodotto va, ma se non rende un servizio buono per i cittadini, allora quello è un cattivo giornalista.

Silvia Giralucci: Il giornalista parla con la polizia probabilmente perché è un interlocutore abbastanza informato e soprattutto disponibile. Il pezzo va scritto in giornata, contattare un magistrato con questi tempi potrebbe essere così difficile che il cronista preferisce scegliere una strada dove è più probabile trovare le informazioni che cerca.

 

Marcello Bortolato: Sì, ma si può contattare il Magistrato non sul caso specifico, è ovvio che il Magistrato del caso Maso non dirà mai con che motivazioni gli ha dato la semilibertà, perché c’è il provvedimento che parla per lui. Però quanto meno un Magistrato può spiegare che cos’è la semilibertà, che cos’è la liberazione condizionale, può dire come stanno le cose oggettivamente.

Per esempio di recente il dottor Tamburino, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ma anche responsabile del Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza, è stato intervistato quando si parlava del braccialetto elettronico, e anche lì si andavano dicendo le cose più impensabili, per fortuna che lui ha potuto dire alcune cose oggettive. Secondo me, così si rende un servizio al lettore, che è messo in grado di capire di più.

 

Giovanni Maria Pavarin: Prima Occhipinti ha parlato dell’articolo di una giornalista, che è considerata esperta di cronaca giudiziaria, ma un conto è fare cronaca giudiziaria, e un conto è essere a conoscenza dei temi dell’esecuzione penale. Sono due mondi non dico contrapposti, ma molto distanti, quindi è difficile trovare un giornalista che faccia correttamente cronaca di esecuzione penale, non ne ho ancora conosciuto uno.

 

Daniele Barosco: Io vorrei porre un’altra domanda. Prima dell’indulto in questo carcere c’erano più o meno 700 persone, come ce ne sono adesso, allora è possibile sapere il motivo per cui le persone che andavano in permesso prima dell’indulto erano moltissime, e adesso sono una sessantina, e le persone ammesse alle misure sono molte di meno rispetto a prima? Cioè c’è un motivo particolare, c’è stato, come nel crac delle borse, anche il crac dell’indulto che ha prodotto questo effetto secondario, oppure sono cambiati i criteri di valutazione? Lo chiedo perché si vive meglio nelle sezioni quando si vede che le persone che hanno pene brevi, con delle situazioni famigliari solide, con una offerta di lavoro, trovano la loro possibile collocazione fuori dal carcere, e vengono ammesse ai benefici.

 

Giovanni Maria Pavarin: Personalmente non mi pare di aver cambiato il metro di giudizio, ma forse è aumentata l’esperienza, forse sono aumentate le delusioni, non escludo che di benefici, invece di darne 10, oggi ne do 9, non lo escludo.

Però mi sembra più o meno di ragionare allo stesso modo, ho detto di no, per esempio, a tre persone che conosco da tantissimi anni, che hanno avuto due carcerazioni con me, che hanno avuto permessi con me, e alla fine gli ho risposto: guarda, è vero che tu finisci la pena fra poco, ma con me hai chiuso, mi hai pugnalato due volte, e con me hai chiuso. Spero che ti arrivi un altro Magistrato che non ti conosce, però io ti ho dato fiducia due volte e l’hai tradita tutte e due le volte, allora ti finisci la tua pena e siamo a posto così, chiunque di voi credo e spero ragionerebbe come me al mio posto.

 

Marcello Bortolato: Se posso aggiungere qualcosa per quanto mi riguarda, la valutazione è sempre esclusivamente personale e individuale, voglio dire che noi non facciamo politica criminale, cioè non diciamo che d’ora in poi saremo più severi o d’ora in poi più buoni, ogni volta un fascicolo è una storia a sé, un fascicolo è una persona, è un caso a sé.

Quindi per quanto mi riguarda io continuerò a valutare i casi uno per uno indipendentemente dagli altri, perché se uno mi ha deluso, la delusione evidentemente deve ripercuotersi solo su di lui.

 

Braccialetti inutilizzati? Forse inutili e troppo costosi

Il braccialetto elettronico fu introdotto nel 2000 in via sperimentale nelle città di Milano, Roma, Napoli, Catania e Torino allo scopo di aumentare il controllo delle persone sottoposte agli arresti domiciliari. Il 6 novembre 2003, ad esperimento concluso, il Ministero degli Interni siglò un accordo con Telecom Italia che avrebbe dovuto fornire e installare le apparecchiature per un costo, pari a circa 10,3 milioni di euro per il 2003 e un canone annuo di 10 milioni e 899 mila euro dal 2004 al 2011. Quasi undici milioni di euro all’anno per un servizio che è rimasto finora pressoché inutilizzato.

Se si ipotizza di utilizzare i braccialetti elettronici per le persone già condannate in via definitiva che siano in detenzione domiciliare, è il caso di riflettere sul fatto che forse non ha senso spendere tanti soldi per questi braccialetti, visto che il rischio che le persone, che scontano una parte della pena all’esterno in misura alternativa, tornino a commettere reati è bassissimo (0,45 per cento).

 

 

Precedente Home Su Successiva