Interviste di "Ristretti"

 

Un teatro che migliora la capacità di comprensione e relazione

L’esperienza del Teatro dell’Oppresso di Parigi in un carcere minorile del Marocco

 

(Realizzata nel mese di febbraio 2004)

 

A cura di Francesco Morelli

 

Rui Frati, brasiliano di origini italiane, è il direttore del "Teatro dell’Oppresso" di Parigi. L’ho incontrato ad un Master di relazioni interculturali, organizzato dalla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, dove lui era chiamato a raccontare la sua esperienza artistica e sociale. Dopo cinque minuti di chiacchiere ci parlavamo come fossimo vecchissimi amici.

 

Che cos’è il "Teatro dell’Oppresso"?

È un progetto di lavoro che, nel corso degli anni, si è ingrandito e diversificato. Oggi non abbiamo più l’idea che il teatro può cambiare il mondo, piuttosto crediamo che possa servire, inserito in un contesto di interventi tra loro complementari, a migliorare la capacità di comprensione e relazione, quindi a favorire il superamento dei problemi che nascono quando persone di diversa cultura e condizione sociale devono vivere assieme.

 

Il vostro nome fa pensare a Bertold Brecht, ad un teatro che dà voce ai poveri e agli emarginati.

Inizialmente lo spirito del progetto era un poco questo. Io non sono stato tra i fondatori, arrivai quando il Teatro dell’Oppresso esisteva già da 10 anni ed era riconosciuto anche dal mondo politico, come esempio di impegno a favore dei cittadini più deboli. Però mi sono accorto subito che qualcosa non funzionava: il Comune di Parigi ci pagava perché andassimo nei quartieri più degradati e coinvolgessimo la gente in spettacoli–verità, dove poteva esprimere il proprio malcontento e chiedere ai governanti di fare leggi migliori. A questi spettacoli arrivavano sindaci, assessori, ministri, che applaudivano e facevano tanti complimenti, ma poi non facevano niente per venire incontro alle richieste della gente. Dopo qualche mese se andavi a cercarli, ti dicevano: "Avete fatto un bel lavoro, l’anno prossimo ve lo rifinanziamo senz’altro…", però non parlavano dei problemi sociali visti attraverso lo spettacolo.

 

Come coinvolgete la gente comune nei vostri spettacoli? Fate dei provini, come alle trasmissioni televisive?

No, assolutamente. Noi andiamo in una piazza, ci mescoliamo alla gente, senza fare capire che siamo attori, e poi due di noi cominciano a discutere ad alta voce di qualche tema "scottante", ad esempio sulla presenza degli immigrati. Altri due iniziano a loro volta a discutere, prendendo spunto dai primi, e così via, finché tutto il gruppo di 12 – 15 persone è impegnato a dibattere e la piazza si riempie di gente incuriosita, che naturalmente si coinvolge e partecipa, a volte anche in maniera troppo accesa, alla discussione collettiva. A questo punto arrivano due videooperatori, che riprendono delle scene. Non facciamo delle scene di nascosto, quindi chi vuole può non essere ripreso. Ma devo affermare che di solito, davanti alla telecamera, chi stava protestando rincara anche la dose.

 

Prima hai detto che questo sistema non funzionava… cosa è cambiato dopo il tuo arrivo al Teatro dell’Oppresso?

Constatato che di rivoluzioni con il Teatro non se ne può fare (e, comunque, che neanche le rivoluzioni riescono a cambiare il mondo… ma questo è un altro discorso!), ci siamo convinti della necessità di lavorare all’interno di progetti più ampi, che intervengono nel campo sociale sui vari fronti e con vari strumenti, uno dei quali può essere, appunto, il Teatro.

 

Ci puoi fare degli esempi di "progetti ampi" ai quali partecipate?

Attualmente stiamo collaborando con una ONG inglese, la Penalty Reform International, che si prefigge di migliorare le condizioni di detenzione in molti paesi, soprattutto in Africa, ma anche in Asia e nell’Europa dell’Est, in Sud America. Abbiamo lavorato anche nel Burundi, per aiutare i sopravvissuti al genocidio degli anni ‘90; nel Nepal, con un programma in difesa dell’identità culturale delle minoranze etniche Hindi, e in Brasile, con i ragazzi di strada di San Paolo.

 

Che cosa fa esattamente la ONG "Penaly Reform International" e quale è il vostro ruolo all’interno delle attività dell’associazione?

Questa organizzazione cerca di rendere le carceri dei luoghi più umani, partendo dalla formazione del personale che ci lavora: medici, infermieri e, naturalmente, sorveglianti. Inoltre collabora con i vari governi per la costruzione di nuovi penitenziari secondo criteri di vivibilità e non è facile convincere questi paesi a spendere i soldi per fare "stare meglio" i propri detenuti, quando anche i propri cittadini liberi hanno grossi problemi di sopravvivenza.

Il nostro compito è quello di formazione dei sorveglianti a modalità di relazione, anche non verbale, che possono prevenire l’insorgenza di conflitti con i detenuti. In altre parole, a saper "leggere" comportamenti e atteggiamenti prima che questi degenerino e ad agire nella maniera più adeguata perché la tensione non sfoci nella violenza.

 

Quindi siete entrati in carcere?

Per il momento abbiamo fatto un solo intervento dentro il carcere ed è stato in Marocco, nel penitenziario minorile di Casablanca. Ma ci sono altri progetti simili in preparazione.

 

Che situazione avete trovato, in questo carcere minorile?

La direttrice è una persona straordinaria e questo istituto è il migliore, come condizioni di vita, tra tutte le carceri del Marocco. Lei, in ogni modo, ci ha detto più volte che ciò che stavamo facendo nel suo carcere sarebbe stato impensabile in qualsiasi altro penitenziario. Noi siamo entrati in 10 e avremmo dovuto tenere dei laboratori con i circa 200 guardiani, che là si chiamano "sorveglianti educatori", ma che poi di "educatori" hanno ben poco… perché in genere hanno un bassissimo livello culturale. Però, subito, abbiamo visto e capito che bisognava fare qualcosa anche per i ragazzi detenuti e, quindi, abbiamo contrattato con la direttrice di fare alcuni laboratori anche con loro. Il problema è che c’erano 900 ragazzi, divisi in stanzoni di 50 – 60, e mancavano gli spazi per fare i laboratori teatrali. Alla fine l’unica soluzione trovata è stata di entrare nelle celle e lavorare lì. Tre ore al mattino e tre nel pomeriggio. I ragazzi più giovani, avevano 13 anni, i più grandi 20 – 21, poiché la direttrice cercava di non fare passare i ragazzi maggiorenni nel carcere degli adulti, dove sarebbero stati peggio. Ma quello che ci ha meravigliato è che erano tutti maschi: in quel minorile non c’era un reparto per le donne.

La direttrice ci ha spiegato che le ragazze detenute erano assieme alle donne adulte in un carcere separato, che si trova poco distante da quello maschile. A quel punto volevamo incontrare anche le ragazze, però non c’era il permesso di entrare nel carcere femminile. Abbiamo chiesto alla direttrice se era possibile fare portare un gruppo di ragazze nel maschile. Prima ci ha risposto che eravamo pazzi; poi ci abbiamo ragionato un po’, e alla fine ha concesso il permesso di fare venire 30 ragazze, con un pullman, e di tenerle con noi per due ore ogni pomeriggio, nel cortile. Quando sono arrivate queste ragazze, che avevano dai 13 ai 18 anni, erano molto impaurite, perché non capivano bene il motivo per cui le portavano nel carcere maschile: temevano che le violentassero, qualcuna teneva il volto coperto con il velo. Ci sono voluti alcuni giorni per convincere loro che non volevamo fargli del male. Molte parlavano solo arabo, quindi era necessario il continuo intervento dei sorveglianti, per tradurre in francese ciò che dicevano e in arabo ciò che dicevamo noi.

 

Quanto è durato il vostro intervento nel carcere minorile di Casablanca?

Noi siamo entrati per un mese intero, invece altri operatori della ONG hanno programmi di collaborazione pluriennali, anche se più diluiti nel tempo.

 

Al termine dei vostri laboratori avete potuto trarre il bilancio dei risultati raggiunti? Che riscontri avete avuto?

L’ultimo giorno abbiamo organizzato una rappresentazione collettiva, nel cortile del carcere, alla quale hanno partecipato un gruppo di sorveglianti, uno di ragazzi e uno di ragazze. Gli accordi erano che i ragazzi e le ragazze non dovevano venire a contatto, ma ad un certo punto abbiamo visto che, da una parte e dall’altra, cominciavano a farsi dei piccoli segni con le mani, perché molti si conoscevano, erano fratelli, o anche fidanzati, e magari non si vedevano da qualche anno. Poi è successo un cataclisma, i due gruppi si sono mescolati, tra abbracci e baci e pianti, i sorveglianti non sapevano più che fare e guardavano noi, ma pure noi eravamo impotenti. Per riportare la calma ci abbiamo messo mezz’ora e poi nessuno aveva più voglia di fare teatro, ma quello che era appena successo per noi era il risultato migliore.

 

Quindi la tua prima esperienza di teatro-carcere è stata positiva: la vorresti ripetere, uguale, o cambiando qualcosa nel metodo di lavoro?

La ripeterei, però con metodi diversi. In carcere non puoi dare voce ai problemi dei detenuti e poi uscire e andartene tranquillo a dormire in albergo. A Casablanca è successo che una ragazza si è lamentata dei maltrattamenti che subiva nel carcere femminile e il giorno dopo non è tornata alle due ore d’incontro. Abbiamo saputo che l’avevano pestata a sangue per quello che aveva detto. Dopo quest’esperienza preferirei fare lavorare i detenuti su un testo, un copione "neutro", perché il rischio è che noi raccogliamo le loro denunce e ci sentiamo investiti di una grande responsabilità, ma loro pagano di persona la nostra mancanza di prudenza.

Penaly Reform International: www.penalreform.org

 

 

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