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Intervista
a Duccio Demetrio, docente di pedagogia generale ed educazione degli adulti
all’Università degli Studi di Milano ed esperto di scritture autobiografiche
(Realizzata nel mese di luglio 2001)
A
cura di Ornella Favero e Omar Ben Ali
Alla scoperta della lettura e della scrittura in età adulta, nelle condizioni drammatiche dei luoghi di detenzione Duccio Demetrio
si occupa “da sempre” di scrittura autobiografica, e lo fa in particolare
nelle realtà dell’emarginazione, che sono, dice lui, “sempre più, e per
fortuna, attraversate oggi da esperienze e da proposte di natura educativa, di
natura formativa”. Di queste esperienze ci ha parlato in questa
intervista, con la passione, l’originalità, la ricchezza comunicativa che
contraddistinguono tutto il suo lavoro. Ci può parlare
di cosa vuol dire avvicinarsi alla lettura e alla scrittura in età adulta, in
carcere? C’è una frase famosa che introduce un piccolo
testo, non a tutti noto, di Marcel Proust, “Sur
la lecture”: “Non ci sono giorni
in fondo così importanti nella nostra infanzia, così pieni, paragonabili a
quelli che abbiamo passato con un libro”. Perché evoco questo passaggio,
così importante e poetico, di Proust? Perché questo piacere, questa intimità,
questa riservatezza, questa scoperta della propria unicità, non sono concessi a
coloro che si trovano nelle carceri. Chi vive nelle carceri non viene da questi
mondi, da queste culture private, viene da mondi promiscui, da mondi dove non
solo non è mai entrato un libro, ma, soprattutto, dove la sua identità
individuale non si è potuta costruire, separandosi anche e necessariamente
dagli altri. Chi vive nelle carceri non conosce l’esperienza
della solitudine buona, il “piacere
della solitudine buona”. Si trova, quindi, precipitato nelle carceri,
dinanzi alla inevitabilità della solitudine, della tortura della solitudine,
ancora una volta nella promiscuità, senza possibilità di emancipazione, di
incontro con quel mondo privato che caratterizza la vita segreta di tutti noi,
la vita dei grandi o dei piccoli spontanei narratori, che hanno avuto la fortuna
di crescere, di svilupparsi nella cultura scritta. Nelle carceri questo mondo non c’è. E quindi
l’incontro con il libro, e con le grandi potenzialità dell’avvicinarsi (o
dell’imparare a farlo, per la prima volta) al leggere e allo scrivere
dischiude non soltanto l’esperienza dell’individuo alla cultura, ai primi
approcci con il sapere, ma lo dischiude dal punto di vista esistenziale. Questo mi sembra interessante, come studioso di età
adulta, perché non è vero che noi nasciamo una sola volta, noi nasciamo tutte
le volte che, come diceva Marguerite Yourcenar, noi gettiamo uno sguardo più
consapevole nei confronti del mondo, nei confronti della realtà. Noi nasciamo e rinasciamo e, quindi, l’incontro con la lettura e la scrittura costituisce un’esperienza che talvolta sottovalutiamo, che talvolta sottovalutano anche gli educatori che organizzano nelle carceri laboratori e momenti di emancipazione attraverso la lettura e la scrittura. Questi momenti di scoperta di sé rappresentano proprio l’aspetto più cruciale di questa rinascita psicologica al mondo. Può
raccontarci qualche esperienza di scrittura autobiografica in carcere? Alla mia attenzione, nella mia Università e
soprattutto presso l’Università che ho inventato, con un grande giornalista
italiano, Saverio Tutino, tre anni fa (mi riferisco alla Libera Università
dell’Autobiografia di Anghiari, che organizza corsi e seminari per diventare
specialisti in autobiografia, per diventare anche operatori specialisti nella
ricerca autobiografica), giungono ormai sempre più scritture che nascono nelle
carceri. C’è poi un testo di grandissima significatività
che si intitola: “Lettere dal carcere”.
E’ la storia di una volontaria nelle carceri, famosa, prestigiosa, si chiama
Athe Gracci e lavora nel carcere di Pisa. È una donna di ottant’anni, che da
decine di anni conversa con i reclusi, raccoglie le loro storie e le
riorganizza. Dobbiamo a lei questo bellissimo testo, che ci dice quanto segue:
“Quando mi capita di aprire per la prima
volta un libro, subito immagino la ricchezza di ciò che andrò a leggere. Leggere
è come un istante di libertà, che implica interesse per l’anima dell’uomo”.
E’ sulla base di queste convinzioni così profonde
che inizia e si svolge il suo percorso di avvicinamento a storie di detenuti che
“vengono scritte come sgravandosi di un
peso, dopo colloqui di profonde riflessioni e malinconie, di sguardi intensi,
spesso bruscamente interrotti per mancanza di tempo. Ed io cerco di convincerli
che ogni essere è importante, è indispensabile all’universo. È necessario
cercare e frugare nei più intimi segreti del loro cuore. Ho così parlato, nel
corso di questi anni, con molte persone chiuse dentro le mura di un carcere”. Ma ci sono anche molte altre esperienze, nel carcere di Opera, a San Vittore e anche nel carcere di Secondigliano, a Napoli. Ma che senso ha
la scrittura in carcere? Perché la scrittura carceraria? Perché nasce questo
bisogno di occuparsi dello scrivere di sé? Non solo perché, nel momento in
cui, con la detenzione, l’esperienza della naturalità, della socialità del
vivere viene meno, l’individuo inevitabilmente si avvicina a se stesso, ma
soprattutto perché, nell’incontro con la scrittura di sé, noi troviamo ciò
che costituisce una nostra tecnologia personale di ricostruzione del nostro
mondo interiore, di ricostruzione di un tessuto psicologico profondo. Non c’è altra modalità, credo, per dare alla
crescita personale uno sbocco interessante e positivo. Chi scrive di sé, chi
scrive diari, chi scrive epistolari con le tecniche più tradizionali, più
antiche, più note, si accorge che mette in ordine i propri ricordi, le proprie
immagini, le proprie rappresentazioni, i propri passaggi esistenziali. Secondo lei,
perché in carcere è così diffusa e amata la scrittura poetica? Nella tecnica della scrittura noi ci imbattiamo
sempre in due possibilità: da un lato una tecnologia narrativa di sé, della
propria storia, dei propri passaggi esistenziali, dei propri momenti cruciali,
dei propri errori, delle possibilità che erano state date e non sono state
colte per emanciparsi e, dall’altro, troviamo un altro tipo di scrittura, che
si sta diffondendo sempre di più nelle carceri e in questi laboratori, che è
la scrittura trasfigurante propria
della poesia. Io talvolta mi interrogo sul motivo per cui nelle
carceri si tengono più laboratori di scrittura poetica che laboratori
autobiografici. La risposta a questo interrogativo non è poi così difficile,
perché la scrittura poetica ci evita ed evita anche ai detenuti di interrogarsi
sui propri errori, sulle proprie recidività, sulle proprie menzogne. La scrittura poetica talvolta è una forma importante di evasione, di creazione d’allucinazioni, è una scrittura che crea forme di giusta, inevitabile, importante evasione da sé. La scrittura autobiografica è tutt’altro, perché la scrittura autobiografica ci chiede e chiede non solo ai detenuti, ma a ciascuno di noi, il coraggio di avvicinarci alla verità (anche se poi la verità non viene scritta, per timore, per cautela, per preoccupazione), ed è una scrittura che genera processi mentali e conoscitivi che producono quella interiorizzazione e autoriflessione unica, che altrimenti non si genera e produce. Quale
differenza ha notato tra le biografie scritte dalle persone detenute e quelle
scritte dalle persone libere? Ci sono degli elementi particolarmente curiosi e
interessanti, da questo punto di vista? Sì, proprio perché, secondo me, il detenuto
preferisce scrivere in modo più libero e poetico, preferisce rimuovere e
dimenticare certi eventi drammatici della sua vita precedente e dedicarsi di più
a una scrittura che gli allevi questi dolori. È difficile che questo accada
nelle autobiografie scritte in libertà, dove, invece, le persone vanno proprio
a cercare i momenti drammatici della loro esistenza. Li affrontano con maggiore serenità anche perché se lo possono permettere: la loro storia non è segnata, come quella di un detenuto, da momenti drammatici che uno preferirebbe dimenticare. Per quanto
riguarda i ragazzi stranieri che sono in carcere, come si può lavorare con loro
nella scrittura autobiografica? Bisogna forse tener conto che, molto spesso, si
portano dietro l’angoscia di un fallimento, quindi fargli raccontare le loro
storie scatena anche questo dolore, queste ansie… Io ho visto che, anche in questo caso, ha funzionato
molto bene una specie di gioco dell’oca dei ricordi, che si può trovare
spiegato nel mio libro “Il gioco della
vita”, che contiene, tra l’altro, dei giochi autobiografici. Si tratta
in realtà di un vero e proprio gioco dell’oca: i partecipanti tirano i dadi
e, a seconda del numero estratto, finiscono in una casella e sono obbligati a
raccontare un loro ricordo. Oltre a questa, il libro presenta trenta proposte di
scrittura autobiografica e quindi il formatore può trovare quelle che più gli
possono essere utili, del tipo: “Immagina
di scrivere le cose più importanti della tua vita in un messaggio, che metti in
una bottiglia immaginaria da gettare in mare. Vorresti che la bottiglia finisca
nelle mani di chi?” Sono giochi di evocazione e creatività. Non devono nemmeno essere giochi troppo insistenti sul passato, perché la cosa importante è, invece, la fiducia nella narrazione. Pensa che la
divulgazione delle autobiografie degli immigrati detenuti possa contribuire a
cambiare certi pregiudizi nei loro confronti? No, credo che non basti. Io penso che, per cambiare i
pregiudizi, a livello dell’opinione pubblica, servano allora delle iniziative
più efficaci per diffondere queste esperienze, come dei festival di narrazione
interculturale, cioè delle manifestazioni in cui gli stranieri dimostrino,
raccontando di sé, presentando pagine dei loro romanzi, che hanno una cultura,
un acume nel leggere la loro condizione e anche la nostra condizione di
occidentali. Una scrittura, da sola, se non è sostenuta da iniziative culturali e pedagogiche che vanno nella direzione di un aiuto a queste storie, è troppo poco per conservarle, così rischiano di disperdersi. La nostra
esperienza è quella di fare un giornale con molte storie raccontate.
Nell’opinione comune, spesso lo
straniero è il criminale, ma se invece una persona comincia a leggere le
storie di Imed, Nabil, Omar, e a vedere perché uno straniero ha lasciato il suo
paese, come è arrivato in Italia, che cosa cercava, che cosa ha invece trovato,
in qualche modo poi non può non capire che dietro l’identità dello
“straniero criminale” ci sono molte storie di persone reali, con fallimenti,
tentativi di vite diversi, paure e delusioni. Questa esperienza fa parte, comunque, di una lettura e di una scrittura che non sono effimere, che si collocano dentro un progetto di lavoro preciso, ed allora i risultati possono essere davvero interessanti. Da certi
racconti provenienti dal carcere e anche dalle riflessioni di alcuni scrittori,
a volte pare che la detenzione potrebbe avere una funzione pedagogica. Lei è
d’accordo con questa opinione? Non so se quella del carcere sia una funzione pedagogica, ma certamente rappresenta uno scarto nella vita, nell’esistenza, e qualche evento lo deve provocare. Io non credo che il carcere sia la soluzione, però costituisce uno stacco, una rottura, un cambiamento. Il problema è di tirar fuori chi sta in carcere dall’immobilità, e già la scrittura, in qualche modo, mobilizza… ma è troppo poco! Nel carcere bisogna introdurre il lavoro, ma un lavoro che abbia ampi margini di creatività e di innovazione.
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